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Il piano di Trump porterà la pace in Medio Oriente?

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Lucandrea Massaro - pubblicato il 29/01/20

Un piano complesso e molto sbilanciato sulle necessità di Israele ma un punto di partenza per una nuova trattativa

La Casa Bianca di Trump ha presentato una proposta che – secondo le intenzioni del presidente Donald Trump – dovrebbe mettere fine al conflitto israelo-palestinese e dunque contribuire significativamente alla stabilizzazione di un’area che è forse, la più critica e turbolenta del mondo. Lo stesso Trump, enfaticamente, ha dichiarato che quello da lui proposto è «l’accordo del secolo», al punto di dire che «È un piano molto vasto, un suggerimento a israeliani e palestinesi, il migliore che abbiano mai avuto. Abbiamo il sostegno del primo ministro e degli altri partiti, e penso che alla fine avremo anche il sostegno dei palestinesi».

In cosa consiste il piano?

In buona sostanza sarebbe la cristallizzazione dello status quo, fatto salvo poche concessioni a sud, Israele manterrebbe tutti i suoi domini relativi agli insediamenti coloniali e – nell’accordo – c’è anche il divieto per lo stato palestinese di avere forze militari proprie, ma solo di polizia, cosa che renderebbe la Palestina incapace di una autonoma politica estera e di difesa, e di uno stato distribuito su più territori e senza continuità e che per questo è stato rapidamente rifiutato da tutti i gruppi politici palestinesi, in una inedita unità tra Hamas e Fatah, cosa che non succedeva da tempo. «Questo non è un accordo di pace, ma una bantustanizzazione della Palestina e del popolo palestinese», ha detto a Reuters il capo della delegazione palestinese nel Regno Unito, Husam Zomlot, paragonando i territori che spetterebbero al popolo palestinese a quelli che il regime sudafricano assegnò ai cittadini di origine africana durante gli anni dell’apartheid (Il Post). Un altro paragone potrebbero essere le riserve indiane negli Stati Uniti.

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In base al documento americano, Israele conserverà tutti gli insediamenti costruiti nel corso degli anni in Cisgiordania (che gli USA hanno già riconosciuto come legali, nonostante siano al di fuori dei confini del 1967 riconosciuti dalla comunità internazionale), con Gerusalemme sua “capitale indivisa”. Nessun luogo sacro cambierà gestione, e nessuno dovrà abbandonare la casa dove vive. Lo Stato ebraico dovrà fare alcune concessioni territoriali, in particolare nell’area meridionale al confine con l’Egitto, e questo, secondo la mappa disegnata dagli americani, raddoppierà la zona sotto controllo palestinese. Inoltre si impegnerà a congelare i progetti di nuovi insediamenti per i prossimi quattro anni, per non compromettere gli sforzi per trovare un’intesa. Il Presidente Trump, rivolgendosi direttamente al presidente palestinese Abu Mazen (finora escluso dalla trattativa), ha garantito: “Se accetterete questa opportunità gli Stati Uniti, e molti altri Paesi, saranno al vostro fianco per aiutarvi” (Vatican News). In ballo ci sarebbero anche fondi per 50 miliardi di dollari per le infrastrutture palestinesi.

Secondo la proposta americana, la continuità territoriale della Palestina sarebbe ottenibile tramite tunnel, ponti e strade in una condizione assai diversa dai confini stabiliti dall’ONU nel 1967 e a cui puntava a ritornare il predecessore di Trump, Barack Obama (The Atlantic).

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A questo si aggiunge una presa di posizione molto forte del premier israeliano Netanyahu che ha spiegato che i rifugiati palestinesi della diaspora non avranno diritto al ritorno, i palestinesi dovranno riconoscere Israele come Stato ebraico, e “verrà applicata la legge israeliana sulla Valle del Giordano, su tutte le colonie in Cisgiordania e su tutte le aree che il piano designa come parte di Israele” (Agi).

Le reazioni

Inutile dire che le reazioni dei palestinesi, ma anche della Giordania – paese limitrofo – e dell’Iran (paese ostile ad Israele) sono state tutte molto negative, a differenza di Arabia Saudita (stretto alleato americano), degli Emirati Arabi e del Qatar.

La presenza degli ambasciatori emiratini e il plauso da parte delle monarchie petrolifere sunnite, fa intuire – come spiega Fulvio Scaglione su Famiglia Cristiana –  “che il mondo arabo più ricco ha ormai mollato la causa palestinese al suo destino. Continueranno le donazioni, se non altro per tenere in piedi il sistema di potere di Al Fatah e di Abu Mazen e impedire che Hamas prenda il controllo dell’intera comunità palestinese, come avverrebbe se in Péalestina si votasse, cosa che non accade da tredici anni. Ma il sostegno politico è finito”.

Per la Lega araba – invece –  “il Piano Trump legittima l’occupazione israeliana”. Dura a sua volta la Turchia: “un piano nato morto. Usurpare la terra ai palestinesi non è la soluzione al conflitto, quei territori non possono essere oggetto di trattativa. Continueremo a stare al fianco dei fratelli palestinesi per la creazione della Palestina all’interno dei territori palestinesi”. Queste le parole usate nel comunicato emesso dal ministero degli Esteri di Ankara, che ribadisce che il riconoscimento di Gerusalemme come capitale della Palestina costituisce una “linea rossa” invalicabile per la Turchia, e che Ankara non accetterà alcun piano che “non goda del benestare” dell’Autorità Palestinese. La Francia di Macron è convinta che “la soluzione dei due Stati, in conformità con il diritto internazionale e i parametri internazionali concordati, sia necessaria per la realizzazione di una pace giusta e duratura in Medio Oriente”. L’Italia “valuterà con molta attenzione la proposta” di Washington in coordinamento “con l’Ue e in linea con le Risoluzioni Onu”. La convinzione espressa dalla Farnesina è che la “Soluzione a due Stati resti la prospettiva più giusta e sostenibile” (Agensir).

Può funzionare?

Oggettivamente è difficile dirlo, e la maggior parte degli analisti concorda col dire che la pace è ancora lontana e che un accordo del genere è pensato per essere sostanzialmente rigettato dai palestinesi, anche se lo sforzo americano per rimettere al centro dell’agenda internazionale la questione mediorientale è comunque importante e non andrebbe sprecata. Tra gli aspetti più controversi del memorandum americano ci sono due punti sottolineati dal giornalista ed esperto Giorgio Bernardelli che sul sito TerraSanta.net rileva:

Ci sono però in particolare due punti di questa narrativa che meritano una sottolineatura particolare. Il primo è la rilettura che viene data degli anni del processo di Oslo: un’acrobazia di pessimo gusto. Benjamin Netanyahu è stato il grande oppositore di quel percorso e non c’era certo da aspettarsi che in un piano di pace confezionato a sua immagine e somiglianza vi fosse un’analisi seria sulle ragioni di quel fallimento. Ma arrivare ad affermare – come si fa nella sostanza a pagina 3 del volume – che in fondo la Vision di Trump è coerente con l’idea che aveva Rabin del processo di pace è insulto alla verità. Ed è offensivo rispetto alla sua memoria che a farlo siano quegli stessi ambienti che con la loro campagna durissima nelle piazze crearono il clima in cui maturò per mano di un estremista della destra nazionalista ebraica il suo assassinio nel 1995. L’altro punto che mi ha colpito è – a pagina 15 – il passaggio dove si riassume in poche righe la storia della presenza cristiana a Gerusalemme. Una ricostruzione in cui al centro c’è il richiamo ai luoghi della vita di Gesù e poi la riconquista nel periodo delle crociate. Non c’è invece assolutamente alcun riferimento alle comunità arabo-cristiane e al loro contributo alla storia di questa terra. Nella narrativa dell’«accordo del secolo» Gerusalemme è un posto dove i cristiani vanno in pellegrinaggio, non un luogo dove delle Chiese e delle comunità ci vivono. Tra l’altro viene citato l’Accordo fondamentale del 1993 tra la Santa Sede e Israele, volutamente tralasciando però il fatto che un accordo dello stesso tipo esiste anche tra la Santa Sede e l’Autorità Nazionale Palestinese.

E forse anche per questo motivo il patriarcato latino di Gerusalemmeha pubblicato una nota degli ordinari cattolici della regione in cui sostiene che un accordo che non nasca dal riconoscimento di eguali diritti e dignità tra israeliani e palestinesi è destinato a non funzionare e ad accrescere inimicizia e violenza e viene bollato come “iniziativa unilaterale” invitando al rispetto reciproco tra le parti e alla preghiera per la pace e la riconciliazione.

Una posizione ribadita da monsignor Pierbattista Pizzaballa che del Patriarcato latino di Gerusalemme è amministratore apostolico, durante un momento di preghiera per l’unità dei cristiani:

«La nostra società – ha detto – è sempre stata culturalmente e religiosamente pluriforme. Eppure, oggi assistiamo al rifiuto a riconoscere questa diversità, dove ciascuno ha la sua dignità e i suoi diritti. È ormai cronaca di questi giorni. Ebbene, proprio in questo contesto, credo che si possa anche affermare che essere eucaristici cioè condividere la vita e spezzare il pane tra noi, non possa non significare anche assumere e riconoscere questa la ferita profonda di questa Terra. Non possiamo cioè pregare per le divisioni tra noi, senza riconoscere e fare nostra anche la divisione di questa terra, il rifiuto ad accogliersi e riconoscersi l’un l’altro dei popoli che la abitano, con dignità e giustizia» (Mondo e Missione)

Di certo la pace non è vicina come vogliono far credere Trump e il presidente israeliano Netanyahu e – almeno in parte – sembra più un gioco di specchi in cui il primo cerca visibilità su un tema molto caro agli americani (e ai repubblicani in particolare) e il secondo dimostra di godere di un appoggio forte in vista di una possibile nuova elezione della Knesset mentre entrambi i leader sono sotto scacco da parte di inchieste importanti: impeachment per Trump e un procedimento per corruzione e frode Netanyahu.

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