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“Ho potuto abbracciare mio figlio nelle sue 9 ore di vita”

EMMA

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Mariana de Ugarte Blanco - pubblicato il 27/02/20

“Il momento in cui me lo hanno messo sopra e mi ha preso il dito con la mano è valso tutto il dolore e tutte le lacrime”

A 26 anni, sposata da poco, Emma Serrano de Pablo è rimasta incinta del suo primo figlio, Pepito. Le batteva forte il cuore, e lei e il marito non vedevano l’ora che arrivasse.

Dopo 16 settimane di gravidanza, il ginecologo ha individuato un’anomalia cranioencefalica in Pepito, chiamata anencefalia o acrania, consistente nell’assenza totale o parziale del cranio, del cuoio capelluto e della massa cerebrale, una diagnosi incompatibile con la vita.

In questa situazione, i medici hanno parlato alla giovane coppia della possibilità di porre fine alla gravidanza mediante un aborto, per evitare l’angoscia durante la gestazione e il parto sapendo che il figlio sarebbe morto.

Si tratta di un’ipotesi ormai normalizzata, che lascia la scelta a chi a volte crede di avere diritto e potestà decisionale sulla vita del proprio figlio. “Come madre, come potrei porre fine alla vita di mio figlio?”, si è chiesta subito Emma.

Sia lei che il marito Javier non hanno esitato. La vita del loro bambino era al di sopra di tutto, e ne avrebbero rispettato il corso malgrado l’immenso dolore che provavano.

In un’intervista realizzata da Folksixty, Emma ha spiegato con la fermezza di chi vive con delle convinzioni “Credo nella vita al di sopra di tutto, la vita fin dal concepimento, perché l’ho vissuta così”.

La vita di Pepito già esisteva, c’era un cuore che già batteva. Era il loro bambino.

I coniugi hanno subito voluto condividere la situazione con le loro famiglie, dicendo che avrebbero lotato per il figlio fino alla fine.

La rivoluzione di Pepito

Durante tutta la gravidanza hanno ricevuto telefonate e messaggi di sostegno e incoraggiamento da parte di familiari, amici e perfino sconosciuti che si erano uniti alle catene di preghiera che si offrivano per Pepito e i suoi genitori.

Emma e Javier dicono che la loro fede, che fino a quel momento era stata “teorica”, è aumentata, e hanno iniziato a viverla davvero. Emma sentiva che grazie a tutto il sostegno che li circondava, che grazie alla preghiera di altri il carico del dolore era inferiore, come se si dividesse tra tutti coloro che li tenevano presenti.

Una gravidanza piena di incertezze

Nessuno assicurava che la gravidanza arrivasse a termine, e non si poteva neanche dire quanto tempo avrebbe vissuto il figlio nel caso in cui fosse arrivato al parto, o se sarebbe nato vivo o morto.

Emma ha confessato che ogni ecografia era una finestra sulla speranza: “Andavo sempre con la speranza di un miracolo, che la diagnosi fosse scomparsa”.

“9 ore che sono tutta una vita”

Emma e il marito affermano che la loro vita familiare non è durata solo le 9 ore in cui hanno avuto il figlio tra le braccia, e che nei nove mesi precedenti si sono goduti la genitorialità essendo felici e sorridendo, pur nella sofferenza che provavano sapendo che il figlio non sarebbe sopravvissuto.

Quelle 9 ore, anche se sembrano poche, sono servite per conoscere il loro bambino, parlargli, baciarlo, e anche alcuni familiari hanno potuto vedere Pepito.

“Il momento in cui me lo hanno messo sopra e mi ha preso il dito con la mano è valso tutto il dolore e tutte le lacrime. È stata una soddisfazione che non cambierei per niente al mondo”, ha affermato Emma, che continua a sorprendersi di fronte alla durezza dell’essere umano raccontando come in quelle ore in cui hanno avuto il figlio tra le braccia questi si aggrappava alla vita in ogni respiro.

Emma e Javier hanno accompagnato Pepito in ogni istante della sua breve esistenza. “Abbiamo fatto, come farebbe qualsiasi genitore, tutto quello che potevamo per lottare per lui”.

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