Un momento scolastico realmente educativo, quello in cui nascono queste domande: dov’eri, Signore, quando mia mamma si è ammalata? Quando il mio amico mi ha tradito? Che cosa siamo per te? Tu conoscevi il mio dolore?Di Michele Benetti (37 anni, è in missione a Boston dove insegna in una scuola superiore)
Fin dagli anni della mia formazione, la Fraternità San Carlo mi ha chiesto di insegnare nelle scuole superiori. Il mio ministero si svolge per la maggior parte tra le aule dei licei americani dove, dalle 7 alle 15, insegno Fisica e Religione. Nella mia storia, lo studio della Fisica è stato uno di quegli amori da cui non ti separi mai, neanche se ci provi. Cerco di passare ai miei studenti un po’ della passione che gli amici più grandi degli anni del Clu (gruppo degli universitari di Comunione e Liberazione- NdR), ora quasi tutti professori universitari, mi consegnarono quando ero matricola. C’è una bellezza nel riconoscere la corrispondenza tra la nostra mente e le leggi che muovono tutto. Momenti di stupore come quello in cui, per l’ennesima volta, spiego la natura dell’accelerazione dovuta alla gravità, di come un libro e un foglio di carta possano cadere sul banco nello stesso istante. Sono momenti che riempiono il cuore.
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Ma forse l’insegnamento della Religione mi è diventato ancora più caro. In particolare, amo insegnare la Bibbia ai miei studenti. Ci sono molte ragioni di questo amore. Alain Bloom, il grande scrittore del famoso libro La chiusura della mente americana, diceva che l’unico testo autenticamente americano è la Bibbia, che unisce le mille anime dell’America. Quelle storie, quelle parole, quelle immagini così distanti eppure così incredibilmente familiari, hanno una potenza tale da aprire anche i cuori più chiusi. Uno dei grandi appuntamenti di ogni anno, per esempio, è il racconto e la lettura del Libro di Giobbe. Nel drammatico dialogo di Giobbe con i suoi amici e con Dio, ad esempio, sulle ragioni della sofferenza innocente, i miei studenti trovano finalmente parole per le domande che da tempo muovono il loro cuore. Le domande di senso che sembravano essere proprio la ragione della distanza da Dio diventano occasione di incontro con il Mistero. Dov’eri, Signore, quando mia mamma si è ammalata? Quando il mio amico mi ha tradito? Che cosa siamo per te? Tu conoscevi il mio dolore? Perché mi sono sentito ferito proprio da quelli che volevano aiutarmi?
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L’anno scorso, però, il momento più bello è capitato insegnando il Vangelo. Raccontavo del desiderio costante di Gesù di pregare, anche dentro le giornate più dense, piene d’incontri, guarigioni ed esorcismi. Raccontavo di quanto il dialogo di Gesù con il Padre colpisse sempre i discepoli; di quanto lo vedessero pregare così profondamente; di come la vera ossessione di Gesù non fosse tanto la pace del mondo o la guarigione di tutti i malati ma l’obbedienza al volere del Padre. A quel punto, Veronica, la studentessa del primo banco, mi chiese: “Ma se Gesù obbediva così tanto al Padre, come poteva essere uguale al Padre?”.
Da quel giorno non smetto di pensare a questa domanda. Per noi uomini moderni, ma anche per me personalmente, l’obbedienza si capisce, al massimo, come un momento della vita. Obbedisco ai miei insegnanti per possedere ciò che mi insegnano. L’obbedienza sarebbe così una virtù in funzione di una gloria futura in cui non sarebbe finalmente più necessario obbedire. Non si potrebbe forse raccontare così la storia del nostro tempo? Sì, le cose che dice Gesù vanno bene, ma solo se si rimane individui autonomi e autodeterminati. Ma la gloria di Gesù era proprio nell’obbedire completamente al Padre. La sua umiltà coincideva con la sua glorificazione suprema, come si vede clamorosamente sulla croce. Diventare sempre più radicalmente figli ci fa come Dio. Cosa c’è di più bello che imparare tutto questo insegnando, in un’ordinaria ora di Religione?
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