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Una coppia agnostica fiorita dopo la morte del figlio: da Colmar a Kabul

Portrait-Ariane-Hiriart-Valentine-Poulain

Ariane-Hiriart-Valentine-Poulain

Bénédicte de Saint-Germain - pubblicato il 18/12/19

Ariane Geiger Hiriart ha vissuto col marito un incredibile percorso di conversione. Totalmente agnostici, vivevano come se Dio non ci fosse.

Quando il loro unico figliò morì di una leucemia fulminante, Ariane pianificò il suicidio. Suo marito Jacques riuscì a dissuaderla dal proposito domandandole di cercare prima se ci fosse qualcosa dopo la morte. Cominciò allora una ricerca a tutto campo nell’esoterismo, nello spiritismo, nelle religioni… Alcuni incontri provvidenziali li misero sul cammino della fede in Gesù Cristo. Trasformati, si misero al servizio di una tribù perseguitata in Afghanistan e si trasferirono a Kabul. Oggi Ariane si confida con Aleteia.

Bénédicte de Saint-Germain: Da bambina aveva “dato il cuore a Gesù”. Che cosa è accaduto poi per rigettarlo?

Ariane Geiger Hiriart: Dopo la morte di mio padre, sono stata scolarizzati giovanissima in una pensione particolarmente rigida tenuta da religiose. All’epoca, era il 1955, Dolto non era passato di là e le religiose non manifestavano alcun trasporto per i bambini. Volevo ritrovare Gesù in azione, e mi sono allontanata. Sono stata così infelice che ho voluto morire. Avevo una grande sete di verità e un carattere ribelle, e non ho compreso l’esempio che le suore ci davano. Quando mi hanno obbligata a fare la prima comunione ho gridato interiormente: «No! Se la fede è quest’ipocrisia, io non la voglio!». Sono diventata una ragazza senza fede e senza legge. Poi mi sono sposata con Jacques, anch’egli deluso dalla pratica religiosa, ma non per le medesime ragioni. Abbiamo vissuto come se Dio non esistesse. Ci amavamo e la nascita di nostro figlio Franz ci ha colmati di gioia. Siamo diventati pasticceri a Colmar e avevamo progettato di mettere da parte un gruzzoletto per andarcene in Australia. Eravamo noi tre, tutti insieme, e nient’altro contava.

B. de S.-G.: Poi però la malattia di vostro figlio ha sconvolto tutto…

A. G.H.: Aveva dieci anni quando ci si è abbattuta la diagnosi: leucemia. Avevamo rigettato Dio così tanto che neppure pensammo a pregarlo. Pensavamo che la forza del nostro amore e i trattamenti avrebbero potuto guarirlo. Poiché egli non esisteva, per noi, non glie ne abbiamo neppure voluto per la malattia e per la morte di nostro figlio. Quando è morto, sei mesi più tardi, il 25 agosto, è stato un terribile terremoto. Tutto è venuto meno: i soldi, la bella macchina, il nostro progetto. Non c’era più nient’altro che un grosso cratere, e nel cratere niente. Non volevo più vedere nessuno, vivevamo nel nostro retrobottega, quello che chiamavamo “la scatola delle scarpe”.

B. de S.-G.: È allora che ha pensato al suicidio?

A. G.H.: Avevo preparato tutto: le medicine, l’alcool. Ho detto a Jacques: «Non ce la faccio più, non ho più alcuna voglia vivere». E lui ha avuto questa frase venuta direttamente dal cuore di Dio, ispirata dallo Spirito Santo:

Neanche io ce la faccio più, ma sarebbe il miglior modo di ritrovare Franz? Dovremmo prima cercare e provare a vedere se da qualche parte esiste un Dio, e se c’è qualcosa dopo questa vita. Se non troviamo niente di solito, tu lo farai e anche io.

Questo mi ha bloccata seccamente. Abbiamo cominciato una ricerca a 360° con i mezzi che avevamo: abbiamo approcciato differenti pratiche, tra cui lo spiritismo, abbiamo letto molti libri sulla vita dopo la morte… il New Age, la reincarnazione…

B. de S.-G.: Gestiva sempre una corsetteria con Jacques e, proprio mentre non voleva vedere nessuno, dei clienti vi avrebbero aiutati…

A. G.H.: Il Signore ci ha mandato Élisabegh, una cattolica ben salda, che da allora non ho più visto. È diventata nostra amica: ha insistito perché andassimo a fare un ritiro all’abbazia di Hautecombe, allora abitata da una comunità di Benedettini. Ci ha raccomandati a un monaco, Marc-François Lacan, un monaco molto vicino ai dirigenti del Chemin Neuf e dell’Emmanuel. Ci ha presi a cuore.

Tutte le mattine avevamo un colloquio con lui. Io piangevo, Jacques poneva domande un poco aggressive. In capo a otto giorni – dovevamo partire molto presto – uscì dalla cappella dove pregava, di notte, e ci propose di acquistare la Bibbia. Aveva scritto sulla prima pagina le citazioni dal Vangelo di Lc 10,42 (Marta e Maria) e la frase: «Di una cosa sola c’è bisogno: ascoltare la Parola». Era il 29 luglio 1989. A partire da allora, ci siamo veramente convertiti: ci convincemmo che nella Bibbia Dio ci parla. Essa è diventata nostra compagna quotidiana.

B. de S.-G.: Voleva sempre suicidarsi?

A. G.H.: Sì. Non perché ero divenuta cristiana la tristezza era scomparsa; ma ogni volta c’era qualcuno che entrava per tirarmi fuori dalle mie idee nere: per esempio questa Élisabeth, oppure Luc, un frate francescano che oggi è in cielo. Avevamo ancora molta rivolta dentro, ma mai contro Dio, soltanto contro il modo in cui talvolta ci era stato presentato. Siamo corsi ovunque ci fossero grandi manifestazioni. Cattoliche, protestanti… il colore della chiesa c’importava poco, e in Alsazia sono frequenti le riunioni di preghiera ecumenica. Ed è così che siamo diventati cordialmente cristiani.

Oggi sento sempre la mancanza di mio figlio, nella vita quotidiana, ma con molta più pacificazione di prima. Ho grandi momenti di tristezza ma la fede mi dona di continuare a camminare malgrado la sofferenza.

B. de S.-G.: Continuando il vostro cammino, avete fondato la ONG Le Pélican. Perché?

A. G.H.: Dopo aver incontrato il Signore e vivendo senza nostro figlio, la nostra idea di andare a installarci in Australia ci è parsa svuotata di senso. Abbiamo risposto all’annuncio di un’associazione umanitaria pubblicata in un giornale cristiano. Cercava una coppia che parlasse inglese e senza bambini piccoli. Ci siamo impegnati e siamo stati mandati in Afghanistan. Lì abbiamo toccato con mano una povertà estrema e un grande bisogno di educazione. Il nostro progetto è maturato e abbiamo creato una ONG, Le Pélican, che opera particolarmente in favore degli Hazaras, una tribù afghana rigettata e perseguitata a Kabul. Nel 2002 ci siamo trasferiti e abbiamo cominciato il nostro lavoro. Le difficoltà e gli ostacoli non sono mancati – non mancano tuttora – ma mi ricordo benissimo quando Jacques affermò:

Non è un nostro progetto ma di Dio, quindi i problemi li risolverà Lui.

Nel 2013 mio marito è stato rimpatriato a causa di un cancro. Durante la sua malattia pregavo:

Signore, guariscilo. Abbiamo detto agli Afghani che saremmo tornati. Ma come disse tuo figlio nel Getsemani, sia fatta la tua volontà.

E anche se il nostro progetto era nel nome del Signore, la sua volontà fu che egli morisse. Così Jacques è morto il 16 novembre 2013.

È stato uno strappo, come se mi amputassero una parte di me. Non volevo più vedere nessuno, non andavo più in chiesa. Stavo a casa mia ma restavo connessa al Cielo: pregavo, leggevo la Bibbia. Dicevo:

Signore, non ce la faccio più, devi aiutarmi, non posso neanche più uccidermi perché sono diventata tua discepola.

Un giorno ero a terra, in lacrime, appoggiata al divano, quando un’intuizione è risuonata profonda nel mio cuore: «Va’ nella tua chiesa». Ci sono andata e ho sentito un’omelia sul libro dei Giudici e sulla storia di Gedeone, al quale il Signore dice: «Ti ho scelto per combattere i Madianiti. Va’ con la forza che hai. Sono io che ti darò la forza». Ho pensato che Dio mi stesse rispondendo con la frase: «Va’ con la forza che hai».

B. de S.-G.: Dunque è tornata in Afghanistan?

A. G.H.: Il mio posto era lì, in mezzo agli Hazaras. Cerco con tutto il cuore di seguire Gesù. Non ho più Jacques con me, ma Gesù sì. Oggi Le Pélican ha 48 salariati e due scuole, delle quali una per i bimbi sordi. Il Signore benedice la sua opera. Siamo in un Paese in guerra. I talebani e l’Isis dettano ancora legge e detestano gli Hazaras. Tutta la scuola è innervata di un importante sistema di sicurezza, la piccolissima parte in cui abito è blindata. È certamente pericoloso vivere lì, ma non me ne vado per la semplice ragione che non posso abbandonare persone che amo e che mi amano. Voglio provare a queste persone che le amo condividendo i loro rischi, il pericolo costante che vivono. Voglio portare lì l’amore del Signore. Penso sempre alla frase di Gesù: «Non c’è amore più grande di questo: dare la vita per quelli che uno ama».

Colmar Kaboul
BLF Europe

De Colmar à Kaboul, Ariane Geiger Hiriart, edizioni BLF, luglio 2019, € 16,90.

[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]

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