Siri e Alexa hanno portato nella nostra vita la pratica di “parlare con dei software”, e malgrado sia estremamente difficile illudersi che quelle siano autentiche “conversazioni”, si diffonde l'idea che davvero siano in mezzo a noi delle “intelligenze artificiali”. Un articolo de La Civiltà Cattolica aiuta a problematizzare meglio, quindi a fare chiarezza.
Io ho un caro amico che immancabilmente desta in quanti vengono a contatto con lui un certo stupore: figlio di contadini, è pure un fisico teorico con dottorato di ricerca conseguito all’estero. L’idioma che predilige per esprimersi è un italiano fortemente venato di regionalismi, eppure per studio e per lavoro ha imparato a parlare fluentemente in altre due lingue.

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Da qualche tempo il mio amico ha trovato un lavoro che sembra tagliato su misura per lui, bucolico semidio figlio dell’Agricoltura e della Fisica: ottimizzare le tecnologie agricole e inventarne di nuove. Attualmente, nella fattispecie, sta esplorando le frontiere della robotica per programmare un androide capace di riconoscere e raccogliere la ruchetta, distinguendola dalle erbacce e dall’insalata.

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Una sera ci vedemmo a cena e lui era scuro in volto perché il programma che stava scrivendo permetteva alla macchina di riconoscere il 75% della ruchetta. Al che io, anche per incoraggiarlo: «Beh, mi pare buono»; e lui: «E l’altro 25% lo lasciamo là?». Quando invece la giornata gli va meglio è tutto baldanzoso, sembra un piccolo Prometeo e gli scintillano gli occhi. È allora che con più convinzione mi parla di AI, la cosiddetta “intelligenza artificiale”.
Un computer non sa giocare
A quel punto mi tocca vestire i panni del pensatore scettico che crivella di problematiche gli entusiasmi del religioso scientista (né lui né io abbiamo altro Dio che quello di Cristo, ma nel dialogo ci differenziamo): gli faccio notare che per quanto si possa perfezionare una macchina non le si potrà mai dare una cosa che sia un pensiero nel senso pieno, proprio e forte del termine. La si potrà invece rendere adatta a gestire a velocità eccezionale una quantità smisurata di dati, le si potranno dare istruzioni dettagliatissime e quanto si vuole variegate, ma sempre limitate. “Limitate” non nel mero senso di “finite” – anche la mente umana e i suoi contenuti sono finiti, sul piano metafisico –, bensì in quanto incapaci di evolvere e modellarsi al di fuori di istruzioni già date. E lì il mio amico a farmi una testa così con il “machine learning”, grazie al quale sta insegnando alla sua macchina (per la quale in moltissimi gli saremo grati) ad affinare automaticamente la propria sensibilità mano a mano che incontra nuove forme di ruchetta. «Benissimo – ribatto –: ma questo perché tu programmi il suo software così che il database di riferimento si accresca in modo indefinito», e non perché la macchina abbia spontaneamente momenti di riflessione sul proprio operato. Insomma alla macchina manca la coscienza soggettiva – e anzi molto più di questo! –, come ho avuto occasione di indicargli in modo lampante girandogli via WhatsApp questo tweet: