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“Se aveste fede quanto un granello di senape…” A che tipo di fede si riferisce il Vangelo?

JESUS PREACHING

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Daniel R. Esparza - pubblicato il 09/10/19

Uno sguardo alle parole greche ed ebraiche per dire “fede” può aiutarci a comprendere questa metafora

“Gli apostoli dissero al Signore: ‘Aumenta la nostra fede!’”, leggiamo nel Vangelo di Luca. Come sempre, Gesù offre loro una riposta inaspettata. Lungi dall’istruirli nella teologia fondamentale o dal dare loro una copia del Catechismo, o dal chiedere loro un po’ di tempo per scrivere un trattato spirituale, Gesù replica con un’immagine concisa e forte: “Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo sicomoro: “Sràdicati e trapiàntati nel mare”, e vi ubbidirebbe”

A che tipo di fede si sta riferendo Gesù? Non sembra voler dire agli apostoli che hanno bisogno di conoscere meglio i principi di base della fede, né sta sottolineando i valori nutrizionali della senape.

Come accade spesso, consultare il testo originale greco può aiutarci a capire cosa avevano in mente gli autori dei Vangeli, ma prima di questo dovremmo anche comprendere cosa implicava la nozione di fede nella tradizione ebraica.

Il termine ebraico per fede è “emuna”. In un articolo pubblicato nel 1953 sul The Journal of Bible and Religion, Edmund Perry si riferisce a un passo del Libro di Abacuc (2, 4) in cui si legge che “il giusto vivrà per la sua fede”. Nell’originale ebraico, il termine usato in questo passo è “emuna”. Anche se la parola viene comunemente tradotta come “fede”, Perry sostiene che sarebbe meglio tradurla come “fedeltà”.

Questo cambio apparentemente di poco conto indica un elemento interessante: la fede è qualcosa di attivo, un’attività sempre in atto equivalente a una condizione stabile. Come un bravo falegname è totalmente devoto al suo lavoro al punto da diventare un maestro e noi sediamo con fiducia sulle sedie che costruisce confidando nel fatto che non si romperanno, l’“emuna” implica che si sia fiduciosi. Perry mostra che la radice del termine (mn) è collegata ad altri verbi che indicano sostegno, cura, implicando che questa “fede” è qualcosa che una persona ha sostenuto e di cui si è preso cura.

E questa è infatti anche la radice della parola “artigiano”, come “persona di cui ci si fida per qualcosa” (omanim), “persona affidabile”, suggerendo che la fiducia è qualcosa che si costruisce ma per cui bisogna anche impegnarsi attivamente.

Quando il termine “emuna” appare accanto a un altro, si può apprezzare meglio questa dimensione del suo significato: ad esempio, quando compare vicino alla parola “amore” (hesed) diventa “amore costante”, il che significa che la fede è in primo luogo e innanzitutto una questione di fiducia: emuna significa costanza, una fedeltà continua a colui a cui si è legati, affidabilità.

Alla fin fine, è una questione di fiducia: quando si sa che qualcuno è stato costantemente leale, non ci può non confidare in lui. È stata questa l’esperienza di Dio da parte di Israele, un Dio che per via delle sue azioni concrete si è dimostrato leale alle sue promesse. Quando si legge il libro dell’Esodo, ad esempio, si vede che agli Israeliti non mancava il fatto di credere in Dio, ma la fiducia. Esodo 14, 31 è un passo classico in cui si trova la differenza tra credere e confidare, che spesso si perde nella traduzione: “Israele vide la grande potenza con cui il Signore aveva agito contro gli Egiziani. Il popolo perciò ebbe timore del Signore, credette nel Signore e nel suo servo Mosè”.

In altre traduzioni, però, si legge: “Quando Israele vide la grande potenza con cui il Signore aveva agito contro gli Egiziani, ebbe timore del Signore, confidò nel Signore e nel suo servo Mosè”.

È chiaro, allora, che il significato di “emuna” implica fiducia in qualcuno perché si è visto che quella persona è davvero affidabile. È ragionevole assumere che questo sia il tipo di fede che aveva in mente Gesù, ma cosa ci dice il greco usato nei Vangeli?

La parola greca per “fede”, quella che troviamo nei Vangeli, è “pistis”. “Pistis” deriva dal termine usato per indicare la persuasione, “peitho”. Nel suo libro Persuasion in Greek Tragedy: a study of peitho, R.G.A. Buxton spiega come la parola persuasiva fosse per gli ateniesi classici una componente fondamentale della vita quotidiana: politica, amore, moralità, filosofia, perfino la medicina erano tutte intrise di retorica. Come scrive Buxton, “sarebbe sbagliato sottovalutare il ruolo del peitho, soprattutto ad Atene, perché Atene era una città dominata dal potere della parola. La sua letteratura del periodo classico è quasi piena di argomentazioni, discussioni e dibattiti quanto deve esserlo stata la vera vita ateniese. […] I filosofi riflettevano al riguardo, gli oratori la esaltavano, i drammaturghi ne presentavano forze e debolezze a teatro”. In breve l’idea è che un’argomentazione convincente e persuasiva porta ad averne fiducia: quando viene considerato nella sua totalità, un discorso di questo tipo porta a un pieno assenso e alla sua accettazione in quanto affidabile. Si potrebbe dire perfino che quello che l’ebraico “emuna” è per l’azione corrisponde a ciò che il greco “pistis” è per le parole.

È quindi possibile che gli autori dei Vangeli abbiano visto nel riferimento di Gesù al granello di senape un invito a confidare pienamente tanto nelle azioni di Dio (emuna) quanto nelle sue parole (pistis), introducendo una classica nozione greca in un contesto ebraico.

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