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“Chi può criticare il Papa?” …è la domanda sbagliata

POPE EPHIPHANY

Antoine Mekary | ALETEIA

Giovanni Marcotullio - pubblicato il 21/01/20

Da quando è chiaro che l'infallibilità pontificia è una prerogativa molto circostanziata, è diventato difficile stabilire quanto siano infallibili i detrattori del Romano Pontefice. Tra dinamiche di branco e algoritmi social (il tutto cinicamente sfruttato per fini politici), il variopinto parterre della critica al Papa è accomunato da un difetto nell'impostazione della problematica.

Il problema di quando Paolo VI ha deposto la tiara è che da quel giorno ogni cattolico se l’è messa in testa.

Questa frase, variamente declinata, è più o meno unanimemente attribuita ad Hans Urs von Balthasar, il quale (o chi per lui) l’avrebbe pronunciata riferendosi allo storico gesto con cui il 13 novembre 1964 Papa Montini, riaprendo solennemente il Concilio Vaticano II, simbolicamente depose il segno di un papato diventato in un certo senso assolutistico tra Gregorio VII e Bonifacio VIII. Il pontificato montiniano era cominciato tra grandi accessi d’entusiasmo che si sarebbero lestamente sopiti, ricadendo in una cappa di mesto mormorio soprattutto tra la Humanæ vitæ, del 1968, e la morte del pontefice (che sarebbe sopraggiunta dieci anni dopo).

La parabola di quelli che “saprebbero fare meglio”

Quello fu un decennio in cui i cattolici avrebbero ampiamente discusso della loro facoltà di disobbedire al Romano Pontefice smaltando la loro ribellione di buone intenzioni e di pii argomenti: emblematico è il caso di Clemente Domínguez Gómez, già elettricista andaluso e, dalla morte di Paolo VI, “papa Gregorio XVII” (il triregno se lo mise, eccome!); alla sua morte, nel 2005, fu incoronato capo di quella barzelletta pomposamente chiamata “Chiesa cattolica palmariana” Manuel Alonso Corral, che per affrettare la fine dei tempi s’impose il nome di Pietro II; la fine del mondo, però, non venne, e alla morte di “Pietro II”, nel 2011, fu Sergio María Jesús Hernández ad essere incoronato “Gregorio XVIII”, salvo scrollarsi dalle spalle quell’insostenibile farsa nel 2016 (tenne per sé però la papamobile – «È intestata a nome mio!» – e sarebbe tornato con la compagna ad assaltare di notte il “palazzo pontificio”, finendone in galera). Ora sono arrivati a “Pietro III”, in quel di Palmar de Troya, e nella sua grottesca deformità la loro storia disegna bene la fatale parabola dei “critici filiali”: gli impettiti toni elegiaci e tragici dell’incipit, in certe pantomime, cedono presto il passo ai banali e scurrili peti del cinepanettone.

«Obbedienza al Papa è amarlo» (S. Pio X)

Giova sempre ricordare la lezione di san Pio X (anch’egli un pontefice assai criticato, benché non piaccia ricordarlo, per “innovazioni populiste” come le catechesi al popolo [questi papi che vogliono incontrare la gente!]) impartita il 18 novembre 1912 ai sacerdoti dell’Unione Apostolica:

Sembra incredibile, ed è pur doloroso, che vi siano dei sacerdoti ai quali debbasi fare questa raccomandazione, ma siamo purtroppo ai nostri giorni in questa dura, infelice condizione di dover dire a dei sacerdoti: amate il Papa!

[…]

Perciò quando si ama il Papa, non si fanno discussioni intorno a quello che Egli dispone od esige, o fin dove debba giungere l’obbedienza, ed in quali cose si debba obbedire; quando si ama il Papa, non si dice che non ha parlato abbastanza chiaro, quasi che Egli fosse obbligato di ripetere all’orecchio d’ognuno quella volontà chiaramente espressa tante volte non solo a voce, ma con lettere ed altri pubblici documenti; non si mettono in dubbio i suoi ordini, adducendo il facile pretesto di chi non vuole ubbidire, che non è il Papa che comanda, ma quelli che lo circondano; non si limita il campo in cui Egli possa e debba esercitare la sua autorità; non si antepone alla autorità del Papa quella di altre persone per quanto dotte che dissentano dal Papa, le quali se sono dotte non sono sante, perchè chi è santo non può dissentire dal Papa.

È questo lo sfogo di un cuore addolorato, che con profonda amarezza faccio non per voi, diletti confratelli, ma con voi per deplorare la condotta di tanti preti, che non solo si permettono discutere e sindacare i voleri del Papa, ma non si vergognano di arrivare alle impudenti e sfacciate disubbidienze con tanto scandalo dei buoni e con tanta rovina delle anime.

San Pio X parlava quel giorno con sacerdoti e di sacerdoti, però le sue parole si traspongono facilmente a tanti cattolici che pensano di essere confusi a causa del Papa ma la cui confusione si radica spesso nella frequentazione di sobillatori più o meno in buona fede (un po’ come il discorso agli emo di Checco Zalone).

Puoi criticare il Papa? Scoprilo con un quiz

«Dunque non è possibile criticare il Papa?», mi hanno chiesto. Ci sarebbe anzitutto da chiedersi se sia utile e/o doveroso, ma rimandiamo la questione e vediamo se sia possibile farlo. A chi me l’ha chiesto ho risposto d’emblée:

  1. sei un cardinale o un officiale di Curia Romana?
  2. sei un docente di teologia, un autore di spiritualità o comunque un cultore della materia?
  3. sei un amico del Papa o comunque un confidente a cui egli sia solito rivolgere richieste di consigli?

Perché se a tutte e tre queste domande la risposta è un semplice “no”, allora – come nei quiz delle riviste – «il tuo punteggio è 0 e puoi voltare pagina per leggere il profilo corrispondente».

0: Non sei un cardinale o un officiale di Curia Romana; non sei un docente di teologia, un autore di spiritualità e nemmeno un cultore della materia; non sei un amico personale del Romano Pontefice o comunque una persona a cui egli voglia chiedere consiglio. Non si vede quale competenza potresti rivendicare per avanzare correzioni al detentore di un ufficio di cui nulla sai. Con ogni probabilità ti sei entusiasmato nel mondo dei social – hai scoperto che spararle grosse è un modo sicuro per avere un certo ritorno d’immagine – e hai pensato che la Chiesa fosse omogenea ai social network. Ecco, checché ne pensi Paolo Sorrentino, non è così. Faresti bene a vivere tranquillamente la tua vita e, se t’interessa il cristianesimo, a viverlo giorno per giorno con la pratica della Parola, dei Sacramenti e della Carità.

A parte la questione della possibilità di criticare il Papa (criticarlo veramente e utilmente, non come sfogo da social), resta da comprendere se sia utile (e magari doveroso) farlo, e quanto a ciò il criterio è tanto vago quanto chiaro: è pensabile che un fedele cattolico prenda le distanze da parole o gesti del Romano Pontefice se e solo se essi sono in importante, plateale e flagrante contraddizione con lo spirito evangelico. Se il Papa (ce ne guardi Iddio) bestemmiasse la Madonna, profanasse l’Eucaristia, oltraggiasse i poveri o altre cose di simile entità… allora sarebbe comprensibile il turbamento dei fedeli, e ammissibile la loro personale presa di distanza, ma a quel punto non si tratterebbe di una “correzione filiale”, bensì di un lecito dissociarsi da parole e atti incongrui con l’Evangelo.

Due casi concreti (e il sommerso doloroso della critica al Papa)

Recentemente invece ho letto una blogger che questionava sull’espressione “uomo di Dio” riferita dal Papa a Gesù: ella accusava in quelle parole un attentato alla fede nella divinità di Cristo, ed evidentemente ignorava che “uomo di Dio” è categoria comunissima, nelle Scritture, per designare il profeta (e tutte le categorie profetiche sono applicate a Cristo per eminenza, in tutta la storia della Chiesa). Ancora, la settimana scorsa un uomo si lamentava con me delle parole del Papa sull’accoglienza ai migranti perché suo figlio non trova lavoro. Oltre all’evidente incongruità dei due àmbiti, c’è da dire che il giovane in questione non ha un titolo di studio e non lo sta prendendo, né si dispone a racimolare qualche soldo portando pizza a domicilio né si sogna di andare a fare il bracciante a giornata. Dunque chi glie lo starebbe portando via, il lavoro? E cosa c’entrerebbe il Papa?




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La cosa preoccupante dal punto di vista sociale è che il Papa viene utilizzato da alcuni come catalizzatore di proprie frustrazioni e sofferenze, nonché come alibi per i propri insuccessi – e la tristezza aumenta al vedere che ciò non accade senza che qualcuno vi speculi politicamente. Una situazione paradossalmente analoga a quella che si è già vista per “le scarpe rosse”, “gli anelli che uno solo sfama mezza Africa”, “i tesori del Vaticano” (che oggi non sono meno ricchi di ieri, anche se nessuno ci pensa), “il pensare solo ai preservativi” e via dicendo.




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Tutta politica (e di bassa lega): quanti cercano di darsi un tono evocando i nomi di antiche eresie mostrano di non conoscerne con precisione i contenuti (eppure perseverano); quanti denunciano difetti di forma nell’adempimento di Costituzioni Apostoliche non sanno poi spiegare a cosa alludono (eppure perseverano); illustri giornalisti vengono colti in flagrante mentre falsificano presunte dichiarazioni di santi (eppure perseverano); addirittura abbiamo visto professori di storia ecclesiastica che spacciano Durando de Huesca per Innocenzo III (eppure perseverano). Tutto chiacchiericcio e distrazione, roba nociva anche solo a passarvi accanto e da cui l’Apostolo ha esortato a stare alla larga:

Ma tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza. Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni.

1Tim 6,11-12

Fraternità, collegialità e primato (la lezione di Ratzinger)

Se però siamo arrivati a questo punto – per certi aspetti simile a uno “stallo alla messicana” –, ovvero se abbiamo ridotto il dibattito attorno al papato alla questione “neo-conciliarista” di “chi può criticare il Papa?” (e almeno i vecchi conciliaristi pensavano al Concilio, non agli influencer!), ciò si deve al fatto che stentiamo ad assimilare un concetto coerente e sano di collegialità. Così lo spiego Joseph Ratzinger dopo aver utilmente dettagliato le evoluzioni ecclesiologiche dei primi tre secoli:

Si può dimostrare che la dottrina della collegialità dei vescovi, pur apportando certamente varie modifiche, e non di poco conto, a certe forme di presentazione della dottrina del primato, non la elimina, bensì ne mette in rilievo il valore teologico centrale, in cui forse potrà anche essere fatta meglio comprendere ai fratelli ortodossi. Il primato del Papa, dunque, non può essere inteso in base al modello della monarchia assoluta, quasi che il vescovo di Roma sia il monarca assoluto di una Chiesa che ha la natura di uno Stato soprannaturale a struttura centralistica; significa piuttosto che, entro la rete delle chiese che sono in comunione tra loro e da cui è costituita l’unica Chiesa di Dio, c’è un punto obbligato, la Sedes romana, cui deve fare riferimento l’unità della fede e della commino. Ma tale centro obbligato della “collegialità” dei vescovi non | esiste per una umana convenienza (quantunque si raccomandi anche in base ad essa), bensì perché il Signore stesso, accanto e insieme all’ufficio dei Dodici, ha creato il particolare compito dell’ufficio di roccia, che al segno escatologico dei Dodici aggiunge l’altro segno della roccia, desunto anch’esso dal linguaggio simbolico di taglio escatologico di Israele; da qui poi, dopo la Risurrezione, risulta la dualità di “ministero di testimone” e di “ministero di primo testimone”, quale appare Pietro nei racconti della Risurrezione e nelle liste degli apostoli.

Joseph Ratzinger, La teologia del sacramento dell’Ordine, in Id., Opera Omnia, vol. 12, 263-264

Ecco la chiave di volta: le questioni “se si possa criticare il Papa” e “chi abbia diritto a correggerlo filialmente” (espressione ipocrita) sono scarti di combustione del rogo conciliarista, che nasce proprio dall’oblio di un’ecclesiologia di fraternità in cui collegialità e primato si ospitano e si sostengono reciprocamente. Ciò è particolarmente evidente nelle visite ad limina, che il burrascoso Sisto V, nel 1585 e per dar seguito alle ispirazioni del Concilio di Trento, rese istituzionali e obbligatorie. Negli ultimi 110 anni (decreti A remotissima del 31 dicembre 1909 e Ad Romanam Ecclesiam del 29 giugno 1975) si è cercato di disciplinarle ulteriormente, per renderle luogo di un costante e fecondo scambio tra fratelli costituiti in solido (ma con la distinzione di una sede primaziale) depositarî della sollecitudine per tutte le Chiese. Nel 1986 Giovanni Paolo II si rivolse così ai partecipanti all’assemblea straordinaria della Conferenza Episcopale Italiana:

Venerati fratelli, nel corso di quest’anno avrò la gioia di incontrarmi ancora con voi in occasione delle visite “ad limina”, alle quali annetto grande importanza. Adempimento voluto da una veneranda tradizione che la legge della chiesa avvalora (cf. CIC, can. 400 § 1), esse costituiscono un’occasione privilegiata di comunione pastorale: il dialogo pastorale con ciascuno di voi mi consente di partecipare alle ansie e alle speranze che si vivono nelle chiese da voi guidate in atteggiamento di ascolto per i suggerimenti dello Spirito.

E sul tema sarebbe tornato nel 2006 Benedetto XVI, in un’intervista che preparava il primo viaggio apostolico del Papa tedesco in Germania:

Un rapporto di tensione ed equilibrio naturalmente c’è, deve anche esserci. Molteplicità e unità devono sempre nuovamente trovare il loro rapporto reciproco e questo rapporto, nelle mutevoli situazioni del mondo, deve essere ristabilito. Oggi abbiamo una nuova polifonia delle culture, in cui l’Europa non è più la sola determinante, ma le comunità cristiane dei diversi continenti stanno acquistando il loro proprio peso, il loro proprio colore. Dobbiamo imparare sempre nuovamente questa sinergia. Per questo abbiamo sviluppato diversi strumenti. Le cosiddette “visite ad limina” dei Vescovi, che ci sono sempre state, vengono ora valorizzate molto di più, per parlare veramente con tutte le istanze della Santa Sede e anche con me. Io parlo personalmente con ogni singolo Vescovo. Ho già potuto parlare con quasi tutti i Vescovi dell’Africa e con molti di quelli dell’Asia. Adesso verranno quelli dell’Europa Centrale, della Germania, della Svizzera e in questi incontri, in cui appunto Centro e Periferia si incontrano in uno scambio franco, cresce il corretto rapporto reciproco in una tensione equilibrata. Abbiamo anche altri strumenti, come il Sinodo, il Concistoro, che io ora terrò regolarmente e che vorrei sviluppare, in cui anche senza un grande ordine del giorno si possono discutere insieme i problemi attuali e cercare delle soluzioni. Sappiamo da una parte che il Papa non è affatto un monarca assoluto, ma che, nell’ascolto collettivo di Cristo, deve – per così dire – personificare la totalità. Ma la consapevolezza che occorre un’istanza unificatrice, che crei anche l’indipendenza dalle forze politiche e garantisca che le cristianità non si identifichino troppo con le nazionalità, questa consapevolezza appunto, che vi è bisogno di una tale istanza superiore e più ampia, che crea unità nella integrazione dinamica del tutto, e d’altra parte accoglie, accetta e promuove la molteplicità, questa consapevolezza è molto forte. Perciò credo che, in questo senso, vi sia veramente un’adesione intima al ministero petrino nella volontà di svilupparlo ulteriormente, in modo che risponda sia alla volontà del Signore, sia ai bisogni dei tempi.

Polifonia delle culture, accettazione e promozione della molteplicità, scambio franco, tutela dall’identificazione stretta delle cristianità con le nazionalità: Benedetto XVI, anno Domini 2006. Come si vede, il Papa – ogni Papa – ascolta e si lascia consigliare, e non poco. La pretesa di “criticarlo” e di “correggerlo” viene da contesti e modi di pensare più o meno remoti dal sentire cum Ecclesia.

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