La nostra logica va in controcircuito nel riconoscere il pianto come beatitudine: non è l’esperienza del dolore da esaltare, ma la certezza che la consolazione non è un’illusione e dobbiamo consegnarci all’abbraccio di Dio. Di Suor Ebe
Continuiamo la nostra riflessione mensile sulla scia delle Beatitudini. Siamo alla seconda Beatitudine: «Beati quelli che sono nel pianto perché saranno consolati» (Mt 5,4). Io sono sbalordita e meravigliata ogni volta che vedo come il Signore accompagna il nostro cammino!
E sono certa che non sia un caso che la riflessione sull’afflizione coincida proprio con questo tempo che viviamo, in cui ci troviamo a fare i conti con la malattia, la solitudine, la sofferenza nostra e degli altri! Questa Beatitudine è una delle più incomprensibili per noi, eppure è la chiave che ci introduce alla logica fondante del Vangelo: la Pasqua. C’è una parola che a noi fa allergia, il “pianto”. Alla nostra logica fa cortocircuito, e direi giustamente, il fatto di riconoscere come beatitudine il pianto. Se pensate così siete sani! In realtà, la pienezza di vita annunciata sta nella consolazione promessa, non nel piangere!
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C’è modo e modo di stare nel pianto, e non tutti i modi ci conducono ad essere consolati. Il pianto, la sofferenza, il dolore sono stati inevitabili nella vita, ci dobbiamo fare i conti. Spesso ci sentiamo spaventati dall’idea di soffrire e facciamo di tutto per evitarlo. Vedo molti che, per sfuggire alle situazioni di pianto, anestetizzano pensieri e vissuti, vivendo fuori di sé, perdendo completamente il contatto con il proprio corpo, con la propria interiorità e si rifugiano in un continuo divertimento o svago, ad ogni costo. Oppure io avevo un’altra modalità: essendo sempre stata una persona coraggiosa e determinata, ho sempre affrontato di petto le difficoltà, cercando in me stessa le risorse per fronteggiarle. E sapete? Ci sono sempre riuscita, solo che non mi accorgevo che pian piano stavo sacrificando parti di me, della mia umanità. Mi indurivo un po’ alla volta, perdendo sempre di più la capacità di piangere per me e per gli altri. Ma ad un certo punto della vita, quando le cose da tenere sotto controllo erano troppe ed io ero sola di fronte ad esse, sono entrata in crisi. Ecco, in questa crisi ho conosciuto un modo diverso di stare nel pianto. È lo stile del povero, come abbiamo visto nella Beatitudine precedente: riconoscere che non posso tutto, che di fronte a certe situazioni sono impotente, che non ce la faccio da solo!
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Qui si apre lo spiraglio della SPERANZA! Chi l’ha mai detto che ce la devo fare da solo? Questo è un grande inganno! Trovo molto bella, vera e umana, la canzone di Giorgia “Credo”, che dice: «Credo nelle lacrime che sciolgono le maschere». Le lacrime purificano il cuore, lo lavano da tutte le sporcizie e le menzogne che ci raccontiamo spesso anche da soli, ci restituiscono la verità di noi stessi! La consolazione non ce la possiamo dare da soli, viene necessariamente da qualcun altro. Nell’esperienza di consegnarci a qualcun altro ritroviamo la nostra identità primaria di figli. Prima di tutto figli di un Padre che ci consola ogni volta che ci apriamo alla relazione con Lui e gli apriamo il nostro cuore. E poi anche ci ritroviamo come fratelli: essere fratelli è poter contare gli uni sugli altri, potersi affidare reciprocamente i propri pesi, dare e ricevere consolazione. Avere il coraggio di aprirsi a questo ci dona uno spessore relazionale, ci rende più umani, più profondi, più solidi. In questo tempo difficile, credo che la chiamata e la risorsa da attivare sia proprio questa: coltivare relazioni fraterne, solidali e reciproche.
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