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Valiamo più per quello che soffriamo che per quello che facciamo

young casual man smiling

By Asier Romero/Shutterstock

padre Carlos Padilla - pubblicato il 03/07/19

Anche se a volte non ci credo, se soffro la mia vita vale più la pena

La vita mi confronta con la sua fine. La salute acquista senso nella malattia. Mi costa tanto capire il senso di molti dei miei passi verso il cielo…

Leggevo giorni fa: “Valiamo più per quello che soffriamo che per quello che facciamo”.

È chiaro. A volte penso che se faccio una determinata cosa cambierò ciò che mi circonda, il mio mondo, il cuore delle persone.

Mi aggrappo in modo ossessivo al sogno di far bene tutte le cose, ma non ci riesco perché sono debole.

Penso di valere di più se faccio di più, o almeno qualcuno ha instillato in me questa idea come un pensiero troppo forte e ossessivo.

E allora giudico dentro di me chi non fa nulla, chi non agisce, chi non si mette a servire gli altri anziché i suoi interessi, chi non prende l’iniziativa per aiutare gli altri, chi non vive solo per gli altri.

E oggi sento di valere di più quanto più soffro. Ma è proprio questo che cerco di evitare ad ogni costo.

Non voglio soffrire, non voglio provare dolore, non voglio che le cose che faccio mi costino.

Sono ossessionato dal condurre una vita facile, comoda, protetta, sicura, come se fosse ciò che è davvero prezioso e importante in questa vita.

Dove ho posto il mio cuore? Dove ho gettato davvero le radici? La mia bocca parla di ciò che c’è nel mio cuore. Mi è ben chiaro.

Pensare che la sofferenza è quello che mi dà valore mi colpisce. Ci sono persone che soffrono continuamente. Nella loro vita affrontano difficoltà e crisi.

Sperimentano abbandono e solitudine, il vuoto e la mancanza di senso. Soffrono malattie difficili. Sembra che non ci sia speranza nel loro cuore.

Quelli che fanno molto valgono di più? Sì, nel cuore di Dio.

E mi sento parte di quel gruppo di coloro che fanno molte cose e valgono poco. Di quelle persone che hanno riposto il loro cuore nel luogo sbagliato.

Di quelle che non soffrono tanto e valorizzano di più le azioni, i gesti. E poi si trovano vuote. Soffrire molto e finire per morire nel cammino comune di tante persone.

E all’improvviso mi costa trovare un senso alla sofferenza ingiusta, alla sofferenza inutile. O forse la sofferenza ha un senso in un progetto divino che non riesco a scoprire? Come se una specie di porta si aprisse in cielo per avvicinarmi al più profondo del cuore di Gesù? E dentro quel cuore inizio a sentire il suo amore come mai prima d’ora?

Si può allora comprendere che in una dinamica che non capisco diventi realtà il progetto di Dio che dà senso a tutto ciò che soffro? Si può toccare il cielo con le mani spezzate?

Non lo so, ma sicuramente non è possibile toccarlo con le mani troppo occupate, troppo piene di cose, di preoccupazioni, di desideri.

Vedo che le mie mani sono prese da mille progetti, nel tentativo di renderlo tutti possibili. E non ci riesco.

Vorrei essere luce di speranza in un mondo in cui credo predominino oscurità e tenebre.

Una luce che brilla in mezzo alla notte. Un po’ di speranza seminata in mezzo allo scoramento.

Come intendere la morte di un giovane che sognava solo di diventare santo? San Luigi Gonzaga, un seminarista gesuita morto molto giovane dopo aver servito con generosità tanti malati, ha scritto:

“Immergendo il mio pensiero nella considerazione della bontà divina, che è come un mare senza fondo né litorale, non mi sento degno della sua immensità, visto che Egli, in cambio di un lavoro tanto breve ed esiguo, mi invita al riposo eterno e mi chiama dal cielo alla suprema felicità, che ho cercato in modo tanto negligente, e mi promette il premio di qualche lacrima, che ho versato in modo tanto parco”.

Mi commuove la riflessione di quel giovane che sarebbe morto prima di realizzare il suo sogno sulla terra, un sogno di dedizione totale a Dio, di santità.

Come accettare la sofferenza che sembra non avere senso, la sofferenza lunga, dura? Come accettare la morte prematura?

Mi serve uno sguardo sul cielo come promessa.

Come rapportarmi allo sconcerto che provoca nell’anima la morte degli innocenti, all’abbandono di chi ha bisogno di una casa, alla solitudine di chi cerca compagnia, al dolore di chi vuole solo calmare il dolore, al rifiuto di quanti vogliono solo donare amore?

Come si possono comprendere tanti paradossi sulla mia strada?

Forse solo guardando il cuore di Gesù, nel più profondo delle sue viscere, lì dove la lancia apre una breccia e lascia sfuggire la luce e il vento, l’acqua e la speranza.

Solo lì dove smettono di esserci le tenebre per illuminare tenuemente la mia vita con una luce profonda che rende tutto chiaro.

Resisto a credere che la sofferenza sia vana. Credo, non so bene come, che il mio dolore renda profondo il solco nella terra che Dio ara.

Ed Egli si incarica di gettare semi lì dove il mio sangue riesce a rendere la fessura più profonda. E non so bene come in qualche luogo, in qualche cuore, quel seme che Dio stesso ha seminato attraverso quello che soffro darà frutto.

Avrà senso allora tutto quello che sto soffrendo? Varranno la pena tante ore investite dando la vita nel silenzio del mio dolore?

Forse solo in cielo vedrò il senso dei fiori che crescono in quel solco. Finché sarò qui sulla terra continuerò a confidare in un progetto divino pieno d’amore e speranza che resta nascosto.

Un progetto che non conosco. Un progetto che mi trascende. E continuo a credere che dietro il dolore ci sia una finestra aperta sul cielo che mi parla di una speranza a cui anelo dal profondo della mia anima.

Continuo a credere che se mi dono a Gesù, al suo cuore aperto, riuscirò a sentire, anche solo per un giorno, quello che ha sentito Lui.

E potrò donarmi con la stessa generosità con cui si offre Lui. E potrò amare sapendo che se soffro la mia vita vale più la pena.

E che tutto ciò che ho fatto è alla fin fine solo una goccia in un mare immenso, quel mare senza coste del suo amore per me.

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