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Non spetta a te essere Padre, ma essere il cambiamento che vorresti negli altri

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Ruud Morijn Photographer|Shutterstock

don Luigi Maria Epicoco - pubblicato il 10/03/20

Non spetta a noi essere Padri: è un peso che non riusciremmo a sostenere, che ci condanna all'ipocrisia. Quello che possiamo fare è guardare a noi stessi: essere il cambiamento per primi, a partire dagli atteggiamenti e anche dalle parole che usiamo, quelle che spesso ci deviano.

In quel tempo, Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo: «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno. Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito. Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini: allargano i loro filattèri e allungano le frange; amano posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare “rabbì”dalla gente. Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo. E non fatevi chiamare “maestri”, perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo. Il più grande tra voi sia vostro servo; chi invece si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato.»

Matteo 23,1-12

Il duro rimprovero che Gesù rivolge agli scribi e ai farisei riguarda noi tutti, perché Gesù non si sta rivolgendo a una categoria di uomini e basta ma a una mentalità che serpeggia nel cuore di ogni uomo:

Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito. Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini: allargano i loro filattèri e allungano le frange; amano posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare “rabbì” dalla gente.

Nelle parole di Gesù incontriamo l’analisi più chiara della mentalità farisaica che Egli condanna. Innanzitutto il voler signoreggiare sulla vita degli altri dicendo sempre a tutti ciò che dovrebbero fare senza mai accorgersi che la prima cosa da fare è essere noi stessi quel cambiamento che pretendiamo dagli altri. La seconda caratteristica viene da quel bisogno negativo di vivere sempre cercando consenso, ammirazione, apparenza, senza rendersi conto che chi vive solo volendo mettere a credere qualcosa agli altri, arriva fino al punto di non sapere nemmeno egli stesso chi è. È una sorta di nevrosi che spacca la vita e la condanna all’ipocrisia. È pensare di contare qualcosa solo perché gli altri tengono fisso lo sguardo su di noi. È atteggiarsi a guru quando in realtà noi siamo i peggiori di tutti, quelli che per primi dovrebbero fare un bagno di umiltà e dichiararsi i più bisognosi di misericordia. Gesù condanna chi vive secondo questa logica, e mette in guardia da tutti coloro che in maniera anche latente vogliono porsi come “piccoli dio” agli occhi degli altri. Per questo vieta di usare la parola “maestro” e “padre”. Non è un divieto di vocabolo, ma è un campanello d’allarme che serve a ricordare che solo uno è abbastanza affidabile da poter essere seguito e onorato di paternità senza incorrere in nessun ripensamento: Dio. Per noi invece vale la parola finale:

chi si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato.

#dalvangelodioggi

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