Omari Mc Queen ha imparato a cucinare da piccolissimo a causa delle emicranie paralizzanti di sua madre Leah che le impedivano di svolgere le mansioni domestiche. Ora ha un suo ristorante in cui lavorano anche i familiari.Questa storia comincia con un bimbo di 7 anni in cucina. Di solito i figli si divertono un sacco a pastrocchiare con acqua, farina, zucchero; e io sono tra quelle mamme più che entusiaste di coinvolgerli nella preparazione dei pasti, anche se implica il doppio del tempo di pulizia dei fornelli. Omari Mc Queen forse aveva già una predisposizione per cibi e cotture, ma non è solo per la sua passione che è diventato “lo chef più giovane al mondo”. Questa è l’etichetta che il mondo dell’informazione ha coniato per lui quando il suo successo è diventato virale.
La famiglia McQueen vive in Inghilterra, a Croydon, e mamma Leah soffre di emicranie paralizzanti, un dolore gravemente invalidante. Di necessità, il papà Jermaine ha insegnato ai figli a essere autonomi per i pasti, lavorando lui fuori casa e con l’incognita che la malattia materna potesse renderla non in grado di svolgere le mansioni domestiche. Perciò a 7 anni Omari sapeva cucinare in autonomia, e la cosa gli è diventata così gradita da fargli aprire un canale Youtube per condividere le sue ricette.
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Oggi Omari ha 11 anni ed è lo chef a capo di un progetto chiamato Dipalicious: in inglese dip è la salsa, quindi il suo brand è, per così dire, delisalzioso o salsosissimo. Si è presentato a un colloquio dicendo che prima o poi sarebbe riuscito ad aprire un ristorante nella sua città e la sua esuberanza è stata così convincente da fargli conquistare un contratto per aprire un Temporary Restaurant. Questa formula è vincente negli ultimi anni, si tratta di ristoranti ad apertura temporanea, magari ubicati in contesti suggestivi (ne ho provato uno in un castello medievale).
«I like being the boss» ha dichiarato Omari in un’intervista: sì, gli piace essere il capo perché ora ha un piccolo staff alle sue dipendenze, di cui fa parte anche la mamma. La cucina che propone Dipalicious è caraibica vegana, tanto curry e tanta frutta. Indubbiamente saranno sapori dal gusto deciso, ma – da romagnola non riesco a trattenermi – vorrei sperare che la scelta vegana non sia solo un inchino a certi trend contemporanei. La ristorazione è diventata ormai un business mediatico, gli chef sono vere star da bestseller e da programmi in prima serata. Il più delle volte li vediamo, vestiti elegantissimi e con sguardi ammalianti, lanciarsi in seriose paternali su quanto fosse saggia la loro nonna contadina. Aggrotto un po’ le sopracciglia di fronte ai, per carità, simpaticissimi Cannavacciuolo, Borghese & Co.
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Il punto forte di Omari è l’aver cominciato a cucinare per la ragione più bella e profonda di tutte: condividere il nutrimento coi propri cari. Il bisogno di cibo è una memoria quotidiana della nostra creaturalità, la tavola è il luogo del gusto perché è bello mangiare con qualcuno.
Chef, stelle, like
Non nascondo che un po’ mi lascia perplessa tutta la notorietà che Omari si è guadagnato, sui social network e in TV. Vedere un ragazzino di 11 anni non solo spontaneo, ma più che altro esperto di quella disinvoltura ammiccante che cattura like mi lascia un retrogusto amaro. La luminosità di certe storie umane ha questo lato d’ombra, la rete infida della visibilità. Basta poco perché chi ha una vicenda personale significativa venga trasformato in merce mediatica ed è tanto più riprovevole quando ne sono protagonisti giovanissimi, la cui inesperienza e freschezza li rende più malleabili ma meno capaci di giudizio critico.
Guardo le ricette che Omari propone da Youtuber esperto. Forse qualcuna la proverò. Ma che ne sarà di Omari? – non riesco a non chiedermelo. La sua esperienza personale è stata davvero toccata da qualcosa che può dare frutto: tutto è nato dal bisogno di aiutare, di essere il braccio destro di una madre in difficoltà. La ricetta giusta – metafora scontata – è questa, l’ingrediente necessario non è vegano o esotico, bensì quell’intraprendenza iniziale, spontanea e accompagnata dall’affetto.
Non abbiamo bisogno di un giovane chef stellato in più e neppure dell’ennesimo enfant prodige di Youtube. E l’alternativa non è neppure la nicchia chic: quello snobismo da ristorantino con pochi tavoli e nomi chilometrici per ogni portata. Il punto è che Omari ha 11 anni, un discreto successo mediatico, una indiscutibile bravura e un destino tutto ancora da scrivere. L’ultimo elemento – quella incensurabile domanda di senso e felicità – busserà alla porta sempre più forte, dopo le interviste e dopo il montaggio dell’ultimo video. Qualcuno ha messo sulla strada di questo bambino un indizio giusto, un suggerimento benedetto di questi tempi: siamo fragili, persino le mamme che dovrebbero essere supereroine si ammalano e non riescono a preparare il pranzo.
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Da questa esperienza può nascere un progetto culinario davvero bello da proporre a un pubblico ormai abituato a trattare il cibo o come spazzatura da ingurgitare alla svelta o come bene di lusso da idolatrare. Non so immaginare una forma precisa, ma mi auguro che le energie positive di Omari e la collaborazione della sua famiglia scelgano di spendersi in questa direzione, per non essere fagocitate dalla grande illusione del mito dell’influencer.