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Stare con la mamma da piccoli? E’ decisivo per lo sviluppo cerebrale

MOM AND SON
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Paola Belletti - pubblicato il 18/10/19
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C’è un periodo particolare proprio nella primissima infanzia per cui la presenza “supportiva” della madre significa maggiore sviluppo dell’ippocampo. Potrebbe tornarci utile, come regola generale, l’adagio biblico che recita “c’è un tempo per ogni cosa”.Non si sa bene quali fonti e quanto autorevoli abbiano fornito al leader di Italia Viva (parla al minuto 47:55 della trasmissione Porta a Porta del 15 ottobre scorso proprio di una tesi sostenuta da “tutti i pedagogisti”) per fargli dire con tanta sicumera che andare all’asilo nido faccia bene a tutti, al punto che dovrebbe essere obbligatorio. Si potrebbe altresì notificargli che esistono almeno due studi che lo smentiscono, uno americano e uno dalla insospettabile Bologna.

L’habitat naturale per lo sviluppo è l’amore familiare

Qualche giorno fa mi sono imbattuta, come altri che bazzicano il web, in due immagini da risonanza magnetica accostate che mostrerebbe il diverso sviluppo di due encefali di due bimbi entrambi della stessa età, tre anni: l’uno rimasto amato e accudito dalla mamma l’altro, invece, no. Anzi, il secondo è un bimbo che ha subito traumi fortissimi. L’immagine è proposta originariamente dal Prof. Bruce D. Perry, psichiatra infantile di fama mondiale, esperto proprio di sviluppo infantile e del peso dell’assenza di amore (e presenza del suo contrario: abbandono e violenza) sul bambino.

Il contrasto è così impressionante anche perché si tratta del confronto tra un bimbo amato e accudito e uno abusato e abbandonato.

Rimando al link per visionare l’immagine coperta da diritti d’autore.

Abbandonerei però subito questa via, poiché non è affatto, per nulla, il caso così diffuso dei bimbi che vengono affidati ad asili nido. Ma come caso estremo ci può essere utile tenerla presente. (Ci dice che l’amore, l’accudimento, la presenza siano la via maestra per lo sviluppo armonico della persona. La deprivazione in quest’ordine di cose ha ricadute gravissime)


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Asili nido: non sono il male assoluto ma nemmeno l’optimum

Il nido non è il male, non provoca danni irreparabili (salvo casi estremi, ovvio) e in molti casi è la soluzione migliore cui tante famiglie riescono a giungere. Però non è sicuramente l’optimum. Quante mamme possono confermarlo per esperienza diretta? Il legame iniziato con la gestazione prosegue senza soluzione di continuità una volta che si è occhi negli occhi e nessuno dei due vuole sospenderlo, cederlo, men che meno spezzarlo. Soprattutto nei primi anni.

I due studi in questione parlano di una alquanto significativa incidenza della relazione madre figlio nella prima infanzia per lo sviluppo cerebrale ed emotivo del figlio. La mamma è sempre la mamma, e all’inizio ancora di più. Suona un po’ come la scoperta dell’acqua calda ma tant’è. Siamo in un periodo storico per cui se una cosa non la dice “la Scienza” non ci crediamo. E allora, poiché tempo e realtà – che la scienza di propone di indagare –  sono entrambi galantuomini, lasciamocelo dire.

I risultati dello studio americano sull’incidenza del supporto materno nella prima infanzia

La ricerca, ad opera di Joan L. Luby , Andy Belden , Michael P. Harms , Rebecca Tillman e Deanna M. Barch, risale al 2016 ed è stata accettata, revisionata e pubblicata nell’aprile dello stesso anno dalla rivista PNAS (Proceedings of The National Academy of Sciences of the United States of America) si intitola Preschool is a sensitive period for the influence of maternal support on the trajectory of hippocampal development:

Centoventisette bambini hanno partecipato a tre ondate di imaging cerebrale a risonanza magnetica durante l’età scolare e la prima adolescenza. È stata condotta la modellazione multilivello degli effetti del supporto materno in età prescolare e scolare sui volumi dell’ippocampo attraverso le tre onde. Il volume dell’ippocampo è aumentato più rapidamente per quelli con livelli più alti di supporto materno prescolare. (dall’Abstract su PNAS)


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Significa che gli effetti a medio e lungo termine del supporto materno nella prima infanzia sono macroscopicamente evidenti e indubbiamente positivi. Così commentano gli autori gli esiti e il senso della ricerca:

 I dati suggeriscono anche che la prima infanzia è stata un periodo delicato in cui gli effetti del supporto hanno avuto un effetto più potente sulla crescita dell’ippocampo. La traiettoria di crescita dell’ippocampo era associata a una migliore regolazione delle emozioni nella prima adolescenza. I risultati suggeriscono che il miglioramento del supporto materno nella prima infanzia favorisce lo sviluppo del cervello e il funzionamento delle emozioni in buona salute. (Ibidem)

Secondo gli autori ciò che ci mostra lo studio dovrebbe chiedere politiche adeguate a custodia di questa prima delicatissima fase:

La scoperta che il supporto materno sperimentato durante il periodo prescolare ha un impatto tangibile sulla traiettoria dello sviluppo dell’ippocampo attraverso l’età scolare e la prima adolescenza sottolinea ulteriormente l’importanza degli sforzi della salute pubblica per migliorare il supporto materno durante la prima infanzia, un obiettivo che ha dimostrato di essere entrambi fattibile ed economico. (Ibidem, conclusioni)

Aiutiamo come società e come istituzioni le madri ad essere presenti, serene e positive soprattutto nei primi anni di vita dei propri figli. Il beneficio è di tutti.

Cosa significa essere una “madre supportiva” secondo i ricercatori?

Il sostegno materno nel presente studio è stato concettualizzato come il grado in cui le madri vedono e si avvicinano ai loro figli con una considerazione generale positiva, nonché i loro sforzi per essere consapevoli emotivamente e evolutivamente del benessere emotivo dei loro figli. (Ib)

L’altro studio è stato svolto invece in Italia, a Bologna e conferma il concetto: il bimbo piccola sta molto meglio se ha rapporto costante con adulti dedicati. Nei primi anni ciò che conta è la relazione con l’adulto e non con i pari. Quindi il refrain “mandalo al nido che socializza” va cambiato. Serve, prima, la socializzazione primaria, quella madre (e padre) e figlio. Su quel fusto si innestano ben saldi gli altri rami.

La ricerca bolognese: i nidi funzionano e fanno bene quando ci sono pochi bimbi e adulti dedicati: non è meglio allora la famiglia?

Ma vediamo cosa dice la ricerca emiliana:

Lo studio. Condotto dal dipartimento di Scienze Economiche dell’università di Bologna (Margherita Fort, Andrea Ichino e Giulio Zanella) lo studio ha coinvolto circa 500 famiglie che avevano chiesto di iscrivere il bimbo al nido pubblico della città tra il 2001 e il 2005.

I risultati. Due differenze statisticamente significative: cinque punti in meno sul quoziente intellettivo dei bimbi che frequentano il nido rispetto a quelli accuditi da un adulto ma meno rischio di obesità e sovrappeso. (da La Repubblica)

Pare che il problema risieda nel fatto che entro i primi due anni il bimbo cerca soprattutto attaccamento, protezione, affetto. Una volta consolidate queste dimensioni allora si procede alla socializzazione e ad altre forme di apprendimento. Anche questo, a lasciar fare alla natura, ci verrebbe abbastanza spontaneo.

Perché se il nido diventa un ambiente tanto più adeguato quanto più assomiglia ad una famiglia allora, forse, converrebbe che questi figli in famiglia ci restassero un po’ di più.



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