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Che spettacolo Carson e Joseph: abbiamo le stesse braccia, abbiamo lo stesso cuore (FOTO)

GREETING

Instagram beckyburleigh

Paola Belletti - pubblicato il 25/07/19

La calciatrice della Florida e il suo piccolo tifoso di 22 mesi hanno in comune la stessa forza e la stessa gioia di vivere.

Attenti a quei due. Lei è Carson Pickett, calciatrice per gli Orlando Pride che sta in difesa in campo e tutta lanciata in avanti all’attacco della vita; e lui è Joseph Tidd, un bel bambino di 22 mesi.

(Eccoli, la prima volta che si sono conosciuti e sono stai insieme una buona mezz’ora).

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E’ già un tifoso, ci assicurano. In questa immagine li vediamo sorridersi e salutarsi con una certa complicità; forse perché è la seconda volta che si vedono e si riconoscono. Hanno “le stesse braccia”( ad entrambi manca il braccio sinistro, sotto il gomito nulla), disse lei quel 16 aprile; e, ancor di più, lo stesso cuore.


GIORGIA GRECO

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Questo scatto è come un approdo di fortuna nell’Isola dell’Allegria e della Forza vitale. Becky Burleigh, coach delle Florida Gators, lo ha catturato e condiviso sui social il 20 luglio, accompagnandolo con una considerazione classica ma vera:

We need more of this in our world. Share to spread joy. Thank you Carson Pickett !‬ Abbiamo bisogno di più cose come questa nel nostro mondo. Condividi per diffondere la gioia. Grazie Carson Pickett! [protected-iframe id=”7b028765d36d541af28e0f59a4c35ee4-95521288-119775105″ info=”https://www.facebook.com/plugins/post.php?href=https%3A%2F%2Fwww.facebook.com%2Fbecky.burleigh%2Fposts%2F10115636116009991&width=500″ width=”500″ height=”614″ frameborder=”0″ style=”border:none;overflow:hidden” scrolling=”no”]

Facciamo staffetta volentieri anche noi, perché questi sono “testimoni” che bisogna passare rapidamente di mano in mano.

Mi fa riflettere vedere come simili squarci di umanità colpita, e per questo ancora più forte e grata alla vita, suscitino emozioni positive un po’ in tutti. Non vi pare che si senta come un sospiro di sollievo generale? Certo, non sappiamo quanto durino gli effetti né se da emotivi si trasformino in seguito in un vero giudizio. Ma resta il fatto che incontrano il cuore di tanti. Forse il tempo di una reaction su Facebook o un like su Instagram (fino a che ancora si può); eppure ci raccontano qualcosa di noi tutti, creature umane.

Ed è il fatto, io credo, che abbiamo voglia di vita, di coraggio, di vicinanza fraterna; abbiamo il desiderio spesso taciuto che i nostri fratelli ce la facciano, che tutti ce la facciamo. Che ognuno di noi possa sbattere con fierezza la propria “pinna fortunata”, o levarla in alto, davanti agli altri; ebbene sì, l’alto riferimento culturale è il film d’animazione della Disney “Alla ricerca di Nemo”; ma aveva ragione lui, quel difetto è diventato la sua forza; quella fessura è diventata la sua possibilità di fuga dalla paura, dalla protezione soffocante del papà, dalla memoria della morte che aveva spezzato la sua famiglia.

Ci sono altri riferimenti altrettanto evocativi e per nulla immaginari che mi vengono in mente ammirando questi due improbabili, perfetti amici, Carson e Joseph.

Entrambi hanno lottato, nello loro notte scura, con l’angelo del Signore che li ha lasciati segnati nel corpo e potenti nello spirito. Lei è senza più un braccio dall’età di 13 anni a causa dell’attacco di uno squalo; lui, ora, un felicissimo marito di un’avvenente giovane donna e padre di quattro figli sposato, è un uomo privo di tutti e quattro gli arti per difetto congenito.




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Lei è Bettany Hamilton, surfista statunitense, e ha rischiato di morire dissanguata in seguito all’incidente subito quando era ancora una ragazzina. Non solo è sopravvissuta, ma a distanza di 7 mesi è tornata a surfare e compete ancora come surfista professionista contro le migliori atlete del mondo. Non è stato solo il riscatto personale di una sportiva, ma una risalita dell’anima, la scoperta ancora più profonda del valore della vita e del dovere di raggiungere più fratelli possibile con la notizia che siamo amati, che siamo preziosi, che Dio non ci abbandona. Si può perdere tutto, non solo un braccio, ma Dio e il suo amore per noi no. Nulla lo minaccia davvero, se non la nostra stessa libertà.

Lui è Nick Vujicic e ha provato a suicidarsi all’età di 8 anni per l’angoscia e il peso della sua gravissima disabilità: è nato senza gambe e senza braccia. Ma, pensando al dolore che avrebbe inflitto ai suoi genitori, non portò a termine quel tragico proposito e, come fanno di solito le anime capaci di cose grandi, non ha semplicemente accettato di convivere con le sue menomazioni, bensì ha cominciato a ringraziare Dio di averlo voluto e voluto così. Da anni tiene discorsi e conferenze in tutto il mondo e ha raggiunto più di due milioni di persone. Che cos’avrà mai da dire di tanto importante, proprio lui?




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Che è figlio di Dio, non un ragazzo senza braccia e senza gambe. Figlio del Re dei re e ambasciatore per suo mandato. Forse la determinazione con la quale il nostro mondo si prefigge di eliminare le persone menomate e palesemente imperfette è proprio perché a loro, più che ad altri, è affidata la missione di ricordarci che siamo figli di Dio, e il pensiero dominante non ama tanto questi promemoria. Ci ricordano che siamo amati così, voluti per sempre, destinati ad una gioia che nessuno è in grado di rappresentare per quanto sia grande e superiore alla nostra capacità cardiaca. Questa nostra vita terrena, allora, non può essere che serva soprattutto come una sorta di “preparazione atletica” per poter sostenere i ritmi formidabili ai quali dovremo far andare il nostro cuore? Per la grande maratona di gioia alla quale siamo stati iscritti?

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