Sono negli Stati Uniti da qualche tempo e un giorno, fuori dalla S. Messa, ho ascoltato due storie. Due perfetti candidati al pietoso “suicidio assistito” ci hanno mostrato di cosa ha davvero bisogno l’uomo, ogni uomo. La loro vita dice alla nostra quanto preziosa sia! Non c’è vera libertà nella cultura della morte.di Anna Raisa Favale
Se quando ho avuto l’incidente fosse esistito il suicidio assistito, l’avrei chiesto. Ma sono cosi grato che non fosse un’opzione.
Dopo la Messa saluto degli amici. Una di loro è una mamma che inizia a parlare dello stato di suo figlio, un ragazzo di 33 anni che poco più di 1 anno fa ha avuto un incidente in seguito al quale è rimasto tetraplegico.
Ma ne parla con speranza, con gioia. Ci dice:
Prima di avere questo incidente aveva una depressione sempre latente, non stava bene. Ora invece ha riscoperto il dono della vita, l’altro giorno mi ha detto “Non sono mai stato così felice come ora”.
Siamo un gruppo di quattro, cinque persone ad ascoltare. Ricevere questa testimonianza ci ha spiazzato, rimaniamo in silenzio come ad interrogarci sul valore della vita, per ognuno di noi.
Allora un’altra donna si inserisce:
Mio zio ha avuto un incidente, 30 anni fa, quando era ancora un ragazzo, e anche lui è tetraplegico. I primi tempi sono stati molto duri, a differenza di tuo figlio lui è caduto in depressione subito dopo. Ma l’altro giorno, guardando un servizio al telegiornale, mi ha detto: “Se quando ho avuto l’incidente fosse esistito il suicidio assistito, l’avrei chiesto. Ma sono cosi grato che non fosse un’opzione”. Mio zio poi si è ripreso, si è sposato, ha guarito la sua ferita e oggi e’ un uomo pieno di vita che da’ tanto a tutti”.
Se già eravamo rimasti allibiti dalla prima testimonianza, questa seconda ci scuote ancora di più. E mentre penso che Dio non mi chiama mai a Messa per caso, e non e’ “solo” per riempirmi di Lui e del Suo amore, ma anche per inviarmi messaggi attraverso gli altri, nelle parole di questa donna e nel racconto di questa storia, credo che risieda intimamente il cuore della problematica sul suicidio assistito. La fragilità.
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Se consentiamo, tramite una legge, a chi in momenti di estrema fragilità, fisica ed emotiva, di dolore e pensieri negativi, di depressione e rabbia, pensa di star decidendo “liberamente” sul mettere fine alla propria vita, allora abbiamo dato il nostro consenso a condannare per sempre quella stessa persona che in un momento diverso, di maggiore lucidità e positività, una volta “fuori dal tunnel”, deciderebbe diversamente. La stiamo condannando alla morte. La chiave sembra essere la parola “libertà”. “Lasciamo gli altri di decidere liberamente”, ci dicono.
Ma siamo davvero sicuri che una persona che ha appena subito un incidente che l’ha reso tetraplegico o l’ha paralizzato, sia fino in fondo “libero” di decidere lucidamente? O non è forse completamente schiavo di pensieri di morte, pensieri negativi, con un corpo dolente e una mente totalmente stravolta da quanto appena accaduto? Siamo profondamente certi di chiamare questa “libertà”?
Penso a quello zio. E penso a quanti sforzi ci siano voluti, in quel momento così drammatico della sua vita, per aiutarlo a vivere, e a riscoprire il valore della sua vita e della sua persona, anche da dentro un letto, o in una carrozzina. Eppure tutti erano lì, desiderosi di fare ogni sforzo per salvarlo. Non lo conosco. Ma penso al giorno in cui si è innamorato, al giorno in cui
gli occhi di una donna si sono posati sul suo cuore e lo hanno guardato per quello che era, nell’anima, e hanno deciso di amarlo.
Penso al giorno del suo matrimonio, e a tutta la gioia e l’amore che non sarebbe esistito se fosse esistito il suicidio assistito.
E poi penso all’oggi, e a tutte quelle persone che mentre noi stiamo parlando, si stanno illudendo di star scegliendo “liberamente” di togliersi la vita. E che stanno morendo.