Sono stata sempre profondamente d’accordo con Rhett Butler in Via col vento: ho un debole per le cause perse, quando sono davvero perse. Osservare la storia di un uomo che sprofonda nella spirale del male è un’occasione morale potentissima, per osservare il vibrare intenso della nostra libertà di fronte alle scosse elettriche della vita. Si educa e ci si interroga sul proprio destino personale anche guardando con cruda onestà la perdizione.
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Il mistero della personalità è quel vulnus rispetto a cui uno scrittore, anche di trame cinematografiche e fumetti, si avvicina davvero tanto a Dio. Si sprofonda nell’umano di fronte a certe domande e ipotesi: creo un burattino o creo un essere libero? Voglio legare il personaggio al messaggio che mi prefiggo o voglio vederlo sudare nel mistero aperto che è la scelta del suo destino? Se scelgo di volerlo libero lo devo mettere nel campo aperto del dramma, della contesa del bene e del male.
È rispetto a questo giudizio che pongo la mia obiezione al film Joker: perché creare un mondo immaginario in cui il destino di un uomo dipende da un’assoluta prevalenza di male e nessun vero incontro col bene?
Il male è sempre una scelta
Da molti (furbi) punti di vista Joker è un film impossibile da criticare: la bravura del protagonista, Joaquin Phoenix, copre di luce propria ogni azzardo a dire qualcosa di negativo; la storia personale di Arthur Fleck (Joker) è costruita per renderlo un uomo a cui non si può non dare la nostra compassione sincera. Ma il Joker del 2019 non è una causa persa, è una causa costruita perfettamente per portarci a pensare che il cattivo aveva tutte le sue sacrosante ragioni per diventare cattivo. Siamo condotti per mano a formulare il pensiero che in certi casi non c’è alternativa al male.
Chi ha scritto questa trama non ha voluto dare nessuna alternativa all’uomo che diventerà Joker: siamo catapultati in un mondo che evita ogni incontro dell’anima protagonista con il bene. Batman arriverà dopo, per altri. Per quanto riguarda il percorso umano del giovane Fleck non c’è niente che si faccia portavoce di un’alternativa al sopruso e al cinismo. Gotham City è una città che calpesta in ogni forma possibile e immaginabile l’anima fragilissima del protagonista: ignorato dagli assistenti sociali, svilito e incompreso sul lavoro, bullizzato per strada, schifato dai passeggeri del bus, abusato da bambino senza che la madre lo difendesse, deriso a reti unificate in TV. A tutto questo si aggiunge la fragilità personale della sua malattia mentale.
È talmente tanta la zavorra umana che quest’anima si porta sulle spalle che non c’è neppure lo spazio di un respiro neutro, il nostro abbraccio ad Arthur è incondizionato.
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Siamo in un mondo di belve e un solo agnello. Possibile? Certo, nella fantasia è possibile tutto, ma è sempre sbagliato ingannare lo spettatore: in questo mondo immaginario gli autori vorrebbero farci arrivare a conclusioni morali, togliendo il fondamento della morale, cioé la contesa tra luce e buio. Non esiste il dramma terribile e bellissimo della libertà in un campo di gioco in cui c’è solo il buio.
Nel mondo di questo Joker è esclusa ogni mano tesa, non c’è alcun viso amico: ci sussurrano che diventare malvagio è una condanna pressoché imposta al protagonista, che è stato forzato a esplodere. Certo, Joker usa libero arbitrio – velato dalle ombre della malattia mentale – a fin di male nel film (ad esempio: insegue un uomo per ucciderlo, andando ben oltre la sua legittima difesa) ma abita in un mondo che è stato costruito a tavolino per farci dire: vedi a cosa è stato ridotto? È cattivo ma è più colpa degli altri che sua.
Ogni alternativa positiva non è percorsa neppure come ipotesi accennata. Il copione si allontana alla svelta di fronte al legame di affetto sincero tra Joker e il suo collega di lavoro nano, perché? Mettere seriamente a confronto il protagonista con l’ipotesi che esistono altre anime ferite con cui costruire un’amicizia per uscire dall’abisso è il tassello che manca alla sua vera libertà.
Ma il copione non ha previsto per Arthur-Joker un’alternativa, è questa la scelta sleale degli autori. E tradisce la verità umana, rispetto a cui anche la migliore fantasia è leale. Sarebbe stato interessante portare sulla scena un uomo che sceglie di voltare le spalle al bene, essendoci stato di davvero di fronte. Ma forse essendo il nostro mondo ormai orfano dell’ipotesi cristiana del perdono, questo ci ha reso capaci di parlare del male solo costruendogli attorno mille attenuanti.
Sì, senz’altro la nostra società è preda dalla logica del homo homini lupus, ma è molto più onesto Sam quando dice a Frodo – nel momento più oscuro del viaggio – che c’è ancora del buono proprio in un mondo di belve.
Joker è il film in cui il problema di una felicità negata viene risolto senza affrontare la sfida posta da un bene presente.
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Un ultimo nota bene, per dire che neppure nel più buio dei mondi la vendetta è l’unica scelta possibile. Accondiscendiamo pure all’idea di un mondo di puro egoismo, sopruso, malvagità. Purtroppo la storia ci ha messo di fronte a simili tragedie. E nei campi di concentramento una vittima come Primo Levi alzò il suo grido di felicità attraverso i versi dell’Ulisse dantesco. Non cadiamo nella trappola di dire che se l’orizzonte è nero cupo non c’è via d’uscita. La scelta libera del bene c’è anche nei contesti più annichilenti possibili. Questo ci dice la realtà. Buttato per una notte intera accanto a un compagno squartato, Ungaretti scrisse che amava la vita.
Tutte le sfumature arcobaleno di chi è Happy
C’è un altro aspetto del film che mi ha suscitato delle perplessità. Più di un anno fa, era il gennaio 2018, fu scritta una petizione in cui si chiedeva alla DC Comincs di dare a Joker quel che era di Joker, vale a dire di esplicitare la sua omosessualità.
Così titolava il sito Gay.it: