Essere ed educare, ecco i verbi dei genitori: sono una presenza e sono arcieri pronti a lanciare sul sentiero dell'infinito le anime loro affidate.
Sono cresciuta in casa di amici di famiglia che, tra figli e nipoti, ce n’era da benedire e santificare. Passavamo alcune settimane estive – le più belle della mia scarna adolescenza – a Belgirate, in un’enorme casa piena di stanze. Ci dividevamo in bande (di solito maschi e femmine) e la prima gara della giornata era correre per arrivare a colazione, l’ultima della giornata era per arrivare per primi a servire Messa. L’adulto di riferimento era l’arzilla nonna che, come un generale di brigata, dettava affettuosamente legge. La nonna è (stata) una delle persone alle quali sono più affezionata e, neppure tanto segretamente, agogno di somigliare, un giorno.
Torniamo però a noi ragazzini. Io ricordo chiaramente che la vita scorreva tra due “trincee”: una degli adulti, il cui compito era – a parte il rifocillamento delle truppe (è stato a Belgirate che ho conosciuto le melanzane appastellate e fritte, e da lì non ho più smesso) – ovviamente educativo. Orari per la colazione, indicazioni chiare su rifacimento letti, apparecchiature e sparecchiature, servizio alla tavola, taglio erba in giardino, pulizia stanze. Tutto fatto ridendo, giocando, gareggiando in squadre, scappando, nascondendosi, alleandosi per saccheggiare di piccoli frammenti golosi di cioccolato in dispensa (temo di aver svelato un segreto di Stato). E le sgridate? C’erano sì, ma sono grata del fatto di aver imparato (cosa che se sei figlio unico non è semplice) che “tutti per uno, uno per tutti”, ossia, tutti in castigo. Non c’era chi faceva la spia all’adulto e si godeva il rimbrotto agli altri, semplicemente perché la prima regola è che non si fa la spia. Non c’era chi godeva di privilegi, e si puntava a un concetto chiaro: gli adulti sono tali e non sono “amici” dei bambini, sono, per l’appunto, adulti. E i bambini debbono essere complici, alleati. L’adulto educatore, educa tutti, loda tutti, sgrida tutti. Non vi è privilegio. Non vi è condanna. Vi è ascolto, insegnamento, amore, coccola (la mamma dei miei amici, l’avevo soprannominata “la baciosa”), gioco, educazione.
Quegli anni spensierati che trascorrevo là, mi hanno insegnato la gioia della genitorialità e la bellezza della fatica di educare direttamente i figli (e gli amici dei figli), aiutandomi a maturare alcuni concetti che, forse saranno errati, ma mi pare proprio che funzionino.
il genitore non è un amico
Può essere un alleato per ciò che attiene difficoltà oggettive (scolastiche, ad esempio) o malattie, ma non è un pari del figlio. Specialmente durante l’adolescenza. Anzi, durante quest’ultima ci può essere talvolta complicità (penso a quando le mamme e le figlie chiacchierano di cose tra donne tipo depilazioni o altro), ma non “amicizia”. La frase più aberrante che mi sia stata mai rivolta è proprio quella: “Non voglio essere una mamma, ma un’amica”.
il genitore deve far sì che i figli (i fratelli e le sorelle tra loro), siano legati
Non si mette mai zizzania tra i figli per creare distacco o situazioni spiacevoli di aggressività tra fratelli. È molto pericoloso e si ritorce contro il genitore medesimo. Inoltre, così facendo, si rischia il fatto di avere dei figli unici che si odieranno per il resto della vita, mentre invece sarebbe bene che si aiutassero. È il vecchio principio del “dividet et impera” e il genitore che agisce in questo modo, rischia di rimanere schiacciato dal suo stesso odio. I fratelli debbono crescere alleati, complici, confidenti: è faticoso, ovvio, perché implica il fatto di non avere un rapporto speciale con un figlio solo, ma un rapporto il più possibile equilibrato con tutti i figli. Il genitore, se vuole amici propri, li cercherà fuori dalla cerchia dei figli, non all’interno.
il genitore è il primo educatore
Non ci sono storie: i figli hanno bisogno di presenza. Se si opta per avere figli, si opta pure per dare loro gli anni più “energetici” e più belli della propria vita. Ciò significa che bisogna lottare contro la cultura dell’egoismo e dell’adultocentrismo che obbliga il genitore (con le buone: diffondendo la cultura della realizzazione femminile come fosse unica fonte di felicità per la donna. Con le cattive: obbligando al lavorare per vivere o spesso anche solo per sopravvivere) a delegare l’educazione dei figli ad altri. I figli non sono dello Stato, ma della famiglia, che deve essere supportata nel grande compito educativo. E, in più, il genitore deve ricordarsi di essere un esempio per i figli, di avere un ruolo importantissimo nel loro futuro: essi – i genitori – sono gli archi di Gibran, e debbono ricordarlo.