“Non è la cosmovisione indigena a stabilire ciò che può essere o non essere accettato del Vangelo di Gesù Cristo”In un articolo inviato all’agenza informativa cattolica ACI Digital sull’Instrumentum Laboris (IL) del Sinodo per l’Amazzonia, in svolgimento in Vaticano fino al 27 ottobre, monsignor José Luis Azcona, vescovo emerito della prelatura di Marajó, nello Stato brasiliano del Pará, ha risposto alla proposta di ordinare sacerdoti sposati, e in particolare all’affermazione per la quale gli indigeni non comprenderebbero il celibato.
Vescovo nel cuore dell’Amazzonia
Monsignor Azcona è arrivato in Brasile nel 1985, e ha vissuto e lavorato come vescovo nel cuore dell’Amazzonia dal 1987 al 2016, quando si è ritirato. Continua ad abitare nell’isola di Marajó, teatro principale della sua azione pastorale, caratterizzata da coraggiose proteste per la situazione di miseria che vive la popolazione locale. Le sue denunce contro la devastazione ambientale, la pesca indiscriminata, la prostituzione infantile e il traffico di donne verso la Guyana francese e l’Europa gli sono valse molte minacce di morte.
Ecco alcune delle dichiarazioni di monsignor Azcona sulla presunta incapacità indigena di comprendere il celibato sacerdotale cattolico:
“Non è la cosmovisione indigena che determina l’evangelizzazione e stabilisce ciò che può essere o non essere accettato del Vangelo di Gesù Cristo. Questa cultura sarebbe un ‘nuovo vangelo’, come innumerevoli volte si dà a intendere nell’Instrumentum Laboris (IL), vangelo sorto dagli indigeni, dalle loro culture o dalla loro analisi delle necessità dell’uomo anche nel campo del celibato, delle famiglie, della sessualità, realtà che determinano intrinsecamente la personalità e la loro storia. Non è la cultura indigena che trova difficoltà insormontabili nella comprensione del celibato”.
“Il fatto che è manca una vera inculturazione del Vangelo tra gli indigeni. C’è stata per molte ragioni una trasmissione della fede ‘che non diventa cultura, una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta’ (Rm 10)”.
“Il primo passo per la soluzione del problema del celibato non è la sua abolizione. È, al contrario, l’inculturazione del Vangelo con i valori profondi, le aspirazioni vitali, le radici antropologiche (Rm, 24; At 14, 11-17; 17, 22-31) di una determinata cultura. Gesù Cristo e il Suo Spirito trascendono ogni cultura, ma simultaneamente si incarnano nei valori e nelle espressioni più profonde di ogni cultura. Egli è l’inizio, il mezzo e il fine dell’inculturazione”.
Il testo integrale dell’articolo
Ecco il testo completo dell’articolo che monsignor Azcona ha pubblicato attraverso ACI Digital:
L’ordinazione di sacerdoti sposati
Senza voler polemizzare con nessuno, torno alla questione che ho già affrontato in occasione della pubblicazione dell’Instrumentum laboris (IL) del Sinodo. Abbiamo osservato che sono due le ragioni presentate da chi difende l’ordinazione di sacerdoti sposati: si renderebbe possibile la celebrazione della Messa nei villaggi, oggi impossibile per la normativa del celibato, e dall’altra parte si supererebbe il rifiuto intrinseco nei confronti di questo derivante dall’antropologia indigena, dall’assoluta impossibilità di una “comprensione” della situazione per quanto riguarda il caso del sacerdote indigeno celibe nell’Amazzonia di oggi.
La prima ragione viene sfatata dal fatto evidente che l’assenza di un sacerdote per celebrare l’Eucaristia è un problema comune a tutta la Chiesa, e non solo alle comunità indigene. Non apparterrebbe, quindi, all’ambito di una problematica che un Sinodo dovrebbe discutere.
In questa sede vogliamo affrontare la questione culturale indigena, che secondo alcuni deve prevalere in modo assoluto sulla legislazione attuale, “nel caso in cui i cattolici vogliano avere membri del clero provenienti da comunità indigene”.
L’aria decristianizzata che soffia su molte pagine dell’IL si evidenzia in tutta la sua crudezza ni confronti dell’ordinazione di indigeni non vincolati dal sacro dono del celibato. “Non c’è altra possibilità. I popoli indigeni non capiscono”. Una visione profondamente secolarista si è impadronita del documento, cosa che qui vorremmo evidenziare con la massima chiarezza. Vediamo.
“Non è la cultura la misura del Vangelo, ma è Gesù Cristo la misura di ogni cultura e di ogni azione umana”.
Non è la cosmovisione indigena che determina l’evangelizzazione e stabilisce ciò che può essere o non essere accettato del Vangelo di Gesù Cristo. Questa cultura sarebbe un ‘nuovo vangelo’, come innumerevoli volte si dà a intendere nell’Instrumentum Laboris (IL), vangelo sorto dagli indigeni, dalle loro culture o dalla loro analisi delle necessità dell’uomo anche nel campo del celibato, delle famiglie, della sessualità, realtà che determinano intrinsecamente la personalità e la loro storia.
La necessità di “rinascere”, di “essere un uomo nuovo”, “nell’unico Uomo nuovo” (Ef 2, 15-16), quindi anche nell’area della sessualità, non sarebbe provocata dal Vangelo. Sarebbe una pura salvezza umana, e quindi non salvezza. L’indigeno, la sua famiglia, la sua affettività e la sua sessualità resterebbero consegnati a se stessi. La saggezza degli avi, le cosmovisioni della loro cultura, le interpretazioni della realtà del loro popolo…
L’evangelizzazione dell’Amazzonia non può nascere dal desiderio di “far cosa gradita agli uomini”, o di “cercare il loro favore” (Gal 1, 10), né quello dei cardinali o del Sinodo. Deve nascere dalla responsabilità della Chiesa per il dono che Dio ci fa in Cristo, che fa sia agli indigeni che a noi.
Dono che non estingue né umilia o si sovrappone ad alcuna cultura o nazione. È la “ricchezza insondabile” (Ef 3, 8) che innanzitutto è Cristo stesso, la sua Persona, la sua Chiesa, perché Egli stesso è la nostra salvezza e quella dell’Amazzonia.
La cristologia riduzionista che permea l’IL non segnerà mai “le nuove vie per la Chiesa in Amazzonia, né per un’ecologia integrale”. Se così fosse, il Sinodo verrebbe eliminato perché Gesù di Nazareth, Figlio di Dio, resterebbe così fuori dal centro (ibidem 6-7).
Dall’altro lato, il messaggio del Nuovo Testamento sulla sessualità umana e le sue conseguenze, punto di partenza per la comprensione del celibato, non è un impedimento incomprensibile per i popoli indigeni, come non lo è stato per i Greci e i Romani (1 Cor 6; Ef 5; Gal 5; Rm 1) o per gli Ebrei (Mt 19). Tutti loro hanno avuto la stessa difficoltà di comprensione, ma allo stesso tempo hanno sperimentato la gioia incontenibile di “glorificare Cristo nel loro corpo” (sesso, genitalità) (1 Cor 6, 20), e anche l’esperienza unica della liberazione sessuale “per l’alto prezzo del sangue di Cristo” (ibidem) mediante il sacramento del Battesimo e quello del matrimonio, mistero grande in Cristo e nella Chiesa (Ef 5, 32).
Non è la cultura indigena che trova difficoltà insuperabili nella comprensione del celibato. Il fatto che è manca una vera inculturazione del Vangelo tra gli indigeni. C’è stata per molte ragioni una trasmissione della fede ‘che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta’ (Rm 10). Ecco! In una parola, le difficoltà delle culture indigene di comprendere il celibato e di viverlo, anche nel sacramento dell’ordine sacerdotale, non sono diverse da quelle delle culture afroamazzoniche, fluviali, dei caboclos o urbane dell’Amazzonia. Lo stesso è accaduto con le culture iberiche nella loro prima evangelizzazione, con l’inculturazione di quelle germaniche o asiatiche… Qualsiasi cultura sperimenta fondamentalmente la stessa difficoltà di comprendere, vivere, trovare il vero senso della struttura affettiva, sessuale, genitale, e quindi del celibato che nasce necessariamente dal Battesimo e dall’Eucaristia (1 Cor 6, 9-11).
Senza un’autentica inculturazione del Vangelo in un processo lungo, complesso e difficile, non c’è alcuna possibilità per nessun popolo della Terra di comprendere, accettare in modo grato o vivere fedelmente la questione, né per le culture indigene né per le altre.
Il primo passo per la soluzione del problema del celibato non è la sua abolizione. È, al contrario, l’inculturazione del Vangelo con i valori profondi, le aspirazioni vitali, le radici antropologiche (Rm, 24; At 14, 11-17; 17, 22-31) di una determinata cultura. Gesù Cristo e il Suo Spirito trascendono ogni cultura, ma simultaneamente si incarnano nei valori e nelle espressioni più profonde di ogni cultura. Egli è l’inizio, il mezzo e il fine dell’inculturazione.
Paolo, nella Lettera ai Galati, proclama: “Io non annullo la grazia di Dio; perché se la giustizia si ottenesse per mezzo della legge, Cristo sarebbe dunque morto inutilmente.” (2, 21). Non possiamo mettere la cultura contro la Grazia, né la saggezza indigena contro la Croce.
Il celibato nel sacerdozio, dall’altro lato, facilita il rapporto assiduo con il Signore, con un cuore indiviso (1 Cor 7). Rappresenta una caratteristica specifica e incomparabile del kairós e della situazione profetica per l’esercizio del profetismo più audace nell’Amazzonia dei nostri giorni.
Questo definisce, proclama apertamente e con gioia la caratteristica essenzialmente escatologica del nostro tempo profetico senza paragoni.
Vediamo ora lo specifico del celibato a partire dal Nuovo Testamento. Questo è incomprensibile se non si intraprende la via di Gesù. La sua vita da celibe è il germe da cui nascono necessariamente la verginità e il celibato nella Chiesa. Non stupisce, quindi, che in un documento come l’IL che sequestra il Crocifisso dal testo preparatorio del Sinodo “non si comprenda” il celibato di Gesù, né quello della Chiesa.
Matteo 19, 10-12 sottolinea che questo è incomprensibile come lo è stato per gli ebrei che lo insultavano con i termini “eunuco, impotente”. Gesù accetta l’insulto e spiega la sua condizione di celibe: “il Regno dei Cieli”. Come tra gli indigeni dell’Amazzonia il celibato anche oggi è considerato impossibile da non pochi uomini (PO, 16). Per questo, con tanta più umiltà e perseveranza, noi presbiteri siamo invitati a implorare con tutta la Chiesa la grazia della fedeltà (ibidem). In una cristologia ed ecclesiologia sprovviste dell’esperienza della grazia, il celibato non ha alcun senso, come è evidente nell’IL l’assenza totale della gioia pasquale e dell’autentica speranza cristiana.
In Matteo, il celibato è incomprensibile come il contadino del Vangelo che pieno di gioia vende tutto per comprare il campo (Mt 13, 44ss). Il celibe, come Gesù, vive con entusiasmo e allegria il fatto di spogliarsi di tutto “per il Regno dei Cieli”. È questa l’unica giustificazione.
Chi non è evangelizzato, colui al quale il Regno di Dio non è stato annunciato, non comprende nulla. Come gli indigeni dell’Amazzonia che pensano partendo da se stessi, non dal Vangelo, non dal Regno dei Cieli. La Chiesa matteana che nasce dall’ebraismo accoglie, ammira e accompagna gruppi di persone che rimanevano celibi imitando Gesù.
… Il dono della castità
La condotta degli eunuchi sottolinea l’importanza che il Regno aveva acquisito per loro. Avevano ricevuto il dono di comportarsi così, comprensione che solo la fede aveva reso possibile. Solo Dio poteva dare questa comprensione del Regno dei Cieli che ha portato alcuni ad abbracciare il celibato. Questo si conferma in modo evidente con il versetto 11, in cui Dio è il soggetto del verbo concedere, un passivo teologico: Dio dà esclusivamente il dono del celibato (1 Cor 7, 7b). L’uomo è incapace di raggiungerlo con i propri sforzi. La gioiosa accettazione del dono divino comporta una continua azione di grazie.
… per il Regno dei Cieli
È la causa della vita nella verginità. Dio è sperimentato come sovrano di tutto (misericordia, bontà divina), è giustizia. La vicinanza del Regno dei Cieli è la vicinanza di Dio stesso. “Oggi si compie la Scrittura che avete appena ascoltato” (Lc 4), il Dio della compassione e della misericordia è qui: amore per i più abietti – lebbrosi, peccatori. È così che cura gli uomini. I celibi sono il paradigma vivente di colui che è diventato parabola di Dio, del Dio che ama, come Gesù. I primi ad essere toccati dall’amore. Vivere la vicinanza di Dio trasformata in tenerezza accogliente per i fedeli bisognosi è possibile solo per chi è dominato dalla grande gioia di aver trovato il campo e la perla.
… Incomprensibile
Anche Gesù è stato insultato per questo. Gesù proclama la beatitudine di chi non si scandalizza di Lui. Per chi accetta la visita di Dio alla miseria umana e si dona a Dio con fiducia infinita, è quello il beato. Affondare tutti i giorni nel contenuto del Regno di Dio, innamorarsi ogni giorno di Dio che si dimostra l’Amore nella povertà del celibato per il Regno è umanamente qualcosa di impossibile.
… La grazia del celibato
I testi del Vaticano II sul celibato sacerdotale sono testi aperti, pieni di fiducia nello Spirito di Dio che concede questo dono con liberalità alla sua Chiesa. Unica condizione: i sacerdoti e tutto il popolo di Dio con loro devono chiederlo con umiltà e costantemente (PO 16). I presbiteri fiduciosi nella grazia di Dio, con grandezza d’animo e devota perseveranza che riconoscono il dono magnifico del Padre saranno capaci di mantenere la propria fedeltà. Il concilio insiste sulla preghiera: “I sacerdoti, e con loro tutti i fedeli, chiedano a Dio questo dono, ed Egli lo concederà sempre con abbondanza a tutta la sua Chiesa” (ibidem).
Detto questo, sono legittime alcune domande: fino a che punto le etnie indigene e tutta la Chiesa con loro chiedono il dono del celibato con la massima fiducia? Noi sacerdoti in Amazzonia, chiediamo consapevoli e fiduciosi questo dono per tutta la Chiesa della regione? Il secolarismo che impregna l’IL permette questa apertura alla grazia o la annulla (cf Gal 2, 21)?
La preghiera come mezzo per trarre continuamente la forza di Cristo diventa qui in Amazzonia un’urgenza concreta. È giunto il momento di ribadire in Amazzonia l’importanza della preghiera di fronte all’attivismo e al secolarismo che minacciano molti cristiani nell’evangelizzazione. La familiarità con il Dio personale e l’abbandono alla sua volontà impediscono il degrado dell’essere umano, lo salvano dalla prigione delle dottrine puramente umane e creano l’ambiente per la comprensione e il vivere felicemente la castità e il celibato sacerdotale.
Conciliare le rinunce richieste dalla fede in Cristo con la fedeltà alla cultura e alle tradizioni del popolo a cui appartengono è stata la sfida che i primi cristiani hanno dovuto affrontare, ed è anche la sfida dei cristiani in Amazzonia e di quelli di tutti i tempi, come attestano le parole di San Paolo: “Noi predichiamo Cristo crocifisso, che per i Giudei è scandalo, e per gli stranieri pazzia” (1 Cor 1, 23) (La liturgia romana e l’inculturazione, 20).