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Segni religiosi e spazio pubblico: i necessari limiti di un rapporto

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 13/02/20
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Crocifissi, medagliette, coroncine e – fuori dal campo degli accessori personali – edifici di culto, monumenti pubblici o (perfino!) le stelle della bandiera europea: i motivi di frizione sulla persistenza di certe presenze simboliche non mancano, mentre è difficile spiegare (senza contraddizioni) quali ragioni consiglierebbero (soprattutto da parte dei credenti) l’accanimento nel mantenerle. Un recente saggio di Diritto ecclesiastico e un articolo de La Civiltà Cattolica in uscita oggi ci aiutano (insieme con Salviano di Marsiglia)

Da credente, non mi ha mai disturbato la presenza del crocifisso in alcuni luoghi pubblici italiani: a scuola – per dirla tutta – diventava soprattutto il catalizzatore di sguardi annoiati o il destinatario di preghiere adolescenziali quando c’erano compiti o interrogazioni; quelle volte, invece, che mi è capitato di visitare qualcuno in ospedale o in carcere… o di essere ricoverato io stesso in ospedale, ho particolarmente gradito quella presenza – mi faceva compagnia, mi con-solava.

Le ragioni dei non-credenti che devono importare ai credenti

Soprattutto in quei frangenti, non ho mai capito perché qualcuno dovrebbe irritarsi per la loro presenza, tanto più che praticamente mai a lamentarsene sono stati dei credenti non-cristiani (ricordo Abel Smith come una non luminosa eccezione a questo rilievo – e so che così lo ricordano anche non pochi musulmani): mano a mano sempre più chiaramente mi sono reso conto che i segni sacri del cristianesimo davano (dànno) fastidio praticamente solo a una rumorosa frangia di non-credenti per i quali l’unica laicità possibile è un “propulsivo ateismo”, come ebbe a dire Michel Onfray di Émile Poulat. Da credente, continuo a non condividere una simile posizione, ovviamente, ma sempre “da credente” (un credente non ripercorre ogni istante la distanza tra l’ateo e il Cielo?) capisco donde essa s’ingeneri, e capisco pure la domanda, l’obiezione mossa a quei simboli.

[…] lo Stato non usa questi simboli per la salvezza futura delle anime, ma per la salvezza presente di se stesso e dello status quo, riducendo così l’essenza del Cristianesimo, cioè Cristo stesso, ad un gioco politico, come fa il Grande Inquisitore di Dostoevskij, che ordina al Cristo di andarsene definitivamente per non essere d’intralcio al suo piano di governo.

Gustavo Zagrebelsky, Stato e Chiesa. Cittadini e cattolici, 17

Ecco uno di questi atei che mi sembra esprimere in modo condivisibile anche da parte mia una preoccupazione, e intendo una preoccupazione che è tale anche per me, proprio “da credente”: stante la solita approssimazione sulle anime e sul futuro (la fede non si limita al futuro e allo spirituale, ché nel mondo dello spirito conta quasi solo il presente, e lo spirito si dà solo nella carne), il rischio che Cristo venga banalizzato, ridotto a “simbolo”, a “patrimonio culturale”, a “valore condiviso” lo sento parecchio più bruciante di quanto possa sentirlo Zagrebelsky, a cui lo sguardo del Crocifisso non sembra fare compagnia.

Poche pagine prime, l’illustre giurista aveva correttamente esposto il grande dilemma della laicità moderna:

Se, infatti, la Chiesa accettasse, in cambio di qualche privilegio, di fungere da copertura etica allo Stato, nobilitandone l’agire, dovrebbe laicizzare il proprio messaggio, ma, se così facesse, perderebbe quel potere nobilitante e non servirebbe più da copertura etica, sicché non si vede perché lo Stato dovrebbe celebrarne i simboli; se, invece, essa si mantenesse fedele ai proprî principî e dogmi, continuando ad esprimere religione, e non (solo) cultura, lo Stato non potrebbe utilizzarne od autorizzarne i simboli, perché così facendo esso assevererebbe la verità di tali principî e dogmi, non avendone le competenze empiriche né quelle teologiche, e rendendo così tutti i simboli che userebbe od autorizzerebbe equivalenti a delle prediche pro convertendis, violando al contempo la laicità propria e la libertà religiosa dei suoi cittadini diversamente o non credenti.

Ivi, 14

Il libro me l’ero perso, queste citazioni le ho recuperate nel ponderoso volume di Stefano Testa Bappenheim “I simboli religiosi nello spazio pubblico” (scoraggia per la mole e per il costo, ma quella giustifica questo ed è a sua volta necessitata da una ricerca documentatissima!), che già nel secondo capitolo (e anch’egli “da credente”) scopre tutti i luoghi comuni a sostegno di certe prassi problematiche:

Si può convenire sul fatto che il Cristianesimo sia stato fra i fattori più antichi della storia europea, e tuttavia, proprio per questa sua antichità, nel corso dei secoli ad esso si sono aggiunti moltissimi altri componenti culturali: voler riproporre oggi il Cristianesimo come unico, o principale, elemento del patrimonio socio-culturale europeo significa farne elemento di divisione, perché non è più vero che l’Europa, o l’Occidente, oggi come oggi, abbiano ancora una traccia, una caratterizzazione univoca, o prevalente, di stampo cristiano.

Stefano Testa Bappenheim, I simboli religiosi nello spazio pubblico. Profili giuridici comparati, 233

È vero per l’elemento religioso come per molti altri: quando un fattore sociale viene coartato nel ruolo di catalizzatore universale, esso diventa vieppiù strumento di fazione – e tale eventualità dovrebbe essere temuta dai credenti molto più che dai non credenti.

La meditazione di un gesuita su due episodi biblici

Sul numero de La Civiltà Cattolica in uscita domani (ma già tra qualche ora gli abstract saranno anticipati sul sito) viene pubblicato un interessante articolo del padre Vincenzo Anselmo dedicato a “una riflessione biblica” su “simboli religiosi e strumentalizzazione politica”: già, Zagrebelsky parla dello Stato, ma è chiaro che nelle democrazie moderne i governi vengono espressi dai rapporti di forza tra Partiti, e dunque che quanto dovrebbe essere il distintivo della società aperta diventa spesso il segno del predominio (magari anche vestigiale, storico) di una particolare forza sulle altre. È lecito (ma diremmo pure che sia doveroso), per il credente, interrogarsi sull’opportunità (cioè sull’utilità e sulla bontà) di questa congiuntura. Il Gesuita ci ricorda però che il problema non è peculiare esclusivamente del mondo moderno – caratterizzato dallo “stato liberale” e dalla già ricordata “società aperta” –, bensì torna ciclicamente, nelle sue caratteristiche fondamentali, in ogni contesto politico. Anche in quello dell’antico Israele descritto dai libri della Prima Alleanza:

Nella storia biblica, il potere affidato ai sovrani dà loro grandi responsabilità, perché le loro azioni possono condurre i molti verso la morte o verso la vita. Cosa accade quando colui che è poso a capo del popolo strumentalizza Dio per il proprio tornaconto?

Vincenzo Anselmo, Simboli religiosi e strumentalizzazione politica. Una riflessione biblica, in La Civiltà Cattolica 4072, 313-321, 314

Il Gesuita riporta allora un (forse troppo poco noto) passo della storia pre-monarchica dell’antico Israele, nel quale gli Israeliti – che soccombevano in guerra contro i Filistei – pensarono di “forzare la mano” a Dio portandosene l’arca nell’accampamento:

Gli anziani, dunque, non si interrogano sulle cause che hanno portato alla sconfitta, ma pongono in atto la soluzione più facile e immediata, cioè quella di forzare il Signore, spingendolo sul campo di battaglia. In un certo senso, l’arca diventa un mero strumento: non più un segno della presenza del Dio vivente, ma un talismano da utilizzare come arma definitiva contro un nemico che appare imbattibile. Eppure, obbligare il Signore a scendere in guerra contro i filistei potrà mai assicurare al popolo la sospirata rivincita?

Ivi, 315

Correttamente, l’autore osserva che non a caso l’agiografo riporta quali agenti materiali della “trovata” i leviti figli di Eli, già segnalati perché corrotti e perversi, e quindi lontani dal Signore: s’illusero che bastasse riprodurre a mo’ di mero rituale alcuni eventi narrati nei libri dell’Esodo e di Giosuè per costringere Dio a essere dalla loro parte, e quest’Ultimo invece non solo permette che il suo popolo venga sconfitto, ma pure che la propria arca venga trafugata nel bottino di guerra dei Filistei a danno del suo popolo.

In seconda battuta, padre Anselmo riporta una storia dal periodo monarchico, precisamente una di quelle che segnarono la fine della monarchia unita e l’inizio del “regno diviso” – la controversa storia di Geroboamo. Valente soldato, confidente di Salomone, uomo indicato dal profeta Achia come valida alternativa al borioso Roboamo (autore della frattura politica)… Eppure Geroboamo ritenne che il proprio vantaggio politico potesse venire unicamente dal consolidamento della frattura nel regno (ossia nella divisione tra Israele [a nord] e Giuda [a sud]), dunque scoraggiò la pratica del culto centralizzato nel tempio salomonico consacrando due templi nel Nord (a Betel e a Dan) e imperniandoli nel culto ad altrettanti idoli esemplati sull’antico vitello d’oro di Esodo:

Consigliatosi, il re fece due vitelli d’oro e disse al popolo: «Siete già saliti troppe volte a Gerusalemme! Ecco, Israele, i tuoi dei che ti hanno fatto salire dalla terra d’Egitto.

1Re 12,28

Le stesse parole pronunciate dagli israeliti fedifraghi ai piedi del Sinai, ma quelli avevano l’attenuante di essere smarriti e di vivere ancora da nomadi, cioè prima del pieno compimento delle promesse dell’Esodo – questi invece vivevano dopo e proprio di quelle promesse adempiute stavano facendo spoglia.

La manipolazione di Dio – spiega Anselmo – per scopi politici diviene idolatria che coinvolgerà tutto Israele, allontanandolo dal Signore non soltanto nel presente, ma anche nel futuro. Come leader, Geroboamo è gravemente responsabile delle sue azioni, che avranno pesanti ripercussioni su molti. […]

Geroboamo si pone come mediatore del sacro per consolidare il proprio potere. Usa i simboli della religione a suo piacimento, ingannando Israele. Infatti, controllando l’elemento religioso, egli ritiene di tenere in pugno la massa del popolo, legandola a sé piuttosto che a Dio. […] La trasgressione non riguarda solo la persona di Geroboamo, ma si estende a tutto Israele, «diventa un peccato», perché le azioni del sovrano guidano il popolo verso il male.

Vincenzo Anselmo, Simboli religiosi e strumentalizzazione politica, 320

La “meditazione biblica” di padre Anselmo aggiunge una conferma e un approfondimento alle considerazioni storiche di Testa Bappenheim e alle valutazioni giuridiche di Zagrebelsky: se ai credenti i “diritti di Dio” sono più cari della ragion di Stato (ipotesi comunque da non dare per scontata), spetta soprattutto a loro far sì che il rapporto tra Stato e Chiesa – che non può risolversi in un reciproco ignorarsi o in un reciproco osteggiarsi – non comporti una liaison dangereuse.

Una voce profetica dalla patristica

Del resto – a metà tra Geroboamo e Zagrebelsky – anche Salviano di Marsiglia, appena un secolo dopo la “svolta costantiniana”, deplorava nel De gubernatione Dei (opera davvero troppo poco studiata) che lo Stato non fosse migliorato in quanto gestito da cristiani, e anzi affermava che il cristianesimo professato rendeva i cattivi politici rei di maggior colpa. Di più: l’ardente monaco germanico argomentava che il favore divino nei confronti degli antichi romani (pagani) – quello per cui la Roma pagana si affermava nel suo Impero – fu tanto giusto quanto ai suoi giorni era giusta la severità verso i romani coevi (cristiani).

Il cristianesimo ha certamente un evangelo anche politico col quale diffondere il Regno di Dio «come in Cielo così in terra» (e qui si sbagliano quanti teorizzano che la giurisdizione della fede sia “l’anima”), ma proprio perché la posta in gioco è coestesa a tutta la storia umana i credenti – che professano essere il sangue di Cristo prezzo del grande riscatto – dovrebbero porre la massima attenzione nel discernere in questa materia cruciale il necessario dall’accessorio e ancora dal superfluo.