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Liliana Segre e l’amore del marito, che le disse: “vado avanti prima io e pregherò per te”

LILIANA SEGRE

Rai.tv

Paola Belletti - pubblicato il 12/09/19

Una storia d'amore vero, quella tra Liliana Segre e il marito Alfredo Belli Paci. Lui la accoglie e la custodisce, la salva dal ricordo degli orrori che ha vissuto mettendola sempre davanti a sè, fin oltre la morte. Lei non crede? Poco importa: ci penserà lui a pregare per lei dal Cielo.

Mare, litorale di Pesaro, primo giorno di spiaggia. Siamo nel 1948, Liliana ha diciotto anni e un ragazzo la vede, si avvicina.

Quella ragazza come le altre, diversa da tutte, lì in costume, per quasi due anni è stata detenuta in un campo di concentramento, prima ad Auschwitz poi in quello di Malchow, dove fu liberata dall’Armata Rossa il primo maggio del 1945.

Ora vive con i nonni materni; quelli paterni e lo stesso amatissimo papà sono stati uccisi quasi subito, appena deportati.

TARGA MEMORIA SEGRE
Wikipedia

Targa in memoria di Alberto Segre, nei pressi della sua abitazione.

Liliana desidera e insieme dispera di una vita normale. Non è normale, la sua perché segnata in maniera indelebile dalla violenza, dal disprezzo, dalla paura. Incancellabili come il tatuaggio che le hanno fatto sul suo avambraccio sinistro di adolescente: numero 75190.

Ed è quella la prima cosa che il suo futuro marito nota e della quale parla con lei.

Io so che cos’è quel numero, tu devi avere molto sofferto.

Che paradosso, la cosa che più le ricorda l’orrore che ha vissuto e che le ha deformato tutta l’anima e i sensi (si spaventa per tutto, bastava un fuoco acceso, un abbaiare di cane, l’accento tedesco di un turista) è il davanzale dal quale affacciandosi incontra di nuovo uno sguardo d’amore. Che la salverà, dice lei stessa.

SEGRE BELLI PACI
Youtube
Liliana Segre e Alfredo Belli Paci, in una foto nella casa di famiglia

Vedendo la foto di Liliana e del marito appena fidanzati ho pensato che fossero belli, eleganti e fieri. E che lui assomigliasse sfacciatamente al papà di lei. Viso lungo, naso affilato, capelli mossi. Forse è poco più che un’impressione. Di sicuro i due uomini si assomigliano per la missione d’amore e custodia che hanno compiuto per questa donna prima bambina.

LILIANA ALBERTO SEGRE
Wikipedia - Public Domain

Liliana Serge

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Liliana racconta, ai ragazzi nelle scuole e sui giornali, che l’ha salvata l’amore, che ha resistito a tutto, alle torture, la fame, il gelo, il lavoro, la marcia della morte, a tutto (era una dei 25 bambini italiani tornati vivi dei 776 deportati) perché era stata amata.

Sono stata così tanto amata, dai nonni, da mio papà, un santo perdente. Un amore che mi serve anche adesso, che è come una pelle fantastica che ripara da tutti i mali del mondo. E ho ritrovato l’amore con mio marito» (Corriere della Sera, 20 gennaio 2018).

Ed è stato così anche dopo, con suo marito. Lo racconta in questa intervista per TV2000

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Senatrice a vita da gennaio del 2018 è diventata testimone della Shoah e donna di pace, come si definisce lei stessa, solo dopo che l’amore l’aveva ricondotta, con dolcezza e fedeltà, alla bellezza di una vita normale. Quello che sarebbe diventato suo marito era lì, davanti a lei, e non aveva paura. Non ha avuto paura dopo, davanti alla sua storia, l’ha sempre protetta.

Si chiama Alfredo Belli Paci,

(…) laureato in Giurisprudenza, era allora un praticante in uno studio legale di Bologna. «Ma nel 1943 era stato uno dei seicentomila “no”, uno dei soldati italiani catturati che non vollero aderire alla Repubblica sociale e furono rinchiusi nei campi di prigionia» spiega Liliana. «Fu spostato in sette diversi lager. Per questo li aveva visti, quelli come me» aggiunge con pudore, senza mai nominare la parola «deportati». Il miracolo semplice di Alfredo è avere fatto di lei una donna normale. (Corriere, cronache)

Una cosa che colpisce e commuove e ci riconsegna un’immagine di uomo intera e forte, virile come adesso nemmeno si può provare a tratteggiare, è che Alfredo ingoia il proprio dolore, si mette da parte quasi morendo a sé stesso e si offre a lei, per custodirla e amarla.

 «Non si è spaventato e non è scappato di fronte alla mia storia – dice Liliana -. Per me ha messo da parte i suoi stessi traumi di prigioniero. Sono stata sempre e solo io, in famiglia, la persona da proteggere». (Ibidem)

Davanti ai figli lo dirà spesso: la mamma è quella che ha sofferto di più, non pensate a me.

“Non parliamo di me perché di fronte a quel che ha avuto la mamma non c’è paragone”.

Le si accosta in “un modo così dolce”, proprio a lei “che era come un animale ferito”. Le disse “perché anch’io sono stato in sette campi diversi”, per poi non parlarne più, solo per farle capire che la comprendeva davvero.

Quando a sessant’anni la Segre deciderà di raccontare la sua esperienza di ebrea deportata ne parlerà con lui. Da allora ha parlato in centinaia di scuole a migliaia di ragazzi.

Va bene, se è questo quello che vuoi tu sai che poi (e qui inizia a scandire le parole, rallentando il ritmo) torni a casa da me. E in effetti lui era lì a dirmi “amore mio”, questo è stato molto importante.

Lui è un uomo di fede, vi è stato condotto soprattutto dalla madre. La sua fede e devozione si intensificano ancora di più alla morte della mamma; Liliana non crede, invece, ma anche a questo penserà lui. Se non è un vero sposo costui…

Le dirà spesso negli ultimi tempi, racconta ora da vedova (è morto dieci anni fa):

tu non credi, io sì. Io sono più vecchio di te, vado avanti prima di te e pregherò per te.

Questo farsi carico di tutte le ferite dell’altro e portarle al Solo che le può guarire, è vero amore cristiano e nella speciale via del matrimonio. Come marito l’uomo deve cristificarsi sempre più per la sua sposa. Come Cristo lo è per la Chiesa è disposto a morire per lei. Un amore fortissimo che si riconosce impotente di per sé, ma capace di tutto per mezzo di Chi ha patito per salvarci. Un marito certo della fede forse solo differita della moglie, disposto a spendersi per lei fino in fondo, fin oltre la vita pur di sottrarla a tutti gli inferni possibili.

Che meraviglia.

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