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ONU sentenza storica: una vittima di stupro etnico in Bosnia dovrà essere risarcita

BOSNIA, WAR, WOMEN

Northfoto | Shutterstock

Annalisa Teggi - pubblicato il 06/09/19

Una sentenza che fa da apripista per riconoscere i risarcimenti alle donne vittime degli stupri di massa, di cui il caso bosniaco è una memoria ancora tragica nella recente storia europea. Molti ancora i paesi in cui i conflitti usano l'arma della violenza sessuale che, colpendo la donna, condanna a morte il seme di feconda speranza di ogni comunità umana.

Chi ha un po’ di anni sulle spalle, ricorderà l’innesco di guerre a grappolo che seguirono il crollo del regime comunista nella ex-Jugoslavia. Nell’arco di una decina d’anni, tra il 1991 e 2001, i conflitti tra le molte etnie in fiero contrasto tra loro esplosero con ferocia indicibile. Da quella polveriera giungevano a noi, vicinissimi e separati dalla penisola slava dal solo mar Adriatico, racconti di crudeltà disumane portando tragicamente alla notorietà espressioni come «pulizia etnica», «stupri di massa». Tra il marzo 1992 e il dicembre 1995 toccò alla Bosnia ed Erzegovina pagare un tributo di vite e distruzione enorme: in quel caso, il violento conflitto vide il coinvolgimento dei tre principali gruppi nazionali, serbi, croati e bosgnacchi. I morti accertati furono 100 mila.


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1 provvedimento, 20 mila casi

Il bombardamento di Sarajevo e l’assedio di Monstar restano tra gli episodi di maggior impatto mediatico, ma molte verità su fatti disumani che accaddero allora devono ancora essere pronunciate. Un piccolo, ma grande segnale, arriva da un provvimento dell’ONU annunciato in questi giorni, a ben più di vent’anni dai fatti:

L’Onu ha ordinato alla Bosnia di compensare una donna che fu rapita e violentata ripetutamente da un soldato durante la guerra negli anni Novanta. Un caso che farà da apripista ad un piano di compensazione attualmente in via di elaborazione su indicazione della Commissione contro la tortura delle Nazioni Unite. (da Il Messaggero)

Ulteriori dettagli in merito si apprendono dal giornale dell’ONU:

I fatti che sono al centro delle valutazioni riguardano un soldato serbo che nel 1993 ha abusato a Sarajevo di una ragazza la cui identità resta protetta. La sua testimonianza è stata così precisa e puntuale, riportando particolari e una sequenza di fatti da non lasciare ombra di dubbi. La compensazione per i danni morali e materiali subiti ammonterebbe a 15 mila euro anche se il soldato bosniaco dice di non poterli pagare perchè nullatenente. I funzionari dell’Onu hanno stabilito che occorre arrivare ad uno schema di risarcimenti più ampio, applicabile ad altre vittime, in base alla convenzione contro la tortura. (da OnuItalia)

Si stima che circa 20 mila donne siano state violentate dai soldati serbi, prese di mira quelle di fede musulmana. Il diritto internazionale non prevede ancora il reato specifico di stupro sistematico, motivo per cui il provvedimento appena pronunciato dall’ONU si appoggia al reato di tortura. Si affianca a ciò anche la risoluzione 1820 del 2008, sempre delle Nazioni Unite, in cui si condanna l’uso della violenza sessuale nelle zone teatro di guerra (si legge, tra l’altro: «i civili sono la parte della popolazione maggiormente esposta alle conseguenze deleterie dei conflitti armati, che le donne e le ragazze sono particolarmente esposte all’uso della violenza sessuale, adoperata anche come tattica di guerra per umiliare, dominare, impaurire, disperdere e/o rimuovere forzatamente gli appartenenti a comunità e gruppi etnici»).


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Certi resoconti agghiaccianti, in parte finiti in un cassetto dimenticato della nostra storia europea recente, ci proiettano nel pozzo abominevole del male:

Venivamo ammazzate, gettate nelle fosse comuni. Venivamo stuprate, arrestate, incarcerate nelle prigioni e nei campi, torturate, usate da scudo vivente. Venivamo obbligate al lavoro forzato, scacciate a forza dalle nostre città e villaggi, derubate dei nostri averi e in mille altri modi umiliate brutalmente. Non di rado le bambine tra i 12-14 anni venivano forzatamente separate dalle loro famiglie e condotte in luoghi speciali dove venivano sottoposte, da parte dell’aggressore, a orribili sevizie, stupri ed altre forme di tortura, compresa la mutilazione fisica e l’assassinio. Suona quasi irreale che ciò sia accaduto nel 20° secolo, in Europa. (da Balcani Caucaso)
SARAJEVO, WAR, MUN
Northfoto | Shutterstock

Lo stupro come arma

Nel 2016 il supplemento mensile donne chiesa mondo dell’Osservatore romano ha dedicato un numero speciale agli stupri di guerra, nel cui editoriale ci si imbatte in una verità che è pugno molto duro allo stomaco: lo stupro è un’arma di guerra che si ipoteca il futuro. Ci blandiscono mostrandoci armi sempre più intelligenti, illudendoci che possano esistere guerre quasi pacifiche; ci sono armi dalla violenza sterminatrice devastante; ma la mente dell’uomo – la cui coscienza è teatro della lotta tra bene e male – può aggrapparsi così pervicacemente al seme maligno da escogitare armi che hanno un impatto non solo durante il conflitto aperto, ma anche nel futuro di chi è stato colpito. La violenza carnale ha questo scopo: dissacra il corpo sul momento, resta come trauma emotivo, fisico e psicologico per sempre. Nel caso della Bosnia c’era anche una motivazione etnica: far partorire figli di sangue serbo alle donne violentate.

La violenza sessuale durante guerre e conflitti non è una novità. Dai tempi dell’antica Grecia ad oggi, le donne sono state vittime: imprigionate, torturate, violentate, usate come schiave. Per lungo tempo la violenza sessuale sulle donne fu vista e anche tollerata come uno degli inevitabili mali della guerra, come rubare o distruggere. In Bosnia, però, durante la guerra, i nazionalisti serbi hanno perfezionato questo “crimine spontaneo”, hanno trasformato lo stupro in una precisa strategia, pianificata e coordinata. Per la prima volta nella storia della guerra, in Bosnia Erzegovina gli stupri sono diventati parte di una strategia militare. La giornalista croata Seada Vranić, autrice del libro “Breaking the Wall of Silence”, fu tra le prime a capire che gli stupri di massa non erano casi sporadici, ma che invece si trattava di una politica precisa. Nel suo libro ha raccolto 300 testimonianze sugli stupri compiuti contro le donne in Bosnia Erzegovina. (da Balcani Caucaso)

Nel sopracitato approfondimento dell’Osservatore romano si incrocia una dichiazione di Joyce Anelay (segretario di Stato per il Commonwealth e le Nazioni Unite nel ministero degli Esteri britannico) che orienta lo sguardo verso una riflessione di più ampio orizzonte: «Dall’analisi delle guerre nel mondo negli ultimi trent’anni, c’è un dato che emerge con chiarezza: è più pericoloso essere una donna che un soldato».


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Il provvedimento dell’ONU appena varato è un segno di speranza, possa il caso bosniaco essere una breccia in questo mondo sotterraneo di vittime il più delle volte stigmatizzate a vita per colpe non loro, segnate da una vergogna che le rende delle reiette. Dalla Bosnia il quadro delle atrocità commesse a danno di madri, ragazze, addirittura bambine deve drammaticamente spalancarsi. Sono molte le zone del mondo in cui l’arma dello strupro di massa ha fatto e sta facendo stragi di grandi proporzioni; solo alcuni esempi: più di 60.000 donne sono state stuprate durante la guerra civile in Sierra Leone (1991-2002), più di 40.000 in Liberia (1989-2003), almeno 200.000 nella Repubblica Democratica del Congo.

Colpire le donne è una delle armi più violente che la logica disumana della guerra produce, ma non per quella vaga bandiera ideologica che va sotto il nome di violenza di genere. Colpire la donna non significa solo colpire la parte femminile della popolazione, ma il cuore stesso di ogni comunità umana. Alla donna, per costituzione strutturale sintetizzerei, è affidato il compito di essere un messaggio vivo di speranza feconda, declinata in una concretezza di accoglienza. Lo espresse bene Benedetto XVI, allora ancora cardinal Ratzinger, in una lettera ai vescovi del 2004, un testo luminoso in mezzo alla tanta superficialità ideologica che ci circonda:

Nonostante il fatto che un certo discorso femminista rivendichi le esigenze ‘per se stessa’, la donna conserva l’intuizione profonda che il meglio della sua vita è fatto di attività orientate al risveglio dell’altro, alla sua crescita, alla sua protezione. Questa intuizione è collegata alla sua capacità fisica di dare la vita. Vissuta o potenziale, tale capacità è una realtà che struttura la personalità femminile in profondità. Le consente di acquisire molto presto maturità, senso della gravità della vita e delle responsabilità che essa implica. Sviluppa in lei il senso ed il rispetto del concreto, che si oppone ad astrazioni spesso letali per l’esistenza degli individui e della società. E’ essa, infine, che, anche nelle situazioni più disperate, e la storia passata e presente ne è testimone, possiede una capacità unica di resistere nelle avversità, di rendere la vita ancora possibile pur in situazioni estreme, di conservare un senso tenace del futuro e, da ultimo, di ricordare con le lacrime il prezzo di ogni vita umana.
KOBIETA W ŚWIETLE
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