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Nata sotto i proiettili in Sud Sudan, ora è una poetessa che canta l’esilio

BIGOA CHUOL, REFUGEE, SUD SUDAN

UNHCR | Youtube

Annalisa Teggi - pubblicato il 22/07/19

I suoi parenti fuggirono dalla guerra civile nascondendola neonata in un secchio, oggi Bigoa Chuol vive in Australia e attraverso la poesia grida la violenza subita dai bambini e il bisogno di una casa per chi ha radici spezzate.

Esilio non è una parola che suona dura e atroce come altre che parlano di violenza in modo inequivocabilmente più chiaro, ce lo ripeteva sempre il professore universitario che mi ha trasmesso l’amore incondizionato per Dante. Essere strappati alla casa, perdere l’identità e diventare nessuno è un’esperienza di cui facciamo fatica a capire la tragicità.


HANNAH, TARAWALLY, COFFFEE

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Facciamo altrettanta fatica a capire la scelta di alcuni di lenire e curare le ferite con la poesia. Solo una posa estetica? Tutt’altro. E qui torna alla carica Dante, ma non come sommo poeta, bensì come uomo nostro consanguineo: l’esilio innescò la scrittura di quel capolavoro che è la Divina Commedia e una delle tante fatiche che il poeta si tira dietro dall’Inferno al Paradiso è riuscire a far rimare “terra” con “guerra”. Quando ogni specie possibile di guerra (violenza, terremoto, malattia, disperazione) rade al suolo la casa, a cosa si aggrappa un uomo?

Sei secoli dopo ser Alighieri, la storia si ripete (si sarà ripetuta mille altre volte in mille storie nascoste). Sarebbe bello portare a scuola le storie come quella di Bigoa Chuol, diffusa recentemente dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati e riportata da alcuni giornali: una ragazza di 28 anni fuggita dalla guerra in Sud Sudan che ora tenta attraverso la poesia di dare un senso alla sua storia e ricostruire quella casa che non ha mai avuto.

Questi alcuni versi che c’introducono nell’inferno di Bigoa:

Casa nostra è il sospetto

Casa sono le facce basse su strade di cemento

Può avere un tempio una terra che non si rassegna?
CHRISTIAN PERSECUTION
John Wollwerth - Shutterstock

Una neonata in un secchio

Bigoa Chuol vive a Melbourne in Australia, ma la sua terra d’origine è il Sud Sudan. Quando nacque, nel 1991, era ancora solo Sudan ed era un paese nel pieno di una guerra civile che finì nel 2011, ma non portò la pace. Lei sa di quella sua primissima infanzia solo ciò che le raccontano i parenti: una vita in perenne fuga, tra Etiopia e Kenya. Una sorte comune a tantissimi altri:

Con oltre 4 milioni di persone costrette a fuggire dalle proprie case, il Sud Sudan è il paese africano interessato dagli esodi più massicci. Più di 2,3 milioni di persone sono fuggite in sei altri paesi per mettersi al sicuro, mentre gli sfollati interni sono 1,8 milioni. Il 63 % circa dei rifugiati sud sudanesi ha meno di 18 anni, il che equivale a 1,4 milioni di minori che devono fare i conti con le difficoltà provocate dallo sradicamento. (da UNHCR)


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Le statistiche impressionano, ma restano astratte. Difficile dare un nome alla propria situazione quando grandi stravolgimenti personali accadono da neonati; Bigoa è cresciuta senza avere una città, una casa di appartenenza. E’ nata in fuga, sotto il fischio dei proiettili.

“Sono nata ad Addis Abeba, e siamo arrivati a piedi in Kenya quando ero ancora molto piccola,” racconta Bigoa, oggi ventottenne. Ero con i miei zii e i miei cugini, e dovevo essere ancora così piccola che mi portavano sulle spalle e in un secchio.” (Ibid)

A noi mamme che partoriamo in condizioni mediche ottimali, viene detto che il parto e la nascita sono esperienze che si radicano profondamente nella memoria del neonato, anche se possono non rimanere ricordi superficiali di ciò. Bigoa è stata senz’altro segnata profondamente da questa nascita in fuga, precaria e in pericolo al massimo grado. La sua poesia va alla ricerca di questo dolore originario con un paradosso forte. Si può nascere in mezzo alla morte:

Per i bambini che nascono sotto il fischio dei proiettili: questa è la nostra dote. Riconosciamo il volto della guerra negli occhi incavati, lo riconosciamo nei crampi allo stomaco di chi soffre la fame, lo riconosciamo nei nostri piedi callosi, zeppi di vesciche. Casa per noi è stare tra due placche tettoniche.
CHILDREN,SUDAN
EU Civil Protection | CC BY-SA 2.0

Chiamare casa la fuga, l’instabilità di una terra in preda al terremoto della guerra è una delle ferite più profonde che la giovane Chuol racconta. Ma come è arrivata dalla guerra alla poesia? Dopo 11 anni di spostamenti in Africa, la famiglia di Bigoa è stata reinsediata in Australia dove lei ha potuto riprendere la scuola che, prima, solo occasionalmente aveva frequentato. Nel nuovo continente ha potuto ricominciare a vivere una normalità scontata per molti, ma il peso dell’esilio è un dolore presente e invisibile, difficile da sbrogliare, identificare, curare.


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Un giorno, Bigoa ha partecipato a un evento dedicato alla poesia per scrittori e scrittrici afro-australiani, e quel giorno qualcosa è successo: un vago senso di appartenenza ha cominciato a diffondersi dentro di lei. “Ho visto me stessa, complicata, creativa ed espressiva, e ho provato il bisogno travolgente di condividere qualcosa. Credo di aver sempre avuto bisogno di scrivere,” spiega.

La poesia è stata la via per mettere radici, per tentare non tanto di unire le due opposte placche tettoniche ma di trovare un equilibrio umano fissando qualcosa a cui aggrapparsi. Cosa si salva dal terremoto, in mezzo alla fuga? La propria voce, come espressione di un popolo intero e ferito. Ecco perché la poesia non è un gesto estetico degli eruditi, ma di gente che parla a nome di un “noi”, di un cuore plurale.

Sopravvissuti

“Terra” e “guerra” rimano a parole, ma lasciano aperta la ferita che esprimono. La poesia Birth water scritta da Bigoa Chuol sta circolando in giro per il mondo, l’ha scritta durante un seminario in Uguanda ed è la carta d’identità di una rifugiata che guarda la sua terra d’origine con lo stesso dolore con cui si fissa negli occhi un padre cattivo, il legame profondo resta anche nel pieno tumulto della violenza.

Per i padri che dormono coi fucili in mano, ma non hanno mai abbracciato i figli: l’eredità non colma le distanze. Avete trasformato i nostri nomi in un peso che picchia sulla schiena, avete trasformato i nostri nomi in sabbia inghiottita dal mare.
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https://pixabay.com/photos/africa-army-women-south-sudan-1331327/

C’è la vastità di un oceano tra l’Australia dove oggi Bigoa vive e l’Africa che le ha dato i natali. L’esilio è uno sradicamento che sottrae linfa vitale alla persona che lo subisce.


NIGERIA, ESEOSA, ORFANOTROFIO

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Come in ogni esperienza, spetta all’uomo farne un’occasione o una tragedia inconsolabile. Ogni ferita è un esilio, un allontanamento da qualcosa di irrecuperabile e forse l’inizio di qualcosa di nuovo. Ci sono due versi clamorosi nella poesia di Bigoa; clamorosi perché quando la poesia fa davvero il suo mestiere parla a ciascuno, dice qualcosa di vero per tutti.

Quando esplode la guerra, noi scappiamo non ci portiamo dietro la nostra lingua.

Inizialmente li ho interpretati in modo brutale e negativo, poi ho riflettuto sul secondo verso. L’esule, il rifugiato, deve abbandonare la propria lingua d’origine, ricominciare a vivere in un paese che parla con parole tutte nuove da imparare. Ogni strappo ci allontana “dalla lingua che sappiamo parlare”, cioè dalle spiegazioni e dalle etichette che abbiamo dato a ciò che crediamo di conoscere. Ed è un dolore, perché la lingua natia è la lingua degli affetti. Quando Dante fu esiliato lasciò incompiute tutte le opere che stava scrivendo. Non si portò dietro la propria lingua, ne iniziò una nuova che oggi noi chiamiamo Divina Commedia.

Ecco allora che la storia di Bigoa non è solo la testimonianza di una rifugiata; la sua voce parla del nostro esilio radicale, perché nessuno di noi sarà a casa davvero finché non saremo tutti nella Casa del Padre. Ci è chiesta la fatica di lasciarci alle spalle le nostre parole note e coccolate, la disponibilità a fare nuovo il nostro rapporto con il vissuto del mondo ogni giorno, dopo ogni caduta, oltre le obiezioni delle nostre lacrime più sincere.

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