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Il vescovo santo che durante il colera negò la Comunione

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Una penna spuntata - pubblicato il 24/02/20
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I provvedimenti pastorali di mons. Delpini, volti a minimizzare le occasioni di contagio da Coronavirus in circostanze di sinassi liturgica, destano scalpore in certa opinione pubblica cattolica. Se il Codice di Diritto Canonico parla chiaro (e dice la legittimità di tali ricorsi), la storia della Chiesa (neppure troppo remota) è ancora più utile alla bisogna. Ecco cosa accadde a Pavia durante l’epidemia di colera scatenatasi nella metà del XIX secolo.Ommioddio, non c’è più religione, questa Chiesa va a scatafascio! I santi preti di una volta si stanno rivoltando nella tomba!! E questi nostri pavidi vescovi terrorizzati dal contagio ci negano il diritto di ricevere l’Eucarestia proprio quando ne avremmo più bisogno!!1!!1!

Èpossibile (ma non troppo probabile) che qualcuno l’abbia detto per davvero, quando il provvedimento entrò in vigore nel 1854.
L’epidemia in questione era quella di colera e il provvedimento recava la firma dal venerabile Angelo Ramazzotti, vescovo di Pavia, per il quale è attualmente in corso la causa di beatificazione.

Cattolico indinniato che te la prendi con la CEI: stacce.

***

Vi parlo del caso pavese perché è quello che conosco meglio, avendolo studiato professionalmente qualche anno fa. Ma la Diocesi di Pavia non è certo stata l’unica a prendere provvedimenti atti a contenere l’epidemia. Mostrando, con ciò, un buonsenso non comune, che va a tutto merito di monsignor Ramazzotti e del suo predecessore, il vescovo Luigi Tosi.

Se, oggi, ci sentiamo colti alla sprovvista dall’arrivo prepotente del coronavirus nelle nostre diocesi, i vescovi di inizio Ottocento se la passavano peggio di noi. Ché il colera era ‘na strana bestia aliena come non se n’erano mai viste altre, nel momento in cui, per la prima volta, la malattia entra in Europa.

Non è che i medici occidentali non ne conoscessero l’esistenza. Vasco da Gama ne aveva descritto i sintomi con dovizia di particolari ed è possibile che anche Ippocrate conoscesse la malattia. Ma, banalmente, la consideravano una di quelle brutte malattie esotiche che, per fortuna, non arriveranno di certo dalle nostre parti.

Agente Patogeno Colera è un tipino interessante, di cui, eventualmente, racconterò la storia in una puntata a parte. Per il momento, limitatevi a visualizzare la situazione:  siamo nel 1830 e l’Europa è stretta nella morsa di una malattia schifosissima, mai vista prima e alquanto diversa dalle altre malattie epidemiche fino a quel momento note, anche a livello di sintomatologia. Mentre i medici brancolano nel buio più totale, un’unica certezza comincia a farsi strada: il colera è, effettivamente, contagioso. Non si capisce come contagi, ma indubbiamente riesce a farlo.

Lo dimostrava il buon senso (eh beh), ma lo dimostrava anche il caso eclatante del Lombardo-Veneto. Dopo che – verso la metà dell’agosto 1831 – la città di Vienna aveva segnalato i primi casi, il governo del Lombardo-Veneto aveva istituto un cordone sanitario rigidissimo che lo isolava dal Tirolo e dagli Stati Sardi.
E, in effetti, tanto bastò a risparmiare il Lombardo-Veneto dalla prima grande ondata di contagio. Il colera invase l’Austria, si fermò ai posti di blocco organizzati dai Lombardi, cambiò strada, salì in Germania, da lì salpò per l’Inghilterra e riattraversò lo Stretto puntando sulla Francia. L’intera Europa era (letteralmente) immersa in un mare di cacca, ma il Lombardo-Veneto se ne stava tranquillo per i fatti suoi.

Le cose cominciarono a mettersi male solo quando, nel luglio del 1835, la gente prese a morire a frotte nel Regno di Sardegna. I Savoia temporeggiarono, fecero passare troppo tempo prima di ordinare una quarantena: nell’arco di pochi mesi, il colera aveva raggiunto la Lombardia.

Pavia, Diocesi di confine, divenne rapidamente terra di trincea. Il 14 luglio 1836 il vescovo Luigi Tosi indirizzava alla popolazione la prima di tante lettere circolari dedicate all’epidemia.

Già da alcuni anni appaiono segni manifesti della collera del Signore provocata dai nostri peccati. Dopo aver afflitte varie parti dell’Europa con un terribile flagello chiamato dalle più remote parti del mondo, […] anche a questa Diocesi si accosta ora il Signore e fa sentire la sua voce severa, benché sempre paterna.

La lettera parte tenendosi sul generico e disseminando buoni sentimenti. Il vescovo si rivolge a “i Proprietarj di fabbriche e manifatture, i Padroni di botteghe, i Fittabili” affinché non manchino di corrispondere lo stipendio con regolarità, di modo tale che la denutrizione non aggiunga un ulteriore fattore di rischio alle fasce deboli della popolazione.
Concede, dietro permesso pontificio, una indulgenza di cento giorni al personale sanitario che assisterà i malati di colera (perché, ehm: altrove, si erano registrati imbarazzanti casi di medici che se la davano a gambe pur di evitare il contagio). Inoltre, estende tale concessione a chi sosterrà i medici (la ricerca, diremmo adesso) attraverso “generose largizioni”. Non impone per il momento grandi scossoni alla vita religiosa, limitandosi a ordinare che

l’amministrazione del SS. Viatico, le Agonie, le Morti, i Suffragj per i malati Cholerosi siano annunziati con brevissimo tocco di campana.

Una precauzione di natura psicologica, ovviamente, volta a non fiaccare il morale della popolazione.

Precauzioni di natura decisamente più… concreta vengono imposte, invece, nella lettera che il vescovo Tosi invia a tutte le parrocchie l’8 agosto dello stesso anno.

La malattia è ormai arrivata sulle rive del Ticino e

nella presente circostanza di invasione in questa Città e Diocesi del fatale Morbo Cholera è importantissimo alla salute pubblica e al buon ordine che sia da tutti i RR. Parochi tenuto un prudente metodo uniforme nell’Amministrazione del SS. Viatico agli Infermi.

Amministralo a tutti, amministralo sempre, amministralo in quantità industriali perché giammai la Chiesa negherebbe l’Eucarestia a chi soffre, per la paura o la malattia?

Ehm, non proprio.

Quando il Paroco o Sacerdote chiamato ad assistere un infermo in grave pericolo della vita non sia moralmente certo che l’infermità non abbia alcuna partecipazione o relazione col Morbo Cholera, non amministrerà il SS. Viatico senza che sia preceduto il giudizio del Medico, che assicuri non esservi alcun sospetto di questo Morbo, ma l’infermità essere di tutt’altra natura.

La preoccupazione era solo in parte di natura sanitaria (…per quanto sia tendenzialmente una pessima idea avvicinare le dita alla bocca di un malato affetto da una malattia che si trasmette con la saliva. Ma le modalità di trasmissione non erano ancora note, all’epoca).
Vi stupirà: la preoccupazione era solo in parte di natura sanitaria, e in misura assai maggiore di natura religiosa. Essendo il colera una malattia che provoca scariche di vomito violentissime e frequenti, la Chiesa tremava al pensiero di amministrare la Comunione a un poveretto che, di lì a pochi secondi, avrebbe potuto vomitare l’ostia consacrata facendole far la fine del contenuto (infetto) di un pitale.

Altro che sospensione delle Messe! I santi preti dell’Ottocento negavano agli ammalati la possibilità di accostarsi per un’ultima volta all’Eucarestia – e non era nemmeno una questione puramente sanitaria. Più che altro, vi era un comune consenso sul fatto che il diritto del malato di domandare il Viatico non potesse prevalere sul dovere di esercitare la prudenza (anche nel trattare il Santissimo).

I malati di colera, dunque, potevano anche scordarsi di far la Comunione.
Il che non vuol certo dire che venissero lasciati a morire senza il conforto dei sacramenti, ovviamente. E infatti,

dove siavi anche solo legger dubbio o sospetto di Cholera si potranno bensì amministrare all’Infermo i SS. Sacramenti della Penitenza ed Estrema Unzione, ma non il SS. Viatico.

Non mi risulta che i Pavesi si siano mai sognati di protestare (o, se l’hanno fatto, questo non risulta né nei giornali d’epoca né nelle cronache parrocchiali che ho consultato).

***

A queste norme dettate dal buonsenso e dalla riverenza, si accompagnano ordini di natura più propriamente sanitaria. Il vescovo Tosi non arriva a sospendere le Messe, ma, ma nel luglio 1836, ordina con ferma decisione

che queste non siano prolungate oltre il vero bisogno; e che nelle Chiese sia mantenuta la maggior pulitezza e proprietà, e la possibile ventilazione; e in caso di bisogno sia fatto uso di que’ mezzi che l’Arte Medica suggerirà per la purificazione dell’aria.

Ma ‘na bella penitenza collettiva all’insegna del penitenziagite, ce la vogliamo mettere, monsignor vescovo?
Un bel rosario serale di massa, così riempiamo la cattedrale e magari la Madonna si impressiona positivamente?

Ehm, no.

È poi assolutamente vietata ogni altra Funzione straordinaria o Processione oltre le suddette, che non sia da Noi prescritta, e specialmente se si tratti di Chiese non ampie, alle quali concorra folla di Popolo.

Come se non bastasse, il vescovo Tosi abolisce pure i precetti del digiuno e dell’astinenza.
L’epidemia arriva in piena estate, ma la Chiesa dell’epoca vincolava all’astinenza dalle carni in tutti i venerdì dell’anno e incoraggiava digiuni assai frequenti, specie tra i religiosi.

Non così il vescovo, che anzi ordina con fermezza di evitare

particolari austerità di digiuni, di mortificazioni corporali; che anzi le regole di prudenza consigliano di osservare bensì per questo tempo un sistema di vita temperante, ma insieme mantenersi in vigore, sia per prevenire gli assalti del morbo in noi stessi, sia per tenerci disposti a prestare assistenza agli infelici che ne fossero colpiti. Ed è per questa ragione che Noi debitamente abilitati concediamo a tutti senza distinzione i Fedeli di questa nostra Città e Diocesi, fino a nuovo nostro avviso, la dispensa dall’uso dei cibi di magro in tutti i giorni in cui sono prescritti dalla Chiesa, permettendo l’uso di carni salubri, quali si convengono al vero bisogno attuale.

Un provvedimento che, peraltro, non stupì nessuno: da svariati secoli la Santa Sede aveva preso l’abitudine di dispensare dai precetti del digiuno e dell’astinenza (anche e soprattutto quaresimali) tutte le diocesi che erano colpite da epidemia o che presentavano in modo diffuso condizioni di salute precaria.

Uomo di vasta e raffinata cultura (fu, tra l’altro, il padre spirituale di Alessandro Manzoni), monsignor Luigi Tosi aveva indubbiamente avuto il merito di vedere lontano… e in modo assai illuminato. O illuminista.
Tra i vescovi europei, non fu certamente il solo a emanare provvedimenti volti a limitare il contagio. Ahimé, non tutti i presuli ebbero la sua prontezza, ma monsignor Tosi fu tra quelli che segnarono la strada.
Una strada che, qualche anno più tardi, di fronte a una seconda ondata epidemica, seguì senza esitazione anche il suo successore: il venerabile Angelo Ramazzotti.

La Comunione continuò a non esser distribuita agli ammalati; i fedeli continuarono a mettere in tavola pasti nutrienti tanto quanto glielo consentivano le loro tasche. Le Messe continuarono a non essere sospese, ma la prudenza suggerì in certi casi di moltiplicarle “onde non ci sia così il pericolo di un soverchio affollamento”. Funzioni straordinarie, processioni e rosari pubblici furono aboliti senza mezzi termini, per evitare pericolosi assembramenti.
Come implorava assai ragionevolmente il vescovo,

La prudenza cristiana […] ci consigli ad adoperare quelle misure di pulitezza e di igiene che anche dalla vigile autorità vennero prescritte.

Di nuovo: ai tempi di questo studio, ho cercato in lungo e in largo, ve lo assicuro. Eppure, nel marasma delle proteste irrazionali di ogni tipo che la popolazione avanzava contro la qualunque, non mi risulta che da nessuna parte qualcuno abbia mai osato criticare quel santo prete di una volta. 



Leggi anche:
Coronavirus: la testimonianza di un prete a Hong-Kong

Per la bibliografia, vi tocca fidarvi perché o mi auto-cito o vi rimando direttamente alle fonti d’archivio. Facciamo che vi rimando alle fonti di archivio e, in particolar modo, alle lettere circolari emesse dai vescovi Tosi e Ramazzotti negli anni: 1831 (8 agosto), 1836 (14 luglio; 15 novembre); 1854 (12 agosto; 21 agosto; 2 ottobre; 22 ottobre; 12 dicembre), 1855 (6 luglio; 10 luglio; 25 ottobre; 6 dicembre).

Qui l’articolo originale