Circostanze straordinarie richiedono risposte straordinarie e così dopo averci pensato a lungo mi decido a interrompere per un attimo il mio eremitaggio per dire due parole su questa epidemia che ci sta interrogando profondamente, tanto da scuotere certezze e stili di vita che credevamo consolidati.Non mi appartiene la polemica politica e non voglio interrogarmi sull’opportunità o sull’efficacia dei provvedimenti che lo stato e la Chiesa stanno prendendo in questa circostanza. Come gli antichi monaci ho lasciato dietro di me (almeno per ora) tutte le guerre per concentrarmi sulla sola che abbia davvero significato: la guerra del cuore. D’altra parte però proprio questo forse mi aiuta ad avere uno sguardo diverso sulla realtà e mi dà la possibilità di offrire un aiuto, per quanto piccolo. È la Carità quindi che mi impone di non tacere.
Tutti si concentrano su come impedire al CoVid 19 di contagiare il nostro corpo, e fanno bene, ma dal mio eremo io vedo un altro virus, assai più pericoloso, assediarci e insidiarci, ed è il virus della paura. È più pericoloso perché il nostro maestro ci ha insegnato a non temere chi ha il potere di perdere il corpo, ma chi ha il potere di perdere l’anima, e davvero la paura, come dice il giovane Paul Atreides in “Dune”, è la piccola morte dell’anima.
La prima domanda è: perché Dio permette tutto questo?
Non è una domanda nuova ovviamente: da sempre gli uomini si sono interrogati sul perché delle malattie e della sofferenza in genere e anche in questo caso, come in quasi tutti gli altri, credo che possa valere la risposta di Gesù ai suoi: “questa malattia non è per la morte, ma perché si manifesti la Gloria di Dio” (Gv 11,4). Dio permette il male perché gli uomini nel dolore e nella sofferenza imparino ad amare di più, e così mentre tutti ci invitano ad avere paura, la sfida che dobbiamo recepire è quella di crescere nell’amore: come usare di questa epidemia per manifestare la Gloria di Dio?
Del resto il ruolo dei virus in natura è proprio quello di agenti del cambiamento: spesso è proprio affrontando e superando malattie che l’organismo si fortifica generando anticorpi che lo rendono migliore.
Non sto esortando a non avere paura. Quando il pericolo è reale non averla è da sciocchi. Sto dicendo però che non permetterò alla paura di impedirmi di amare. Nel pericolo ci sono due possibili reazioni contrapposte, entrambe sbagliate: chiudersi a riccio contro ogni possibile fattore di rischio, assumendo un atteggiamento difensivo che maschera a malapena l’egoismo di chi non vuole perdere il suo status e i suoi privilegi, oppure negare il problema, cacciare la testa sotto la sabbia e far finta che non ci riguardi; e anche questo atteggiamento è dettato in fondo dall’egoismo, perché non volendo cambiare il nostro stile di vita ci irrigidiamo nel rifiuto della realtà che cambia intorno a noi.
Dunque quale supplemento di amore richiede da noi il virus? Quali anticorpi benefici deve attivare nel nostro organismo spirituale?
Il grande male portato da questa epidemia, come da ogni altra, è l’isolamento, reso necessario dalle esigenze sanitarie -certo- ma durissimo da sopportare per i cuori e le persone. In uno dei più straordinari racconti di epidemie, A. Camus scrive: “Bisogna dirlo, la peste aveva tolto a tutti la facoltà dell’amore e anche dell’amicizia; l’amore, infatti, richiede un po’ di futuro, e per noi non c’erano più che attimi” (A. Camus, “La peste”). Ciò che dobbiamo fare allora è innanzitutto inventare strategie nuove per combattere l’isolamento, fermo restando il rispetto delle norme sanitarie.
In questo senso la malattia cade in un ambiente già molto fragile. Forse mai nella storia è esistita una società più individualista e meno “sociale” della nostra, e in questo senso le prescrizioni sanitarie dettate dall’epidemia non fanno che evidenziare una situazione di fatto già preesistente. Così, come nel romanzo di Camus, il virus diventa metafora che impietosamente svela la realtà di uno stile di vita anch’esso malato e assai prima e peggio dei nostri corpi.
In questa circostanza le agenzie di massa, Chiesa compresa, sono paralizzate; è quindi il momento per i singoli individui di assumersi la responsabilità di rompere le barriere e andare oltre la paura. Questo è il tempo del coraggio. Non si può più delegare l’amore -se mai si è potuto- e ognuno deve farsi carico del suo pezzetto di realtà. Penso ad esempio agli anziani a cui si chiede di seppellirsi in casa per quindici giorni, aumentando così quell’isolamento che anche a prescindere dal virus li stava uccidendo. Ognuno di noi nel suo palazzo ha qualche anziano solo: nulla vieta di suonare il loro citofono e chiedere se hanno bisogno di qualcosa. Anche piccole cose pratiche, come fare la spesa ad esempio, possono essere di grande aiuto in questa situazione. Penso alla comunità cinese, che sta sopportando l’impatto più duro dell’isolamento. Ben vengano gesti spettacolari, come la serata collettiva al ristorante cinese organizzata di recente a Milano, ma quanto di più conta il rapporto individuale di amicizia e vicinanza e compagnia con i tanti cinesi, o asiatici in genere, che vivono e lavorano porta a porta con noi?
Se mi si consente, non è questo il tempo di vietare. O forse sì, qualche divieto è pur necessario e dettato dalla prudenza, ma è innanzitutto il tempo di esortare, perché anche oggi vale la frase di C.S. Lewis che invitava gli educatori a non preoccuparsi di spegnere incendi, ma piuttosto di irrigare deserti. Ed è in cuori già inariditi che la paura sta facendo crescere il deserto!
Può essere necessario sospendere incontri di catechesi e momenti di comunione nelle chiese, ma al tempo stesso la carità pastorale deve spingerci a trovare nuovi modi di nutrire la speranza e il coraggio del popolo di Dio. Caritas Christi urget nos! Non possiamo abbandonare il nostro popolo quando vediamo arrivare il lupo. E se è necessario un supplemento di fantasia creativa, bene! Questo è forse proprio quell’anticorpo di cui abbiamo bisogno, che renderà più forte l’organismo ecclesiale. Se perfino la scuola si è attrezzata per fare lezioni da casa, quanto di più potremmo e dovremmo fare anche noi?
Se la malattia distrugge il tessuto sociale e ci fa scoprire tutti individui, monadi impazzite, allora forse questo è il momento di ripartire con decisione da quella che è l’anima del Cristianesimo: l’incontro tra persone, il rapporto uno a uno, che, unico tra tutti, può veramente esprimere l’amore.