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Aggrappata alla misericordia di Dio, salvò il marito impenitente dall’inferno

WOMAN, FACE, SERIOUS

microcosmos | Shutterstock

Una penna spuntata - pubblicato il 23/10/19

Una storia tramandata da un monaco cistercense, a testimonianza dello straordinario quantitativo di grazia racchiuso nel sacramento del matrimonio.

No”.
“…in che senso, no?”.
“Nel senso di no. Il contrario di sì”.
Il Santo Padre inarcò le sopracciglia, lanciando un’occhiata a quella donnetta gracilina che lo guardava storto, con i pugni stretti sui fianchi, e che si permetteva di rispondergli così (!). Si sentì molto confermato nella sua vocazione al celibato, anche.
“Figlia mia”, disse molto cautamente: “ma se il tuo parroco e il tuo vescovo hanno deliberato in questo senso…”.
“Non mi interessa”, replicò la donna con voce ferma. “Mica ho fatto appello alla Santa Sede perché non sapevo come passare il tempo. Santità, io vi imploro in ginocchio: permettete che i resti di mio marito vengano trasferiti in terra consacrata”.


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Il Papa si passò una mano tra i capelli, tradendo un moto di esasperazione. “Ma figlia mia diletta. Dalle informazioni in mio possesso, a me risulta che tuo marito fosse un usuraio…?”.
“Sì, purtroppo questo è vero”, annuì la donna senza scomporsi.
“Un pubblico peccatore, dunque?”, insisté cautamente il Papa.
“Indubbiamente, Santità”.
“E mi risulta”, aggiunge il Papa, con moltissima cautela, “che tuo marito sia morto senza confessare i suoi peccati…?”.
“Purtroppo, è vero anche questo”.
“E allora, figlia cara, che cosa vuoi che possa farci, io?”, esclamò il Santo Padre con una nota di esasperazione. “Lo sai bene che è la prassi. Stiamo parlando – scusa la franchezza – di un pubblico peccatore, che, dopo aver portato avanti per decenni pratiche contrarie alla legge di Dio, e dopo aver mandato in rovina centinaia di famiglie innocenti, è morto rifiutando la confessione sacramentale, allo stesso modo in cui, in vita, ha sempre rifiutato la conversione. Scusa la franchezza, ma mi spieghi quale sarebbe il senso di permettere il trasferimento della sua salma in terra consacrata?”.
“…perché la misericordia del Signore è infinita…”.

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Il Papa sospirò, passandosi di nuovo una mano tra i capelli. “Quello che dici è vero”, disse molto lentamente, “ma devi anche renderti conto che, purtroppo, la condotta di tuo marito, il suo stile di vita, le circostanze in cui è morto, non lasciano ben sperare…”.
“Ne sono perfettamente consapevole, Santità”, ribatté la donna, con voce ferma. “Ma io sono qui nella convinzione che non si possa neanche smettere, di sperare. Mi è stato insegnato, signore, che il marito e la moglie sono una cosa sola, e che, secondo l’Apostolo, l’uomo infedele può essere salvato dalla donna fedele. Io, che sono parte del corpo di mio marito, farò volentieri al posto suo ciò che egli ha omesso di fare in vita. Sono pronta a farmi reclusa, per lui, e a offrire a Dio, con le mie preghiere, il riscatto per i suoi peccati”.




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Nella sala delle udienze calò il silenzio per qualche secondo; poi, fra i cardinali, cominciò a correre un mormorio.
La donna fissò negli occhi il Papa, e si inginocchiò al suo cospetto. “Vi prego. Rinuncerò a tutto quello che ho, rinuncerò alla mia stessa vita, ma non date per scontato che mio marito non possa salvarsi”.

Così prosegue la storiella, tratta dal Dialogus miracolorum Cesario di Heisterbach (1180 – 1240 ca.):

Cedendo alle preghiere dei cardinali, il Papa fece riportare il morto al cimitero. La moglie elesse domicilio presso la sua tomba, si richiuse in clausura e si sforzò giorno e notte di placare Dio per la salvezza dell’anima del marito, mediante elemosine, digiuni, preghiere e veglie. Sette anni più tardi, il coniuge le apparve, vestito di nero, e la ringraziò: “Dio ti renda merito per quello che stai facendo. Grazie alle tue prove, sono stato sottratto alle pene terribili delle profondità dell’Inferno. Se tu mi presterai questi servigi per altri sette anni, sarò liberato del tutto”. La donna lo fece, e, allo scadere dei sette anni, il marito le apparve di nuovo – ma, questa volta, era vestito di bianco, e aveva l’aria beata. “Grazie a Dio, e grazie a te, perché oggi sono stato liberato!”.

È una storiella sorprendente per molti versi. Ad esempio, pare sconcertante che un peccatore pubblico e così incallito venga salvato “dalle profondità dell’Inferno” solo perché aveva una moglie devota (e che è?). Infatti, il redattore ci tiene a precisare subito dopo che, evidentemente, il peccatore non era poi così incallito: sul punto di morte, doveva sicuramente aver provato contrizione per i suoi peccati.

Ma il punto non è nemmeno quello, sapete?
In fin dei conti, di storie simili è piena l’agiografia: Tizio, peccatore incallito, muore in circostanze molto poco promettenti, e viene salvato in extremis dall’intervento misericordioso della Beata Vergine.
La Madonna, nel Medioevo, era specializzata in questo tipo di salvataggi!
La cosa sconcertante è proprio questa: in questa storia, il peccatore viene salvato non dall’intervento della Vergine Maria, ma dall’intervento di… sua moglie.




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L’autore di questo aneddoto è un monaco cistercense, e gli studiosi concordano nel dire che forse non è un caso: a Citeaux si sentiva molto forte il legame comunitario tra i vari membri dell’ordine. Che un monaco potesse (e dovesse) pregare per i suoi confratelli, evidentemente nella speranza di essere esaudito, era un concetto abbastanza acclarato.

Ma l’usuraio del nostro racconto, con molta evidenza, non è un monaco; né men che meno lo è la sua coraggiosa moglie.
Siamo nella prima metà del ‘200, e la Chiesa stava lottando con forza per sottolineare davanti agli occhi dei  fedeli lo straordinario quantitativo di grazia racchiuso in un matrimonio sacramentale. Al vincolo coniugale – unico, sacro, eterno e indissolubile – viene riconosciuto un potere talmente grande da ammettere che ci si possa salvare anche attraverso il sacramento matrimoniale. Addirittura, anche attraverso le azioni del proprio coniuge.

Ed è roba forte, eh, calcolando che tutto ciò viene detto in un monastero di inizio Duecento!

QUI IL LINK ALL’ARTICOLO ORIGINALE PUBBLICATO DA UNA PENNA SPUNTATA

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