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«Era mio padre, non un numero» parla la figlia di Adriano Trevisan, morto per coronavirus

HUG GRANDFATHER
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Paola Belletti - pubblicato il 26/02/20
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Si chiama Vanessa, una dei tre figli della prima vittima italiana accertata del coronavirus. E in questi giorni rivendica giustamente e compostamente il proprio dolore: era papà, marito e nonno. Aveva amici, passioni, ex colleghi. Non può essere ridotto alla sua morte.Ci avevo proprio pensato. Ai suoi cari, ai nipoti che magari ci sarebbero stati, a quelli che lo avrebbero pianto come amico, ex collega, ma soprattutto marito e papà.

E ora la figlia di Adriano Trevisan, l’anziano deceduto venerdì scorso all’ospedale di Schiavonia, parla compostamente del proprio dolore, comprensibilmente ma sempre ingiustamente sacrificato, commissariato meglio, dall’invadenza del tema costantemente in prima pagina: il coronavirus.

E invece la sua testimonianza è proprio la chiave di tutto: perché temiamo tanto questa epidemia? Perché è pervasiva e può essere pericolosa fino alla morte. E la morte ci porta via chi amiamo.

Se temiamo troppo e ci agitiamo in modo sconsiderato dobbiamo approfittare di questa condizione per chiederci le tre cose che contano davvero in ogni vita: cosa sono nato a fare? Dove vado dopo? E quelli che amo?

Chi era Adriano Trevisan prima di essere la prima vittima italiana da coronavirus?

Il settantasettene di Vo’ Euganeo è morto dopo dieci giorni di ricovero e sul suo decesso la procura di Padova ha aperto un’inchiesta, per verificare i protocolli, le misure di contenimento. Ma intanto la sua storia deve rientrare nell’alveo che gli spetta: quella del dolore, del pianto di chi lo amava, del ricordo e della preghiera.

Il settantasettene di Vo’ Euganeo è morto dopo dieci giorni di ricovero, non si è fatto nemmeno in tempo a trasferirlo a strutture più attrezzate, riferiva il governatore Zaia.

Era papà di tre figli, tra cui Vanessa, quarantacinque anni, ex sindaco di Vo’, centro di 3300 anime circa, tutte spaventate, ora.

Era mio padre, era il nonno de eapiccoa

“Un leone allegro, a 78 anni era autosufficiente, guidava la macchina e usciva da solo. Nessuno in paese lo chiamava Adriano, per tutti era “il moro” per via della sua carnagione scura. Quand’era giovane ha fondato con 4 amici una ditta edile con decine di dipendenti, ha costruito mezza provincia di Padova. Appassionato di musica lirica, andava all’Arena di Verona a vedere i concerti”. (Repubblica)
Amava giocare a carte al bar con gli amici, la sua passione era la pesca, parlava di politica. Non andava in chiesa e i viaggi proprio non erano nella sua lista di cose piacevoli da fare:
Pensi che quando in ospedale ci hanno chiesto se di recente fosse stato all’estero, mia madre ha risposto che neanche le aveva fatto fare il viaggio di nozze. (Ibidem)
Con la figlia discuteva anche in modo acceso, soprattutto di politica. Ma quello che spegneva ogni eccesso era lei, la piccola Nicole, la figlia di Vanessa ora tredicenne.
La chiamava eapiccoa , in dialetto veneto. Prima di Nicole ero io la sua eapiccoa . Siamo una famiglia molto unita. Vorrei che mio padre fosse ricordato per come è vissuto, non per come è morto“. (Ibidem)

Voglio che il dolore naturale per la sua perdita torni al centro e che smetta di essere solo un numero

Era anziano, certo, ma quando muore qualcuno è sempre papà, marito, nonno, amico di qualcuno. E anche il più abbandonato tra noi non è mai dimenticato da Dio che è più devoto della più devota delle mamme. Nemmeno per chi di Dio si è dimenticato per gran parte dei propri giorni terreni. Che ne sappiamo della sua coscienza, della battaglia nella sua anima, del soccorso soprannaturale che può avere ricevuto?
Cosa aggiunge dolore a dolore allora per Vanessa? Questo: che suo padre sia guardato come un caso, che sia etichettato come la vittima numero uno e basta. Che sia un numero e non la persona che è stato e che nell’affetto dei suoi cari resterà, con una ricchezza indimostrabile ma evidente all’esperienza di ognuno di noi. Non c’è metro per valutare quanto siamo preziosi.
Cosa l’ha disturbata?
“Che sia diventato una cifra. Vittima numero uno del coronavirus. Poi ci sono stati il due, il tre, il quattro… e hanno detto: “però era vecchio”, come se la sua età dovesse attenuare il dolore che provo, come se la sua scomparsa fosse meno importante. È morto venerdì e solo adesso che devo sbrigare le pratiche burocratiche, chiamare la banca, telefonare al notaio, comincio a realizzare.Stamani mi hanno chiesto di inviare il suo documento d’identità, sono andata a frugare nel suo portafogli e ho capito che mio papà non c’è più”.
Le condizioni generali del signor Adriano, ricorda la figlia, erano rese precarie da patologie pregresse, soprattutto a carico dell’apparato cardiocircolatorio, per cui è vero che il coronavirus lo ha ucciso ma con il concorso della sua debilitazione generale.
Ci fa bene stare di fronte allo sdegno composto di questa donna. Non dobbiamo dimenticare, nemmeno ai tempi del coronavirus, che al centro ci sono le persone, il loro valore inestimabile, la loro storia normale ma preziosissima per chi le ha amate e soprattutto nell’ottica dell’eternità. Nessuno è un numero, nessuno vale l’altro, nessuno di noi è mai la sua malattia, le circostanze della morte (che è un male ma non più definitivo da quando Cristo l’ha vinta!), l’indice infettivo.