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All’Ospedale Sacco di Milano, il cappellano racconta: personale esausto, ma non molla

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Lucandrea Massaro - pubblicato il 13/03/20

Turni massacranti, reparti che esplodono di contagiati ma tanta voglia di fare il proprio lavoro: curare chi sta male.

«L’ospedale è irriconoscibile. Quasi tutti i reparti sono stati riconvertiti per accogliere i pazienti affetti da coronavirus. C’è la zona degli infettivi, con i malati più gravi, e quella degli isolamenti e delle quarantene» dice così don Giovanni Musazzi, cappellano dell’Ospedale Luigi Sacco dal novembre 2018 (insieme a don Mauro Carnelli) al sito di Tempi.it per raccontare, dal di dentro eppure da un punto di vista diverso da quello dei medici, la situazione di Milano, uno degli epicentri dell’epidemia in Italia. L’Ospedale Sacco è un centro di eccellenza in Lombardia, e dunque in Italia, e ha subito più di altri il colpo inferto da questo virus inatteso.

Don Giovanni racconta di come il personale stia reagendo con una dignità e una forza d’animo inattesi, lavorando 12-13 ore al giorno, rinunciando agli affetti, qualcuno addirittura non torna a casa per paura di infettare la famiglia, altri ancora tornano solo per giocare un po’ coi figli, riposare e ritornare subito al lavoro. Niente ferie, niente vacanze, niente turni. Tutti lavorano: medici, infermieri, ausiliari.

«Il personale sanitario che vedo non è affatto scoraggiato, solo fisicamente stanco. Voglio sottolineare che non ci sono solo medici o infermieri, anche gli ausiliari stanno svolgendo un lavoro incredibile. Guadagnano poco più di mille euro, ma all’alba sono qui per tenere tutto pulito e ordinato, anche i reparti degli infettivi. Chi li vede, magari, chiede loro solo come stanno i pazienti o come va l’ospedale. Ma hanno pure bisogno che qualcuno si prenda cura di loro. Questo è il mio lavoro adesso».

Nel suo lavoro di cappellano, don Giovanni era abituato a stare a contatto con la sofferenza, a potersi accostare – pur nelle singole situazioni più complesse – per una parola di conforto, per distribuire l’eucarestia, per amministrare i sacramenti. Ma adesso è tutto più difficile

«Insieme ai medici sto studiando delle formule per riuscire a incontrare chi è in quarantena. Purtroppo raggiungerli, parlare con loro, portare la comunione non sono cose scontate. Nei prossimi giorni, forse nelle prossime ore, andrò a trovare una persona che mi ha chiesto i sacramenti, accompagnato da un infermiere».

E così cambia la missione:

«Il mio lavoro quotidiano in questo momento è soprattutto quello di sostenere i medici, chiedere come stanno loro e i familiari, sapere se hanno mangiato o dormito».

Ma ha anche deciso di non far mancare la presenza del Signore, specie in questi giorni difficili

«Nella giornata ho pensato a due punti fermi: dalle 8 alle 9 e dalle 11.30 alle 12.30 facciamo sempre due ore di adorazione eucaristica in chiesa. Così le persone possono entrare alla spicciolata e pregare un po’. Anche i malati che non possono venire sanno che in cappella c’è sempre qualcuno che prega per loro e che si ricorda di loro. Anche se non possiamo raggiungere i pazienti, loro sanno che non li abbiamo abbandonati».

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