Lì, nella sala d’attesa dove il tempo scorre tra sbuffi e lamentele, mi ritrovo a guardare una donna incinta con occhi nuovi. Non la guardo dall’alto verso il basso soffermandomi sul pancione, ma cerco di afferrare il suo sguardo. Mi piace sempre osservare i “fenomeni sociali” che si sviluppano intorno a situazioni precise, come quella di una gravidanza. Ci sono tanti commenti, tante occhiate, tanti sospiri, tanti sguardi tristi e sorrisi che non passano inosservati.
Quella ragazza sembrava non voler mai smettere di parlare, continuava a rovesciare fuori dalla bocca tante di quelle parole che credevo avesse superato la signora anziana che le stava di fianco. Di solito loro battono tutti in queste circostanze. Erano in molti a guardarla, chi stupito della grandezza della sua pancia rispetto alla magrezza del resto del corpo, chi trasognante pensava chissà a che cosa e chi solo a guardarla si misurava con le dita la vita o le coscia per controllare“che tutto fosse a posto”.
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Perché tutto quel bisogno di parlare, di sfogarsi? Forse era un modo per attrarre le altre persone o per distogliere l’attenzione di quelle stesse tutta concentrata sulle caviglie gonfie o sullo strabordare della sua pancia. Un modo per esorcizzare, per rilassarsi, per passare il tempo, una terapia per l’ansia. Chi può dirlo. Non sono stata ad ascoltare ciò che diceva, ho cercato solo di osservare. Osservare e ancora osservare. Non so perché io mi sia così fissata con l’osservazione; forse perché mio marito, sempre poliziescamente attento, mi ha un po’ contagiata. O forse perché al momento devo farlo anche per te, piccola anima – filtro questo mondo con i miei occhi per noi due.
C’è da considerare poi che le ore di questo tempo passate nelle sale di attesa o in fila a qualche sportello offrono una quantità di spunti e di dettagli non irrilevante. Quanto può essere prezioso questo tempo, però, lo sanno davvero in pochi. Rischiamo di perderci in lamentele perché abbiamo paura di stare con noi stessi. Abbiamo paura di sostare del tempo fermi e immobili. Abbiamo il terrore di perderci nei meandri dei nostri pensieri che ci sovrastano. Sembriamo portare a spasso le preoccupazioni, i moralismi, le chiacchiere, le bugie scordandoci nel frattempo di esistere, di essere.
Nella sala erano tante le frasi che suonavano un po’ come macigni incrollabili o come verità dogmatiche.“Brava che hai preso pochi chili, sennò poi non ci torni nei jeans”,“quanto stai bene con questa pancia, guarda com’è contenuta!”, oppure ancora “che pelle radiosa, gli ormoni fanno miracoli! Non hai più un brufolo!”. Potrebbero anche suonare come complimenti, atti di solidarietà femminile, modi di dire per passare la conversazione. Chi vede, sente questo. Ma chi osserva, non può percepire solo questo.
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Dentro ogni nostro jeans preferito, dietro quella camicetta che con il seno più piccolo ci stava molto meglio, dietro ogni consiglio inopportuno, ogni commento, c’è un corpo che si sente privato di identificazione. Perché spesso pensiamo di essere ciò che indossiamo, quello che pensiamo e quanto pesiamo. E allora se il peso sulla bilancia non è immutabile, se si trasforma perfino il volto che osserviamo ogni giorno nello specchio, se non abbiamo anche solo il minimo controllo sul nostro corpo, di dove siamo? La gravidanza è un periodo terapeutico per chi osserva sé stesso e gli altri. Un periodo che ci trasforma inevitabilmente fuori, ma può farlo anche dentro. “Saranno gli ormoni”, questa frase sembra il passe-partout per ogni porta, la riposta a ogni domanda, la soluzione a tutti i dubbi. Credo che invece ci voglia solo deresponsabilizzare, limitando quanto è in nostro potere per vivere con consapevolezza e grande integrità questo periodo speciale. E poi non siamo di certo le uniche privilegiate, sostituite “ormoni” con “lavoro stressante”,“problemi in famiglia”, “i chili di troppo”, “il fatto che io sia single”, “l’esame non superato”, “l’affitto troppo alto”, “lo stipendio non adeguato” ed eccoci qui di fronte allo specchio della nostra società: siamo tutti degli enti deresponsabilizzati incapaci di raggiungere una qualche solidità interiore. Ogni giorno beviamo a gran sorsi questa menzogna.