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Ci hanno rubato la privacy?

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BenEssere - pubblicato il 28/11/19

Con la diffusione delle app viene raccolta un’impressionante mole di dati personali. A chi arrivano? Il monitoraggio della salute basato sulle nuove tecnologie è un aiuto. Ma un controllo costante rischia di diventare ossessivo?

A cura di Paola Rinaldi

È vero che la tecnologia mette a rischio l’identità personale? Un controllo costante del corpo rischia di diventare ossessivo? Il ruolo dei medici è destinato a cambiare? Le risposte ai vostri dubbi. Risponde il professor Maurizio Mori, ordinario di Filosofia morale e Bioetica all’Università di Torino e presidente della Consulta di bioetica Onlus.

Esiste un grande problema di privacy. Vero.

Con la diffusione delle app, viene raccolta un’impressionante mole di dati personali: questi potrebbero arrivare a soggetti estranei al mondo medico ed essere utilizzati con finalità diverse. E se queste informazioni finissero nelle mani di un capo del personale prima di un colloquio di lavoro? Non si rischierebbe di favorire qualche forma di discriminazione? E se invece venissero intercettate da un’azienda con puri scopi commerciali? Il pericolo esiste, certo. Ma forse occorre rivedere il concetto stesso di privacy: oggi, rendere pubblici alcuni dati è quasi necessario.

È a rischio l’identità personale. Vero, almeno in parte.

Definire cosa sia l’identità personale è difficile e la tecnologia lo complica ancora di più. Oggi l’identità è intesa come un insieme di continuità psicologiche: ideali, progetti, desideri, pensieri, ricordi. È ovvio che il fiume tecnologico vada a influenzare quella stessa identità, ma se l’obiettivo finale è la salute – intesa come benessere o autorealizzazione – quel cambiamento potrebbe rivelarsi positivo.

Un controllo costante del corpo rischia di diventare ossessivo. Vero.

App e dispositivi indossabili condizionano profondamente l’esistenza individuale e i modelli di convivenza, ma è altrettanto vero che stare in salute corrisponde a quello che la psicologia positiva definisce flourish, letteralmente “fiorire”, ossia provare soddisfazione, affettività positiva e slancio vitale.

La classe medica è destinata a scomparire. Falso.

La relazione di ascolto e comprensione resta fondamentale, ma è altrettanto vero che la tecnologia sta cambiando la professione medica. Un tempo, i professionisti della salute usavano unicamente il loro “fiuto clinico” per formulare le diagnosi; oggi, invece, sono spesso interpreti di dati e informazioni fornite da ausili tecnologici. Parallelamente, però, hanno anche il compito di prescrivere le eventuali terapie in base a rischi, benefici e, in generale, all’attesa della qualità di vita.

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Le tecnologie cancellano il diritto all’autodeterminazione. Falso.

La legge 219 del 2017 riconosce a ciascun individuo la capacità di scelta autonoma e indipendente. Certamente, questa autodeterminazione può essere condizionata da fattori esterni, come alcol, fumo, farmaci o dalla stessa tecnologia, ma la sua garanzia è stabilita dalla nostra capacità di farlo ed è sancita anche dalla legge.

Ricercare la salute non c’entra nulla con la morale. Falso.

Talvolta, le scelte di cura sul singolo malato possono essere in conflitto con il bene salute di tutti gli altri potenziali pazienti, presenti e futuri. La scelta di un antibiotico impatta sulle resistenze batteriche e sulla sua efficacia futura. La scelta di implementare una terapia a elevata tecnologia può sottrarre risorse a interventi di cure primarie. Insomma, anche l’accumulo e l’uso dei cosiddetti big data può avere risvolti etici importanti, a seconda di come si utilizzano le informazioni raccolte.

Alcune curiosità…

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