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Cosa posso dire a Dio quando tutto mi va male?

KOBIETA Z PARASOLEM

JW/Unsplash | CC0

Catholic Link - pubblicato il 01/10/19

di María Belén Andrada

Il video che condivido oggi ci dice molto dell’atteggiamento positivo che possiamo assumere di fronte a situazioni poco favorevoli. Mi ha ricordato la frase di San Francesco di Sales: “Nulla chiedere, nulla rifiutare”. Ringraziare per tutto, prendere tutto come un dono di un Padre che sa ciò che fa. E allora, come dicono i protagonisti dello spot, “se deve piovere piova”.

Credo che sia uno di quei video che servono per motivarsi quando si è un po’ giù. Le signore fanno un bel discorso, ci scuotono un po’, e siamo pronti ad affrontare le difficoltà che ci toccano. Ma se non diamo un senso soprannaturale a questo impulso, a questa motivazione, non credo che duri. Abbiamo bisogno di qualcosa di più di animi umani, perché a volte sono proprio questi che umanamente non riusciamo a ottenere o a mantenere.

Per questo vorrei parlare della parte meno romantica del ballare sotto la pioggia, delle cose che avrei voluto che mi dicessero su quello che implicava, per imparare a farlo meglio.

Ballare sotto la pioggia è anche una tragedia di cui dobbiamo approfittare

Non è facile avere un atteggiamento tale da dire “Se deve piovere piova”. Anche la scena finale, di grande gioia, a molte donne non sembrerà reale. Chi è contenta di vedere che piove quando esce dal parrucchiere? Ha appena speso dei soldi per farsi asciugare i capelli e in un attimo si ritrova a ballare sotto il diluvio. Almeno è stata questa la prima cosa che ho visto vedendo la pubblicità.

Può sembrare una sciocchezza, ma non è piacevole, come non ci sono “piccole tragedie”. Anche quelle che sembrano cose di poco conto sono opportunità per negare noi stessi, per esercitarci nella virtù dell’abbandono.

E meno male! Perché alla fine dei conti abbiamo più piccoli dispiaceri che possiamo trasformare in gioie soprannaturali e offerte a Dio che grandi contraddizioni, ed è l’esercizio nelle piccole cose che ci prepara per quando ci troviamo ad affrontare le grandi sfide.

E allora, quando si brucia il riso, quando all’esame ci viene chiesto proprio il capitolo che non siamo riusciti a studiare, quando l’autobus è in ritardo, quando il capo è particolarmente esigente…, ricordiamo che stiamo imparando a sorridere sotto la pioggia. Possiamo ripetere la giaculatoria “Omnia in bonum”, “Tutto per il bene”. Perché, come direbbe San Paolo, tutto ridonda nel bene di chi accetta la volontà di Dio, che è lo stesso che amare Lui.

I santi, anche quelli che hanno sofferto di più, hanno concordato nel fatto che accettando le pene come giunte per amore di Dio sono stati davvero felici. Ma attenzione! Una felicità con radici soprannaturali. Come diceva San Josemaría Escrivá, “la gioia cristiana non è fisiologica: la sua base è al di sopra della malattia e della contraddizione. La gioia non è un tripudio di campane o di balli popolari. La vera gioia è qualcosa di più intimo: qualcosa che ci fa sentire sereni, traboccanti di allegria, anche se a volte il volto resta severo”.

Ballare sotto la pioggia può essere facile… una volta

Credevo che abbandonarsi nelle mani di Dio, accettare le circostanze come vengono, fosse difficile, ma anche se lo è, è sempre la parte facile. Difficile è il giorno dopo. Il giorno dopo aver ballato sotto la pioggia.

È difficile quando ci rendiamo conto che bisogna rinnovare quell’accettazione. Immaginiamo la scena successiva: uscire dal parrucchiere, vedere che piove a armarsi del coraggio per dire “Se deve piovere piova”, e ballare sotto la pioggia. Poi passa il tempo, torniamo un altro giorno dal parrucchiere e succede lo stesso. Non è più così simpatico, ma possiamo ancora ripetere “Se deve piovere piova” e ci bagniamo, ma magari senza ballare. Questa volta affrettando il passo per vedere se troviamo qualche punto in cui ripararci.

Pensiamo ora alla volta successiva in cui andiamo dal parrucchiere. Stessa situazione, ma stavolta diciamo: “È forse uno scherzo?” Non è affatto simpatico. E se accadesse nuovamente lo stesso? “Basta, Signore! Potrò mai andare dal parrucchiere in pace?”

Sembra sciocco, ma è quello che può accadere con l’abbandono. Se ci viene una malattia, dopo la diagnosi passa magari un po’ di tempo prima di dire al Signore: “Va bene, sia quello che Tu vuoi”. Quando lo diciamo facciamo un passo enorme, e ce ne rendiamo conto.

Non tarderemo, però, a renderci conto che l’accettazione non è un analgesico, e che il giorno dopo, sperimentando i sintomi poco simpatici della malattia, dovremo tornare ad alzare gli occhi e a dire: “Va bene, sia quello che Tu vuoi”. E così un giorno dopo l’altro, una volta perdendo la pazienza e un’altra essendo più tranquilli.

Ci si può riuscire?

Sì! Questo esercizio tira fuori ottimi muscoli soprannaturali. Ma come riuscirci? Forse non esiste una formula unica. Credo però che l’aspetto fondamentale sia la preghiera, anche quella in cui non si dice nulla.

La preghiera che è “solo” (tra parentesi, perché è molto!) avere la presenza di Dio durante la giornata. Quella che si fa in qualche banco della chiesa o in qualche cappella, guardando il tabernacolo, magari anche un po’ distratti. Sapere che non siamo soli, che possiamo tendere la mano a Dio, come invitava a fare Padre Pio avendo la sicurezza che Egli la afferra. L’apostolo Giacomo concorda: “Chi tra voi è nel dolore preghi”.

Solo parlando con Lui possiamo vedere quanto ha bisogno di noi come corredentori. Solo parlando con Lui ci innamoreremo di Lui. Ed è questo il segreto che ho scoperto nella vita dei santi: erano capaci di soffrire molto, di dare molto, perché amavano ancor di più. E allora tutto sembrava poco, perché volevano dare tutto a chi amavano.

E grazie a quell’amore sapevano di essere accompagnati, anche quando Dio chiedeva a molti di loro di sperimentare il vuoto, la solitudine, l’apparente abbandono divino. Sapevano di essere accompagnati, anche quando non lo sentivano o non lo vedevano, perché credevano in quello che Egli aveva promesso.

“Per Gesù sono capace di soffrire ancor di più”, diceva nel campo di concentramento San Massimiliano Kolbe. Per arrivare a dire questo, però, Gesù doveva essere innanzitutto la persona fondamentale nella sua vita. E non è una cosa che si raggiunge da soli. Non dipende da quanta forza abbiamo o da quanto crediamo di essere virtuosi.

L’amore con cui amiamo Dio, quello che ci permette di dire “Sì” quando il corpo prova repulsione di fronte a ciò che vede davanti a sé, è l’amore di Dio stesso, l’amore che Egli mette nei nostri cuori. Per questo Santa Caterina poteva dire “Aumenta le mie sofferenze, ma aumenta il mio amore”. In altri termini, avrebbe potuto dire: “Il Tuo amore”.

Non è il “nostro” amore quello che dovrebbe aumentare?

Sembra confuso, ma ho detto bene: “il Tuo” amore, “il Suo” amore. Perché lo ha detto, senza di Lui non possiamo far nulla. Non ha detto “Senza di me potrete fare meno”, o “Senza di me potrete fare poco”. Ha detto “Senza di me non potete far nulla”. È il suo amore nella nostra anima, è lo Spirito Santo nella nostra anima, che riporta a Dio. Che permette che possiamo dire “Sì” se vogliamo dirlo. Che ci dà la forza (la sua forza) per corrispondere se vogliamo corrispondere.

E allora tutto dipende solo dal fatto di volerlo, sarà Lui a fare il resto. Non abbiamo bisogno di avere forza, di avere pazienza. Abbiamo solo bisogno di volere ciò che Egli vuole.

Qui l’articolo originale pubblicato su Catholic Link

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