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Eutanasia in Italia e in Europa: per non vanificare la morte di Noa

NOA POTHOVEN
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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 05/06/19
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Una diciassettenne della cittadina olandese di Arnhem, Noa Pothoven, è morta domenica, volontariamente, e la notizia è stata diffusa ieri da tutti i media del mondo occidentale parlando di “eutanasia”. Se resta il dubbio, in punta di diritto, sulla fattispecie della pratica adottata nelle circostanze che hanno portato la ragazza alla morte, permane ancora più radicalmente la questione di una società che si permette il folle lusso di aprire squarci su squarci nella tela-tabù dell’indisponibilità della vita umana.

Sorridi… senza neppure una ragione per farlo.
Ama… come se fossi un bambino.
Sorridi… non conta quel che ti dicono:
non stare a sentire neanche una loro parola,
perché la vita è bella così.

Fino a ieri in Italia dicevi “Noa” e ti rispondevano canticchiando la bella canzone di Nicola Piovani, che valse a La vita è bella di Roberto Benigni, fra gli altri, l’Oscar alla migliore colonna sonora nel 1999.

L’Olandesina giovane e bella

Ora sono passati vent’anni, e da ieri per gli italiani “Noa” non è più (solo) il nome di una bella cantante israeliana, ma pure quello di una bella ragazza olandese. Morta, abbiamo appreso appunto ieri, a partita già chiusa. Per eutanasia, hanno detto tutti i giornali, nazionali ed esteri: e su questo La è partita la consueta serie di litanie pro vel contra.

Ieri sera, quando i giornali erano già chiusi (e dunque nessun editoriale ne riporta il segno) Marco Cappato ha scritto un Tweet che stamane sembra dover rovesciare le carte in tavola:

L’Olanda ha autorizzato #eutanasia su una 17enne? Falso! I media italiani non hanno verificato. L’Olanda aveva rifiutato l’eutanasia a #Noa. Lei ha smesso di bere e di mangiare e si è lasciata morire a casa, coi familiari consenzienti. Si attendono smentita e scuse.

Coup de théâtre: l’uomo-simbolo della lotta (in)civile per l’eutanasia legale in Italia viene a smentire la notizia urlata oggi sulle prime pagine di tutti i giornali. E in punta di diritto, a pesare le parole, è vero che nessuna fonte parla esplicitamente e precisamente di eutanasia (attiva): potrebbe essersi trattato di suicidio assistito, cioè qualcuno ti prepara una soluzione letale e tu la bevi; o perfino di sedazione profonda in concomitanza di un blocco renale dovuto alla protratta assenza di idratazione (ciò a cui Cappato allude).

Una questione previa arida e non emotiva, dunque necessaria

In un momento dominato dall’emotività, tale questione può sembrare di lana caprina, ma così non è: come infatti in esegesi biblica ogni interpretazione non può precedere il più rigoroso sforzo di stabilire la verità testuale (cioè le parole nude e crude che sono state scritte e il loro senso letterale); così in materia di etica e costume non si può parlare di leggi e di morale senza acclarare con la massima acribia i fatti.

Nello specifico, sarebbe dirimente soltanto sapere se e cosa sia stato iniettato nel corpo di Noa in concomitanza della morte:

  1. se le è stato iniettato del Pentobarbital in una sua qualche soluzione, siamo in presenza di un atto di eutanasia attiva;
  2. se le è stato offerto un preparato letale (comprensivo di antiemetici) da ingerire per via orale, siamo in presenza di un aiuto al suicidio (formalmente e perciò giuridicamente distinta dall’eutanasia stricto sensu, ma ancora assimilabile ad essa sul piano morale);
  3. se le è stata somministrata una sedazione per anestetizzarla in concomitanza del blocco renale (di per sé tra i dolori più estremi che il corpo possa subire), siamo in presenza di una forma di “eutanasia passiva”.

Cappato riporta un’intervista della fine del 2018 in cui la stessa Noa dichiarava che le era stato negato il parere positivo a procedere verso l’eutanasia, e questo sembra il suo main argument; in contrario abbiamo notizia di un pronunciamento (posteriore) in cui si giudica “insopportabile” la sofferenza psichica della giovane; altri indizi contrastanti e difficilmente conciliabili col quadro d’insieme li abbiamo nel fatto che la giovane avesse smesso di mangiare e di bere e che si riferisse (nel suo post d’addio su Instagram, ora rimosso) ad una morte che doveva sopraggiungere «entro dieci giorni al massimo».

Tutto quanto a ora è dato sapere in modo certo è stato compendiato in un redazionale di 31mag.nl: resta da capire la presa di posizione di Cappato, che non è utile a comprendere i fatti olandesi ma certamente a intuire i movimenti del dibattito italiano. Probabilmente capiremo meglio mano a mano che le carte si scopriranno, ma intanto non sarà inutile ricordare alcune cose:

  1. Formalmente, e in senso stretto, “suicidio assistito” fu anche quello di Dj Fabo, che con la bocca premette materialmente un tasto che azionò la pompa della siringa che lo uccise;
  2. L’aiuto al suicidio di Fabiano Antoniani è il reato contestato allo stesso Marco Cappato, che per tale imputazione (art. 580 del Codice Penale) rischia da 5 a 12 anni di carcere;
  3. Chiunque vede bene – chiedo scusa per il cinismo, ma sono i meccanismi della comunicazione e della politica – che per il “progresso” della causa (in)civile che mira alla legalizzazione dell’eutanasia in Italia Noa sia una “testimonial” assai controproducente: una ragazza giovane, bella e profonda non suscita spontaneamente la pena che muove un tetraplegico (lasciando a parte tutto il pur fondamentale discorso sulle motivazioni, sulla presenza, sull’accompagnamento…).

Sulle questioni giuridiche, e sull’illustrazione della norma olandese del 2002 Mario Adinolfi ha prodotto in mattinata una diretta Facebook a cui si può utilmente fare ricorso per approfondimenti.

Il focus olandese e la sfida italiana

La cosa impressionante è che la stampa olandese non si sia affatto impegnata a dirimere la questione che a noi pare capitale: è stata eutanasia o no? Forse perché lì l’eutanasia è legale da quasi vent’anni: le statistiche dicono che più del il 4% (il quattro!) della popolazione nazionale muore così (e fior fior di inchieste attestano che c’è pure un insondabile sommerso…) e in fondo agli articoli si trovano le pubblicità-progresso sul suicidio assistito («anonimo e riservato»). In Olanda il dibattito si sta concentrando sull’assenza di “cure psicologiche” per traumi come quello di Noa (il rigetto del proprio sé a seguito di tre stupri subiti fra gli 11 e i 14 anni), e in qualche misura si deve riconoscere che tale focalizzazione non è insensata (se non la si butta su una giusta ma banale requisitoria contro lo stupro). Abbiamo letto, fra l’altro:

I Paesi Bassi non hanno istituzioni in cui giovani come Noa possano andare sia per l’aiuto psicologico che fisico di cui hanno bisogno.

A questo punto scopriamo altre due cose, e cioè che da un lato tutta la questione sollevata da Cappato è assolutamente irrilevante (non per Cappato e per la sua causa – personale e politica –, chiaramente), perché ciò che importa è osservare quanto progressivamente s’imponga la banalizzazione della morte come soluzione (dei problemi insieme con le persone che ne sono affetti).

D’altro canto, invece, l’orizzonte in vista del quale Cappato ha sollevato la sua questione è quello che ci riguarda tutti, e tremendamente più da vicino di quanto pensiamo: l’ordinamento giuridico italiano, che al momento (e giustamente) non riconosce alcun “diritto all’eutanasia” e che anzi punisce severamente l’aiuto al suicidio. Rompere questa diga significherebbe sancire (oltre all’aborto) un altro àmbito giuridico in cui la soppressione degli esseri umani sarebbe lecita e legittima: la legge italiana persegue come crimine il suicidio assistito perché formalmente esso è equivalente a un qualunque concorso in omicidio. Se una persona mi supplica di spararle un colpo in testa e io lo faccio, la sua supplica non muove di un millimetro la fattispecie di omicidio; se passo la pistola a chi le spara vengo giustamente incriminato per concorso in omicidio.

I cortocircuiti della “dittatura del relativismo”

La deriva individualistica della nostra marcescente civiltà pretende d’imporre il criterio del consenso come fattore necessario e sufficiente alla legiferazione, ma questo produce ordinamenti schizofrenici in cui una liceale può farsi violentare da dieci ragazzi, “se è consenziente” (e allora si chiama “gang bang”), può decidere di farsi uccidere, “se è consenziente”, ma non può accompagnare il figlio in gita scolastica se per motivi religiosi vuole portare il velo (dibattito attualmente in corso in Francia).

Il problema della “dittatura del relativismo” (che non è la parola d’ordine di una stagione culturale trascorsa…) è che quando “l’io e le sue voglie” non si orientano a un principio unificatore – da che mondo è mondo, il bene e il bene comune – essi finiscono fatalmente a confliggere, producendo i cortocircuiti delle nostre società.

Paradossalmente, la cosa più sensata da fare oggi sarebbe lasciar stare Noa (tanto con le nostre prediche e col nostro affollarci idealmente attorno alla sua salma esangue testimoniamo solo, contro noi stessi, di non averla saputa aiutare) e pensare a Cappato, all’Italia e all’Europa, che pullula di miriadi di Noa ancora vive, quindi ancora in pericolo.

Riflettere sul suo caso sì, ma senza le consuete e rinunciabili botte di emotività che tanto piacciono (perché ci fanno sentire vivi: buttano in circolo adrenalina e dopamina): qualunque cosa abbiano iniettato nelle vene di Noa (se qualcosa hanno effettivamente iniettato), il punto è che dei genitori e una sorella si sono ritrovati ad assistere inermi e impotenti alla morte volontaria di una ragazza giovane, bella, profonda e che era loro figlia e sorella. Questo è profondamente insano, lo sentiamo a pelle e sappiamo spiegarne le ragioni, e se la morte di Noa ha regalato al mondo una vertigine che ci ha risvegliati dalla nostra, di sedazione profonda, il minimo che le dobbiamo è proprio che non ci riaddormentiamo.