Assediati da violenze e oscenità, scalda il cuore il successo di una serie come Downton Abbey. Anche noi cattolici ne ricaviamo una bella lezione: la vera nobiltà è resistere alla cultura dell’ “io” e iniziare a vivere una vita per gli altri.
Non sorprende notare come la popolare serie tv Downton Abbeyabbia ispirato, negli anni, numerose riflessioni tra gli scrittori che parlano di religione (qui, una delle mie preferite, scritta dal punto di vista di una ebrea ortodossa).
In un mondo in cui la violenza, lo scandalo e l’oscenità sembrano esser diventati elementi imprescindibili per un prodotto di successo, scalda il cuore vedere come abbia potuto sbancare al botteghino una serie in cui non volano botte, non si vede un singolo nudo nell’arco di sei stagioni e la trama si sviluppa con quella stessa garbata compostezza che, da copione, regola le vite dei protagonisti.
Dirò di più: a farci amare Downton Abbey è proprio quell’atmosfera ovattata di tempi passati che non ritorneranno più… ma che evidentemente ci affascinano ancora. Come fa notare l’articolo che ho linkato sopra, lo spettatore non ama, di Matthew, i momenti in cui irride l’antiquato lifestyle di Downton; al contrario, gioisce quando l’uomo finalmente ci si adegua e accetta l’aiuto del suo valletto per vestirsi.
Non una singola volta (il che è davvero sorprendente) Downton Abbey solletica il nostro spirito guerriero inneggiando alla rivoluzione e al sovvertimento dei costumi. E, se lo facesse, probabilmente non ci piacerebbe più – ché non sarebbe più Downton Abbey.
C’è qualcosa di veramente affascinante in quella cultura aristocratica fatta di decoro e di buone maniere che la serie tv mette in scena.
osserva nel suo (bellissimo) The Catholic Gentleman il (consigliatissimo) Sam Guzman, autore dell’(imperdibile) blog omonimo.
La studiata formalità e l’adesione all’etichetta che regolavano la quotidianità della upper-class britannica rendono evidenti lo stridente contrasto con quanto accade oggi in una società in cui non è infrequente vedere gente che va a far la spesa in pantofole e pigiama.
(e qui avrei voluto mettere una parentesi per dire “beh, dai, questo succede solo in America, però”, se non fosse che giusto ieri mi son trovata su Instagram il video di una influencer che ci mostrava cinque modi stilosi per uscire in pigiama a Milano).
Lord Grantham, impeccabilmente vestito nei suoi abiti di classe e forte di un eloquio perfetto e forbito, è senza dubbio l’archetipo del gentleman.
Ma è necessario possedere una proprietà di centinaia d’acri con un palazzo nobiliare nel mezzo, per poter essere un gentleman? […] O, al contrario, la qualifica di gentleman è qualcosa alla portata di tutti?
Il fatto che Sam si definisca (e a buon diritto!) un vero gentleman cattolico, pur senza essere (che io sappia) un billionaire, dovrebbe bastare a dirimere la questione. In effetti – osserva l’autore, e non a torto – la nobiltà non è mai stata il prerequisito per potersi dire gentiluomini. Semmai, è vero il contrario: conoscere le buone maniere e saper vivere secondo l’etichetta erano i pre-requisiti indispensabili per chiunque avesse ambito a ritagliarsi un posto a corte (dove, non a caso, la cortesia regna sovrana).
Un’espressione francese che un tempo era conosciuta da tutti i gentiluomini della upper-class è “noblesse oblige” (letteralmente, la nobiltà obbliga): uno slogan che, nella sua semplicità, sottolineava come i privilegi derivanti da un certo ruolo e da un certo status sociale debbano necessariamente costringere chi ne gode ad essere generoso, garbato ed onorevole.
Ma perché prendersi la briga di comportarsi da gentiluomo, oggi?
Qualcuno lo fa per sedurre una signora: toh. Aprire la portiera della macchina al primo appuntamento, aiutare una donna a indossare il cappotto, sistemare la sedia dietro di lei prima di prendere posto: questi son tutti atteggiamenti galanti, che nel corteggiamento funzionano ancora abbastanza bene.
Ma perché mai un uomo dovrebbe cedere il suo posto a sedere a una coetanea in perfetta salute che è appena salita sull’autobus?
Perché dovremmo sforzarci di sorridere alla commessa del supermercato, quando è stata una giornata stortissima, siamo esausti e vorremo solo insultare il mondo?
O peggio ancora: cosa ci trattiene dal prendere a insulti il deficiente che ci sta mettendo una vita a fare una dannata manovra per parcheggiare, e intanto blocca l’intera strada, il semaforo sta per diventare rosso e tu sei già in ritardo per il lavoro?
Ormai, va di moda ironizzare sul fatto che un “vaffa…” di tanto in tanto è altamente terapeutico.
E allora, perché io son qui a dire che non dovremmo concedercelo mai?