di Paolo Sottopietra
Durante un incontro recente con i genitori dei nostri seminaristi, una delle mamme presenti mi ha detto: “Ho l’impressione che i nostri figli vadano incontro a un martirio. La persecuzione ideologica e mediatica è già una realtà in tanti luoghi in cui la Fraternità san Carlo è presente. Dovranno lavorare in una società che è contro di loro. Come li preparate ad affrontare queste condizioni?”. È una domanda che ci accompagna costantemente.
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Sono convinto che la prima e fondamentale attenzione che dobbiamo avere nell’opera educativa che svolgiamo sia quella di radicare le persone in un rapporto vivo con Cristo. Un prete è innanzitutto un uomo, secondo la provocatoria definizione di don Giussani. Ma un uomo diventa compiutamente tale nell’esperienza di un rapporto personale con Dio, che metta tutta la sua vita sotto la luce della vocazione. Il senso della vita è Dio che mi chiama.
Lo sviluppo delle capacità e delle doti di ciascuno, l’acquisizione di competenze di ogni tipo, anche teologiche, l’accrescimento della cultura personale sono aspetti preziosi di un itinerario umanizzante che desideriamo valorizzare in sommo grado. È bello infatti studiare perché fa crescere. Ma ciò che siamo chiamati a portare nel mondo è qualcosa di ben più radicale.
Qualche anno fa, Benedetto XVI ci ha invitati a proporre ai seminaristi un’esperienza di vita che riattivi in loro le dimensioni più proprie dell’essere uomini, quelle che i cristiani delle prime generazioni chiamavano “sensi spirituali”. Realizzare la propria umanità significa aprirsi all’esperienza viva della fede. Diventare uomini significa conoscere e amare un Dio che ha il volto e il nome di un uomo, che è presente tra noi, che ci ha amati per primo. Un Dio che ora ci manda ad altri uomini con il compito di dire loro che tutto questo è realtà.