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“La storia della mela” non riguarda San Tommaso d’Aquino

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Giovanni Marcotullio - Breviarium - pubblicato il 29/05/19

Spesso, studiando teologia, ho sentito come docenti di storia ecclesiastica biasimavano il traffico di reliquie che tra basso medioevo e controriforma assunse qua e là i contorni di un vero e proprio narcotraffico. Non era stato difficile a Umberto Eco ironizzarvi su, per bocca del lucido fra’ Guglielmo da Baskerville, il quale davanti a un reliquiario che gli si diceva contenere un frammento (l’ennesimo!) della Vera Croce disse:

Se tutti fossero autentici, Nostro Signore non sarebbe stato suppliziato su due assi incrociate, ma su di una intera foresta.

E alla scandalizzata esclamazione del discepolo Adso replicava rincarando la dose:

È così Adso. E ci sono dei tesori ancora più ricchi. Tempo fa, in una cattedrale tedesca, vidi il cranio di Giovanni Battista all’età di dodici anni.

Contrabbandieri di reliquie, di dottrine, di citazioni…

Ringrazio Dio di aver avuto molti bravi maestri lungo le vie talvolta impervie degli studî teologici: quelle guide esperte, in massima misura sacerdoti e consacrati, mi hanno orientato e allenato a un alto grado di precisione filologica e storica, a stabilire con esattezza la vicenda ecdotica di un testo, prima di accingermi a discuterne il contenuto. Così ho sviluppato (come fanno tutti i buoni alunni di buoni maestri) una specie di sesto senso per le affermazioni attribuite a questo o quell’autore, e nel tempo sono arrivato a vedere nella pseudoepigrafia[1] una versione aggiornata (ma per questo anche peggiore) del traffico delle reliquie. Spacciare un osso di pollo per quello di santa Blandina era una truffa di una o poche persone le cui vittime, poche o molte che fossero, tuttavia non risultavano intimamente danneggiate dall’abuso della loro credulità, perlomeno fino a quando il culto da esse tributato a quegli oggetti restava nei ranghi della sana tradizione cattolica, e cioè non sconfinava in magismo e superstizione (cosa neppure infrequente).

Quando invece si attribuisce a un autore un pensiero non suo o un’espressione apocrifa il danno è virtualmente enorme: lo vediamo nel successo delle campagne d’odio condotte contro alcune minoranze a suon di fake news e, più in sordina, con la vicenda del detto sui “Papi inflitti da Dio”, attribuito a Vincenzo di Lérins anche se nessuno nel V secolo avrebbe mai potuto concepire una frase del genere[2]. Il rischio di un simile danno si alimenta ogni qual volta reiteriamo (e così rilanciamo e accreditiamo) una bufala. Il 19 aprile 1930 Gilbert Keith Chesterton scrisse su Illustrated London Newsche

le fallacie non cessano di essere fallacie per il fatto che diventano mode.

Se questa è una citazione che ci sembra ragionevole, dobbiamo convenire che lo stesso si può dire delle citazioni distorte o inventate di sana pianta.

La “mela di san Tommaso”

Negli ultimi anni mi è capitato di ascoltare e perfino di leggere[3] l’aneddoto secondo il quale Tommaso d’Aquino, avviando i propri corsi (o addirittura tutte le lezioni?) alla Sorbona, sarebbe stato solito indicare una mela poggiata lì (per l’intervallo?) sentenziando:

Questa è una mela. Chi non è d’accordo può anche andarsene.

Parola più, parola meno. Ora, due cose non mi sono mai tornate, di questa citazione:

  1. la prima è che la frase “non suona”: né tommasiana né medievale;
  2. la seconda – ma questa è riservata a un pubblico più ristretto – è che non si capisce bene in che modo una frase così banale nei contenuti e aggressiva nei modi (insomma non tommasiana) possa risultare tomista, ossia come risponda alla particolare gnoseologia del Doctor Angelicus.

Qualcuno me l’ha spiegata come un’esemplificazione del principio di realtà, il che equivale a inlustrare obscurum per obscurius, nella misura in cui il “principio di realtà” (che di per sé è un concetto metafisico) viene invocato dal nostro “secolo superbo e sciocco” perfino come puntello al cinismo politico e al relativismo etico.

A parte questo, resta il fatto che nessuno mi ha mai saputo indicare una fonte passabile: né le opere di Tommaso né le memorie di Reginaldo da Piperno riportano aneddoti accostabili, anche solo alla lontana, a questo bizzarro incipit didattico.

Stemma sitorum

La prima cosa che apprendiamo da una rapida ricerca online è che l’episodio sembra sconosciuto fuori dall’Italia: ovvero, più esattamente, non si hanno risultati apprezzabili per l’inglese, il francese, lo spagnolo, il portoghese (ovvero per le lingue in cui la letteratura su Tommaso ha una qualche consistenza)… e neppure per il tedesco. Dovremo necessariamente limitarci all’Italia, cercando nella blogosfera e (auspicabilmente) nei libri. Cominciamo dai risultati più recenti e andiamo verso i più remoti.

  1. Il 6 giugno 2018 Francesco Lamendola spiegava su www.accademianuovaitalia.it “come il pensiero cattolico è diventato non cattolico”, e riportava l’aneddoto;
  2. Il 17 febbraio 2018 Silvana De Mari riportava l’aneddoto su www.silvanademari.it;
  3. Il 25 ottobre 2017 Enzo Pennetta lo riportava su www.enzopennetta.it (sfumandolo tuttavia con un prudente “si tramanda che facesse”);
  4. Il 23 agosto 2016 tale “Gerardoms” lo utilizzava su www.gerardoms.blogspot.com addirittura per compilare una lista di numerose proposizioni – «l’umiltà ci porta ad osservare e argomentare» [sic!] – tutte terminanti, a mo’ di anatematismi, con la sentenza “chi non è d’accordo, può andar via”;
  5. Il 26 ottobre 2015 tale “mic” aveva già pubblicato il medesimo testo di cui al punto 4 su www.chiesaepostconcilio.blogspot.com;
  6. Lo stesso 26 ottobre 2015 (difficile dire se prima o dopo di “mic”) il medesimo testo veniva pubblicato da tale “Istruzione Cattolica” su www.gloria.tv, avendo l’accortezza di segnalare quale fonte la pagina di cui al punto 8;
  7. Il 22 marzo 2016 tale “Angyneocat” riportava su www.concristopietrevive.forumfree.it il suddetto testo (sempre quello di cui al punto 4);
  8. Il 10 settembre 2015 tale “unafides” pubblicava su www.unafides33.blogspot.com il testo di cui al punto 4, che poi sarebbe stato ripreso da “Istruzione Cattolica” (di cui al punto 6). Variatio interessante: la lezione di “unafides” vede a mo’ di postilla un passaggio della catechesi di Papa Francesco del 28 gennaio 2015; la copia di “Istruzione Cattolica” ha omesso la postilla;
  9. Il 13 maggio 2015 un anonimo gestore ha riportato su www.azionetradizionale.com il testo di cui al punto 9 passando per la copia di cui al punto 12;
  10. Il 24 febbraio 2015 tale “guelfonero” pubblicava su www.radiospada.org il testo di tale CdP Ricciotti, che mentre attacca frontalmente Joseph Ratzinger riporta l’aneddoto;
  11. Il 31 gennaio 2015 don Fabio Bartoli riportava su www.lafontanadelvillaggio2.wordpress.coml’aneddoto (anch’egli, come Pennetta, stemperando a mezzo di un “narra un aneddoto che…”);
  12. Il 18 gennaio 2013 un anonimo gestore ha riportato su www.costanzamiriano.com il testo già incontrato al punto 9 e di cui al punto 13, citandolo correttamente;
  13. Il 27 agosto 2012 Giorgio Casali pubblicava su www.parolecheservono.blogspot.com il testo di cui ai punti 9 e 12.

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Ho interpellato personalmente Casali, il quale mi ha detto di non saper ulteriormente specificare la fonte dell’aneddoto, protestando però di non essere stato il primo a rilanciare l’aneddoto. Il suo testo, tuttavia, così come lo si riscontra, non risulta presente sull’internet in date anteriori al 27 agosto 2012.

E se fosse… un altro Tommaso?

Siamo dunque in un vicolo cieco? Non sarebbe la prima volta che capita, mettendo mano a una questione ecdotica: certo, la collatio l’ho fatta solo fra i testi che mi sono stati riportati nelle prime quattro pagine dei risultati di Google, e naturalmente scartando le occorrenze risultanti da commenti, i quali per loro natura non sono fonte. Non siamo al punto in cui si possa dare una risposta convincente, ma il coinvolgimento dei lettori più attenti potrebbe risultare utile: anche la volta scorsa non sarei arrivato al Pallotti dal Lerinese senza le attente integrazioni alla collatio da parte loro.

Una pista tuttavia la propongo – fragilissima, lo ammetto, poiché consta di un’assonanza e di un’omonimia. In un capitolo di Essays on the Intellectual Powers of Man (1785) il filosofo scozzese Thomas Reid poneva un problema di filosofia della conoscenza:

Prendo – diceva quello[4] – una zolla di terriccio; la scolpisco dandole la forma di una mela; con essenza di mele le do il profumo di una mela, e con della vernice posso darle una buccia e il colore di una mela. Ecco allora un corpo che, se lo giudichiamo con la nostra vista, col nostro tatto o col nostro odorato, è una mela. A questo io risponderei che nessuno dei nostri sensi ci illude, nel caso di specie. La mia vista e il mio tatto testimoniano che ha la forma e il colore di una mela; questo è vero. Il senso dell’olfatto testimonia che ha il profumo di una mela; anche questo è vero e non c’è inganno. Allora dove sta l’inganno? È evidente che sta nel fatto che poiché questo corpo ha alcune qualità appartenenti a una mela io concludo che esso è una mela. Si tratta di una fallacia, ma non dei sensi, bensì di un non sequitur [5].

Thomas Reid – che fu professore a Glasgow ma che era pure un pastore presbiteriano – replicava così a un uomo che cercava di confutare uno degli argomenti con cui storicamente i protestanti rigettavano “la dottrina papista della transustanziazione”: sorrido perché è assai paradossale che proprio la sentenza sbrigativa sulla mela venga attribuita a Tommaso laddove a dire cose simili fu uno che rispondeva all’obiezione di uno che quella stessa dottrina stava difendendo dai suoi critici. Forse consterà meglio una volta che si sia chiarito chi fu Reid. Per questo mi permetto di rimandare alla sintesi che Diego Fusaro scrisse (ormai parecchi anni fa, quando si occupava ancora di filosofia):

Tra i maggiori oppositori della filosofia dagli esiti scettici di Hume nell’ambiente accademico scozzese vi fu Thomas Reid , il successore di Adam Smith all’università di Glasgow . Egli fu autore di una fortunata Ricerca dello spirito umano secondo i princìpi del senso comune, risalente al 1765. La dottrina del senso comune rappresenta infatti il nucleo teorico centrale, oltre che della filosofia di Thomas Reid, anche dell’indirizzo di pensiero da lui iniziato, generalmente noto con il nome di Scuola scozzese . Secondo Reid lo scetticismo di Hume non va imputato esclusivamente al pensatore scozzese, ma é la conseguenza di un’illusoria prospettiva gnoseologica che risale a Locke e a Berkeley e, per tornare ancora più indietro negli anni, a Cartesio. Tutti questi pensatori hanno infatti aderito a quella che Thomas Reid definisce la teoria delle idee, fondata sul concetto che l’oggetto immediato della conoscenza umana non sono le cose, bensì le idee. Riguardando solamente le idee, la conoscenza non comporta, secondo quella tradizione, nessun giudizio immediato sull’esistenza delle cose, che rimane sostanzialmente problematica. A questa dottrina Thomas Reid oppone la convinzione che la conoscenza dell’uomo ha sempre come oggetto le cose stesse, tramite le percezioni che ci provengono da esse, e non può mai essere separata da un giudizio affermativo sulla loro esistenza. Conoscere qualcosa vuol dire conoscere le cose in quanto esistenti e non le idee delle cose. Ma su che cosa si può allora fondare la certezza, che il dubbio di Cartesio metteva in dubbio, di conoscere direttamente le cose? Chi non mi dice che quelle che io credo essere cose esistenti in realtà non siano immagini virtuali inviate alla mia mente da un genio maligno che impiega tutta la sua onnipotenza per ingannarmi? Chi mi garantisce che esista il mondo che mi circonda? Secondo Thomas Reid non c’è nient’altro che possa garantirlo se non il senso comune , ovvero il sentimento in base al quali tutti credono sull’esistenza delle cose esterne e del nostro io: nessuno si sognerebbe mai di pensare che il mondo sia solo una proiezione virtuale inviataci da un genio malvagio! Il senso comune di Thomas Reid svolge quindi una funzione molto simile a quella esercitata dalla “credenza” di Hume: ma mentre Hume stabiliva una netta distinzione tra la certezza della credenza e quella del conoscere razionale e dimostrativo, Thomas Reid unifica i due termini, restituendo al senso comune il valore di un sapere assolutamente certo e non lasciando spazio ad alcuno sviluppo in direzione dello scetticismo: non ha senso dubitare delle cose che ci circondano perché è il senso comune che ci dice che esistono e sono così. Pastore presbiteriano oltre che professore universitario, Thomas Reid si preoccupa di combattere anche le conseguenze religiose dello scetticismo humiano; ritiene infatti che il senso comune stia alla base non solo nel credere nella realtà della percezione, ma anche nel credere alle verità fondamentali. Queste ultimi concernono sia l’ambito logico-matematico, sia quello etico-metafisico: in virtù di esse l’uomo può quindi essere certo della sua libertà individuale, dei princìpi morali che trova innati in sé e, soprattutto dell’esistenza di Dio, che è dettata dal senso comune. Thomas Reid eserciterà il suo influsso su un notevole numero di autori scozzesi. Tra questi va ricordato un certo Thomas Brown che riconoscerà al filosofo il valore del suo contributo nel futuro sviluppo dell’associazionismo. Di Hume criticò lo scetticismo e di Locke la formazione ancora troppo aristotelica che lo condusse a considerare le idee come filtro tra il mondo esterno e la mente. Reid fu tra i primi della sua epoca a riconoscere alla mente umana facoltà che la rendevano attiva per sua stessa natura in modo innato senza essere altresì frutto di strutture perfette perché fatte ad immagine e somiglianza di dio, come aveva affermato Cartesio. Inoltre Reid riconosceva l’esistenza di facoltà mentali che erano naturalmente rivolte alla socialità. Contemporaneo e amico di David Hume giocò un ruolo importante nell’era dei lumi in Scozia. Compì studi teologici e fu, per lungo tempo, pastore nel villaggio di Newmachar (1737-1752), nei pressi di Aberdeen. Successivamente si trasferì ad Aberdeen dove fu insegnante al King’s College dal 1752 al 1764. Nel 1764 venne nominato alla cattedra di filosofia dell’Università di Glasgow succedendo a Adam Smith. Nel 1765 pubblica la sua più conosciuta opera Ricerca dello spirito umano secondo i principi del senso comune. Questo lavoro confutava le teorie basate sullo scetticismo, da Thomas Reid definite teorie delle idee dei vari David Hume, John Locke e René Descartes, opponendo un concetto che si basava sulle cose.

Conclusioni (necessariamente provvisorie)

Ecco dunque lo status quæstionis: la storia della “mela di san Tommaso” è certamente apocrifa e quasi certamente trae origine negli ultimi anni o decenni da un variegato contesto di blogosfera italiana, nel quale più o meno noti influencer cattolici sono affastellati con più o meno ignote sigle del pulviscolo reazionario sedicente cattolico. Nel caso della citazione distorta e attribuita a san Vincenzo, siamo arrivati a un passo dall’archetipo Ω, una verifica testuale potrebbe chiudere la vicenda. Non così qui, dove quella di Reid resta una pista certamente suggestiva e forse non inutile, ma da verificare e perlustrare con maggiore acribia.

Certo il paradosso sarebbe enorme: tanti bravi kattolici (con la k di ki fa sul serio!) ricacciano indietro gli immaginari fantasmi modernisti che popolano i loro incubi quotidiani al grido di un aneddoto esemplato sulla filosofia di un pastore protestante! Figuriamoci poi se veramente risultasse che il passaggio sorgivo è quello dato in risposta a uno che tentava di difendere la transustanziazione!

A dirla tutta, io spero che il tizio evocato da Thomas Reid semplicemente non esistesse, tanto l’obiezione era banale e mille volte superata dalle grandi Accademie della storia della Filosofia (accenniamo per brevità solo a Platone e Agostino), ma davvero la sbrigativa affermazione “questa è una mela, chi non è d’accordo può andare via” – che rivendica l’affidabilità delle percezioni e riduce il realismo a “common sense” – è quanto di più lontano dal pensiero di Tommaso (e dal cattolicesimo) possa darsi.

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NOTE

1. Esiste anche una pseudoepigrafia “buona”, cioè quella di ingegnosi autori minori che, un po’ per esercizio di mortificazione e un po’ per facilitare la vita della propria opera (e delle idee ivi contenute) ne affidavano il titolo a una più eccellente paternità. Si tratta comunque di una pia fraus che in non pochi casi ha creato complessi problemi per il ristabilimento della verità filologica, anche se rivestono un proprio specifico interesse: ad ogni modo, nulla di assimilabile a ciò che oggi chiamiamo “fake news” (mentre tale è la pseudoepigrafia “cattiva”, cioè quella di cui qui si parla).

2. Come abbiamo ipotizzato nel prosieguo dell’indagine, la fonte potrebbe essere in san Vincenzo Pallotti, sebbene con una variante che ne altererebbe sostanzialmente il significato – però manca tuttora il riscontro testuale, davanti al quale «le chiacchiere stanno a zero».

3. In questi mesi Marco Martinelli l’ha scritto nel suo Nel nome di Dante, di Ponte alle Grazie.

4. L’interlocutore cui si deve la posizione dell’obiezione è «a man who thought the argument used by Protestants against the Popish doctrine of transubstantiation, from the testimone of our senses, inconclusive». Si tenga presente dunque che il primo paragrafo riporta l’obiezione, mentre il secondo esprime il pensiero di Reid.

5. «I take, said he, a piece of soft turf; I cut it into the shape of an apple; with the essence of apples I give it the smell of an apple; and with paint, I can give it the skin and colour of an apple. Here then is a body, which, if you judge by your eye, by your touch, or by your smell, is an apple.To this I would answer, that no one of our senses deceives us in this case. My sight and touch testify that it has the shape and colour of an apple; this is true. The sense of smelling testifies that it has the smell of an apple; this is likewise true, and is no deception. Where then lies deception? It is evident that it lies in this that because this body has some qualities belonging to an apple I conclude that it is an apple. This is a fallacy, not of the senses, but of inconclusive reasoning» (Thomas Reid, Essays on the Intellectual Powers of Man, Saggio II, Cap. 22).

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