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Papa: i cristiani si sentono rimproverati? “È una cosa bella. Così mi sento pastore”

Pope Francis
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Vatican News - pubblicato il 28/05/19
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Intervista al Papa di Valentina Alazraki, trasmessa oggi dall’emittente messicana Televisa. Tra i temi affrontati da Francesco: il femminicidio, le migrazioni con il muro voluto da Trump tra Stati Uniti e Messico, la Cina, il traffico di droga ed i noti casi di abusi da parte di personalità del clero. L’intervista viene pubblicata anche dall’Osservatore RomanoPapa Francesco, prima di tutto, grazie. Sappiamo che il presidente Andrés Manuel López Obrador l’ha invitata in Messico. Ho saputo che non andrà…

R. – Per il momento no…

Ma le ha detto che la riceverebbe con piacere…

R. – È vero. Sì, per il momento no… perché devo andare in altri posti dove ancora non sono andato e dove il viaggio è necessario per motivi pastorali. Ma mi piacerebbe tornare in Messico, è indimenticabile il Messico.

Vero, lei ci è già stato e nel suo viaggio in Messico, credo, ha toccato veramente i punti nevralgici del paese. È stato alla frontiera nord e ha celebrato quella messa memorabile di fronte al muro. Purtroppo, Papa Francesco, in questi quattro anni la situazione non è migliorata affatto. Si continua a parlare di costruire più muro, addirittura di chiedere la frontiera. Abbiamo visto immagini strazianti di bambini separati dalle loro famiglie, dai loro padri, non so se lei ha visto quelle foto, quei video, sono impressionanti. Non so, mi sembra qualcosa di terribile che non è degno dei nostri tempi.

R. – Sì. Non so che cosa succede quando entra questa nuova cultura di difendere territori facendo muri. Già ne abbiamo conosciuto uno, quello di Berlino, che ci ha portato tanti mal di testa e tanta sofferenza. Ma sembra che quello che fa l’uomo è quello che non fanno gli animali. L’uomo è l’unico animale che cade due volte nella stessa buca. Rifacciamo le stesse cose. Alzare muri come se fosse questa la difesa. Quando la difesa è il dialogo, la crescita, l’accoglienza e l’educazione, l’integrazione, o il sano limite del “non si può fare di più”, ma umano… Con questo non mi riferisco solo al limite del Messico, ma parlo di tutte le barriere che esistono. In un’intervista fatta non molto tempo fa mi sono riferito a quella che c’è a Ceuta e a Melilla, è terribile, con le concertinas, il filo spinato. Poi il governo le ha fatte togliere, ma è crudele, è crudele. E separare i bambini dai genitori va contro il diritto naturale, e quei cristiani… non si può fare. È crudele. Si cade nella crudeltà più grande. Per difendere che cosa? Il territorio, o l’economia del paese o vai a sapere che. Ma sono schemi di pensiero che ricadono sull’operato politico e fanno una politica di questo tipo. È molto triste, no?.

Se invece di essere seduta io, che lei conosce, qui di fronte a lei, ci fosse il presidente Trump e non ci fossero telecamere, che gli direbbe?

R. – Lo stesso. Lo stesso perché lo dico pubblicamente. L’ho detto pubblicamente. Ho anche detto pubblicamente che chi costruisce muri finisce prigioniero dei muri che costruisce. Invece chi costruisce ponti fraternizza, dà la mano, anche se resta dall’altro lato, c’è dialogo. E si può difendere perfettamente il territorio con un ponte, non necessariamente con un muro. Parlo di ponti politici, di ponti culturali, è chiaro? Certo, non costruiremo un ponte in tutte le frontiere. È impossibile.

Lei è stato anche alla frontiera sud del Messico, dove ora c’è un’emergenza umanitaria, una crisi umanitaria fortissima che stanno denunciando ogni giorno i vescovi del Messico, soprattutto quelli che si trovano in quel territorio. I centri di accoglienza, le opere della Chiesa non bastano. Abbiamo visto le carovane di centroamericani che passavano per il Messico diretti al nord; ora stanno arrivando molti cubani e ora stanno arrivando africani in Messico. Allora, al di là dell’emergenza della crisi umanitaria, si corre il rischio che, come qui, inizino ondate di xenofobia, perché è una guerra tra poveri, capisce? Cioè i messicani poveri si vedono, diciamo, invasi. Allora, che cosa le fa pensare questa situazione?

R. – Che nel lavoro politico mondiale c’è qualcosa che non funziona. C’è qualcosa che non funziona, e in sostanza credo che alla base ci sono il maltrattamento ambientale e il maltrattamento economico. Del maltrattamento ambientale possiamo parlare dopo. Il maltrattamento economico… Ci sono sempre meno ricchi, che bello! Meno ricchi con la maggior parte della ricchezza del mondo. E sempre più poveri con meno del minimo per vivere. Cioè tutta la ricchezza è concentrata in gruppi piuttosto piccoli rispetto agli altri. E i poveri sono di più. Allora, chiaro: i poveri cercano frontiere, cercano vie d’uscita, orizzonti nuovi. Credo che sia questa l’origine. Il dissesto economico. Che non è più economico ma finanziario. E usciamo dal mondo dell’economia, siamo nel mondo delle finanze. Dove le finanze sono gassose. Un po’ come qui gli italiani… la catena di sant’Antonio. Che uno dà, dà, e crede di avere ventimila e alla fine ha solo cinquecento. Ossia, di concreto della ricchezza in un mondo di finanze c’è pochissimo. Il resto è fantasia, è gas. Ed è in questo mondo delle finanze che ci sono queste ingiustizie sociali. Un’economia di mercato così, ortodossa, non funziona. Ma un’economia sociale di mercato — come l’ha proposta san Giovanni Paolo II — funziona, dialogando, funziona, ma si è già fuori dall’economia di mercato, dalle finanze. Un’economista famosa mi ha detto di aver cercato di creare un dialogo tra economia, umanesimo e spiritualità e ci è riuscita. Ha cercato di fare lo stesso tra finanze, umanesimo e spiritualità e non ha funzionato per il carattere gassoso e astratto della finanza. Ma riassumiamo. Lei mi ha chiesto a che cosa si deve tutto ciò.

Che cosa fanno i messicani nel frattempo, perché, chiaro, alcuni devono lasciare loro il paese, ora devono ricevere quelli che stanno peggio?

R. – Ma è un problema mondiale. Guardi l’Africa. O anche l’Asia. Ossia, è un problema mondiale con questo squilibrio che hanno già segnalato i Papi che mi hanno preceduto, questo squilibrio economico-finanziario. Relativamente pochi ricchi, con tutto il denaro, e molti poveri, senza il necessario per vivere.

Papa Francesco, anche il tema della violenza. Lei lo ha toccato, lo ha vissuto, lo ha conosciuto ovviamente in questi anni e quando è stato in Messico, ma non è stato ancora risolto. Il 2018 è stato un anno terribile con 40.000 morti. Nei primi tre mesi di quest’anno gli ultimi dati parlano di oltre 8.400 persone uccise, vale a dire che ogni giorno in Messico muoiono 90 persone. Alla fine di questa giornata in cui stiamo parlando ci saranno 90 persone uccise. Le persone scomparse non si contano più. I padri che cercano i loro figli. Scomparsi. Le fosse comuni. È una situazione molto, molto drammatica. Che cosa gli direbbe? Che può fare un governo, la società civile, la Chiesa stessa, per cercare di risolvere questo problema?

R. – A un governo non so che misure concrete consiglierei, perché questo è un compito della politica, della politica creativa. Che siano creativi nella politica, una politica di dialogo, di sviluppo. Del compromesso. A volte non resta altra soluzione che il compromesso: scendere a patti con certe situazioni finché si chiariscono le altre, non è così?

Scendere a patti con chi?

R. – Con altri che non la pensano come noi, no? Dico, scendere a patti. Ma se i gestori della politica di un paese litigano tra loro a soffrire è il paese. Scendano a patti per il bene del paese. Cerchino soluzioni politiche che io non so indicare, perché non sono un politico. Non è il mio mestiere. Ma la politica è creativa. Non ci dimentichiamo che è una delle forme più alte della carità, dell’amore, dell’amore sociale, ma quando la politica è tirare ognuno dalla propria parte, allora si crea una situazione di violenza già all’interno stesso del mondo politico.

Alcuni dicono che bisogna scendere a patti con i responsabili del narcotraffico per trovare una via d’uscita. Lei come sente questo tema?

R. – Non mi suona bene, no.

È come se io per aiutare l’evangelizzazione di un paese scendessi a patti con il diavolo. Ossia ci sono patti che non si possono fare. Il patto politico si deve fare per il bene del paese.

Anche per la riconciliazione di tutto il paese…

R. – Riconciliazione, è una parola ora molto usata e che nessuno capisce perché troppo logora. Ma l’accordo politico… L’accordo politico che è meno forte… L’accordo tra i diversi partiti politici, tra i diversi settori della società, anche la Chiesa, si fa aiutando. È quello che ci vuole: invitare a fare accordi per risolvere i gravi problemi di un paese.

Ricordo che quattro anni fa mi ha colpito quando ha detto che il Messico era un paese punito dal diavolo perché c’era la Vergine di Guadalupe. Quando si è trattenuto a lungo nella basilica di fronte alla Vergine di Guadalupe, che vi siete detti?

R. – Sì, il diavolo ce l’ha veramente con il Messico. È vero. Basti pensare ai nostri martiri, alle persecuzioni ai cristiani, che in altri paesi dell’America non sono avvenute con tanta virulenza. Perché in Messico? Qualcosa è successo qui. C’è qualcosa di speciale… questo non è teologia. Parlo, parla l’uomo del popolo: come se il diavolo ce l’avesse con il Messico. Altrimenti non si spiegherebbero tante cose. Dall’altro canto, il Messico è un paese dove c’è tutto, è frontiera nel senso che è un passaggio dall’America Latina all’America del Nord. E anche questo influisce molto, chiaro.

Il tema dei giovani… Anche lei nel suo viaggio in Messico lo ha toccato, è stato con loro. Conosco già Scholas, la fondazione che lei ha creato in Argentina per recuperare i giovani attraverso l’arte, lo sport, la cultura, diciamo questa cultura dell’incontro. Lei sta anche partecipando a un programma del governo del Messico sui giovani. Ci sono state videoconferenze, lei ha parlato con giovani del Messico che le hanno raccontato i loro problemi. Dal bullismo alla violenza che subiscono. Che impressione si è fatto della gioventù messicana?

R. – Beh, non è molto diversa dalla gioventù mondiale! Ha le sue preoccupazioni, ha il suo desiderio di andare avanti, ha i suoi condizionamenti, ha i suoi alti e bassi, ma, in generale, la gioventù, se non entra in un’ideologia, è la stessa in tutto il mondo. Se ideologizzata è diverso. La gioventù corre il rischio — se già non lo ha fatto — di perdere le radici. Io consiglio sempre ai giovani di parlare con gli anziani. E agli anziani di parlare con i giovani, perché un albero non può crescere se gli tagliamo le radici. Non può crescere neppure se restano solo le radici, e ciò riferendomi a un conservatorismo. Andare alle radici. Dialogare con le radici. Ricevere dalle radici la cultura. Allora cresco, fiorisco e do frutto. E genero e si va avanti. Questo dialogo tra gli anziani e i giovani per me è fondamentale nella presente congiuntura. Mi ha colpito molto l’ultimo libro di Bauman che è stato scritto in italiano. Lo ha scritto con un suo assistente che è italiano. Ed è morto mentre stava facendo l’ultimo capitolo, lo ha terminato l’assistente. S’intitola Nati liquidi, ossia senza consistenza. In tedesco il titolo è stato tradotto Die Entwurzelten, senza radici. Cioè essere liquidi implica non avere radici. I tedeschi hanno colto il messaggio del libro. Ciò è molto importante oggi. Andare alle radici. Il che non è ideologia conservatrice, no. Prendere le radici normali, le radici della tua casa, le radici della tua patria, della tua città, della tua storia, del tuo popolo, di mille cose. Ma le tue radici.

I nostri programmi servono. Tutto ciò che fa scuola, diciamo, aiuta costruendo, i giovani che costruiscono.

R. – Aiuta soprattutto il dialogo. E i giovani hanno buona volontà, i giovani non sono corrotti. Sono indeboliti. Per la mancanza di radici. D’altra parte, c’è un diritto di cui nessuno parla. Il diritto degli anziani. Il diritto degli anziani è sognare! E dire che la mia vita dà frutto, e la dono nel dialogo; allora gli anziani si rinfrancano e non stanno chiusi in un istituto geriatrico senza sapere che cosa fare. Ho fatto l’esperienza di portare dei giovani in un istituto geriatrico. Ci venivano controvoglia. A suonare la chitarra. E poi non volevano più andare via. Perché iniziavano a cantare e l’anziano chiedeva: conosci questa o quella canzone? E gli anziani cominciavano a sognare. Questo incontro oggi è necessario. Anzi direi che è urgente. È urgente affinché i giovani si rafforzino.

Papa Francesco, parlando di violenza c’è un tema al quale mi sto dedicando molto, ossia quello della violenza contro le donne, dei femminicidi. Questa catenina me l’ha data una donna il cui marito è stato ucciso di fronte a lei che era incinta. Questa è una maglietta che mi hanno chiesto di consegnarle. È di una donna che hanno ucciso di fronte al figlio. Il caso contrario. E mi hanno chiesto di consegnarla a lei perché la tenga e pensi a tutte queste donne vittime della violenza, in Messico e nel mondo. Si chiamava Rocío.

R. – Rocío, qui c’è una vita spezzata, una storia conclusa dalla violenza, dall’ingiustizia, dal dolore.

Sa che cosa succede? Che si parla di statistiche, ma questa si chiama Rocío, questa si chiama Grecia, questa si chiama Miroslava, insomma sono nomi. Sono nomi. Sono nomi di persone in carne e ossa. E non si capisce perché sta nascendo questa violenza di genere contro la donna, ogni giorno, in Italia, in Spagna, in tutto il mondo. In Messico. Non sono statistiche, sono donne. Qual è secondo lei il motivo di questo odio verso la donna che porta a tanti femminicidi?

R. – Non saprei dare una spiegazione sociologica oggi. Ma oserei dire che la donna sta ancora in secondo piano. In un viaggio aereo vi ho raccontato come sono iniziati i gioielli delle donne. Vi ricordate? Ebbene, da quell’epoca preistorica, che sia vero o meno, lo vedremo, la donna sta lì. E questo nell’immaginario collettivo. Se magari la donna ottiene un posto importante, di grande influenza, allora veniamo a sapere i casi di donne geniali. Ma nell’immaginario collettivo si dice: guarda, c’è riuscita una donna! È riuscita ad avere un premio Nobel! Incredibile. Guardi il genio letterario come si esprime in queste cose. E la donna in secondo piano. E dal secondo piano a essere oggetto di schiavitù basta poco. Basta andare alla stazione Termini, per le strade di Roma. E sono donne in Europa, nella colta Roma. Sono donne schiave. Perché questo sono. Ebbene, da qui ad ucciderle… Quando ho visitato un centro di recupero per ragazze nell’Anno della Misericordia, una aveva un’orecchia mozzata, perché non aveva portato abbastanza soldi. Hanno un controllo speciale sui clienti, allora se la ragazza non fa il suo dovere la picchiano o la puniscono come è successo a quella. Donne schiave. Ho appena letto il libro di Nadia Murad, L’ultima ragazza, quando è venuta qui me lo ha regalato in italiano. Se non lo ha letto glielo consiglio. Lì è concentrato, anche se in una cultura speciale, tutto quello che il mondo pensa delle donne. Il mondo senza le donne non funziona. Non perché è la donna a fare i figli, mettiamo da parte la procreazione. Una casa senza una donna non funziona. C’è una parola che sta per uscire dal vocabolario, perché fa paura a tutti: la tenerezza. È patrimonio della donna. Ora, da qui al femminicidio, alla schiavitù, il passo è breve. Qual è l’odio, non lo saprei spiegare. Forse qualche antropologo lo potrà fare meglio. E come si crea quest’odio, uccidere donne è un’avventura? Non lo so spiegare. Ma è evidente che la donna continua a essere in secondo piano e l’espressione di sorpresa quando una donna ha successo lo indica bene.

Lei ha fatto esperienza di tutto questo anche in America Latina. Io ora sto scrivendo un libro che s’intitolerà “Grecia y las otras”, che parla proprio delle donne vittime, in un modo o nell’altro, di violenza. Mi ha colpito il coraggio delle donne messicane e latinoamericane. Fanno tutto loro. Fanno le mamme, e molto spesso sono mamme nonne, che si prendono cura dei figli, portano avanti tutto, perché i mariti, o sono stati uccisi o sono alcolizzati o hanno problemi. Sono delle eroine. Io la vedo così.

R. – Guardi, la donna tende sempre a nascondere la debolezza, a salvare la vita. C’è un’immagine che mi è rimasta particolarmente impressa: la fila delle madri o delle mogli che vedo sempre, quando arrivo a un carcere, in attesa di entrare per vedere i figli o i mariti carcerati. E tutte le umiliazioni che devono sopportare per riuscire a farlo. Stanno in strada. Passano gli autobus, la gente le vede. Ma a loro non importa. Il mio amore è lì dentro, pensano.

Hanno un grande coraggio.

R. – Fantastiche. Fantastiche e lottatrici. Ricordo sempre il caso dell’Uruguay. Sono state le donne più gloriose dell’America perché sono rimaste 8 a 1 dopo quella guerra tanto ingiusta, hanno difeso la patria, la cultura, la fede e la lingua. Senza prostituirsi e continuando a fare figli. Fantastico!

Papa Francesco, dobbiamo cambiare tema ora. È iniziato il sesto anno del suo pontificato, e penso — e credo non sia una novità per lei — che questo sia stato forse il più difficile.

R. – È iniziato a gennaio.

Ci sono stati molti scandali, forse sono stati fatti alcuni errori, ci sono stati silenzi, ci sono stati crescenti attacchi da parte anche di gruppi cattolici e fedeli che non sono d’accordo con la sua presa di posizione su diversi temi. L’hanno addirittura accusata di essere eretico, hanno chiesto la sua rinuncia, insomma, non è mancato nulla. Lei gode di una enorme popolarità tra i media. Non so se è al corrente, ma sa come l’abbiamo chiamato per anni? “Teflón” perché le scivolava tutto. Qualsiasi cosa facesse, anche se forse non tanto corretta, le veniva perdonata dai media, cosa che non abbiamo visto con il suo predecessore, Papa Benedetto, che qualsiasi cosa facesse, aveva tutti contro. Ora mi sembra che questa luna di miele con i media si sia un po’ spenta. E vorrei, se fosse possibile, che mi dicesse se ha percepito questo cambiamento, queste difficoltà. E come le ha vissute?

R. – Tu mi parli dei media. La parola luna di miele mi risulta troppo dolce.

Ma c’è stata, così si diceva, no?

R. – Ricordatevi che la mia prima frase quando sono arrivato alla conferenza stampa sull’aereo è stata: “nella fossa dei leoni”.

Gliel’ho chiesto io se aveva paura di entrare nelle gabbie dei leoni.

R. – Io con i media mi sento a mio agio, credo che solo in una o due occasioni in sei anni ho dovuto, con molto rispetto, interrompere qualcuno che aveva posto male una domanda sulle malattie africane e un’altra, ma non mi ricordo su che cosa. Mi sento a mio agio con i media, veramente. Nella fossa dei leoni, ma a mio agio e rilassato. E in generale le domande sono rispettose. Chiaro che quando i problemi sono più scottanti, può essere più difficile per me rispondere, ma ciò non vuol dire che io mi senta distaccato dai media, no, anzi, sono a mio agio con voi. E vi ringrazio perché avete pazienza. Inoltre provo compassione per voi, nel senso buono della parola. In viaggio, pigiati come sardine. E vi ammiro per questo. Mi sento a mio agio con voi e salutarvi non è un gesto diplomatico, sento dal cuore che vi meritate che uno quantomeno vi saluti e vi chieda come state.

Il che è molto apprezzato.

R. – Mi viene dal cuore. Perciò non ho l’impressione che vi siate allontanati, no. Mi sento a mio agio, anche quando ho dovuto correggere alcune cose a gennaio, ossia all’inizio dello scorso anno, durante il viaggio in Cile. Le cose sono state dette con rispetto. E mi riferisco ai media con cui ha dialogato lei. Perché diranno di tutto. Alcuni mi hanno persino aiutato, alcune domande mi hanno dato da pensare. Soprattutto nel viaggio in Cile mi sono reso conto che l’informazione che avevo non coincideva con quello che avevo visto. E credo che sono state alcune delle domande poste con molta educazione durante il viaggio di ritorno a farmelo capire.

Le stavo proprio per fare una domanda sul viaggio in Cile perché sicuramente di quelli che ricordo mi sembra sia stato il più complesso. Perché, chiaro, lei è arrivato lì e ha compreso che si era sbagliato. Non credo che si sia reso conto subito perché ricordo che nel viaggio di ritorno ha difeso monsignor Barros. Ma deve aver evidentemente visto qualcosa che le ha fatto pensare che le cose non andavano bene.

R. – Sì, è stato alla fine quando ho risposto a quella giornalista, si ricorda? Alla fine. Prima della messa. Allora, di fronte alla reazione ho riflettuto, pensato: qui sta succedendo qualcosa. Il viaggio di ritorno mi ha aiutato abbastanza a capire e quando sono arrivato qui, ho riflettuto, ho pregato, ho chiesto consiglio e ho deciso di mandare un visitatore apostolico, il quale ha portato allo scoperto tutto quello che non sapevo. È stato un aiuto, mi sono sentito aiutato.

Non so che lezione ha imparato da ciò, ma è stato comunque un grande gesto di umiltà da parte sua riconoscere che si era sbagliato, perché non tutti lo fanno. Credo però che in quell’occasione sono risultati abbastanza evidenti tutti i filtri che ci sono. Sembrerebbe normale pensare che tutta l’informazione arrivi sul tavolo Papa, ma abbiamo visto — anche in casi precedenti, come il caso Maciel, il caso Barros, e altri casi in Perú, negli Stati Uniti — che non tutto arriva sul tavolo del Papa. Intendo dire che ci sono filtri, a partire dai nunzi, dai vescovi, e alcuni cardinali. Questo è allora un sintomo di corruzione all’interno della Chiesa. Lo vede così? Come lo vede e come può risolverlo, perché non si ripeta?

R. – Chiaramente bisogna risolverlo e sto compiendo ogni sforzo per risolvere casi simili. Non sempre è corruzione, a volte è stile curiale. Sì, in sostanza c’è una legge di corruzione, ma è uno stile che bisogna aiutare a correggere. Si sta lavorando bene, i miei collaboratori stanno lavorando bene in tal senso. È gente leale, che si muove per questo, ma chiaramente è vero: arriva un’informazione che non risponde alla realtà. Sì, dopo qualcuno dice: “ma avevamo informato, avevamo detto…” Ma la verità è che nei dossier preparati non c’erano queste cose perché la maggior parte delle persone qui non lo sapeva, nessuno dei miei collaboratori, neppure il Segretario di Stato e l’incaricato dei rapporti con gli Stati le sapeva.


Ma il Signore ci aiuta, ha visto, si sta lavorando bene, persino il dialogo con le persone vittime di abusi in Cile prosegue bene. Alcune le ho ricevute qui, si sono rese conto che la Chiesa le ama e che è pronta a mettere un punto finale alla questione, con tutto quel che comporta di sforzo e anche di preghiera. E chiedo al Signore di illuminarmi per non sbagliare nelle nomine.

Ossia il discernimento al momento di scegliere i suoi collaboratori è qualcosa che è sotto gli occhi di tutti. Di fatto possiamo parlare anche di questo, di come lei sceglie i suoi collaboratori, che non sempre hanno dato risultati eccellenti. Parleremo di questo e se vuole possiamo farlo subito. Mi viene in mente il C9, è iniziato come C9 e ora stiamo a 6. C’è il cardinale Pell, c’è il caso del cardinale cileno sempre per occultamento. Insomma, che succede, si giudicano mali i collaboratori, si scelgono male? Li ha scelti male o era poco informato, per cui li ha nominati e poi è risultato che…?

R. – Il cardinale Pell lavorava qui nella Curia e l’ho scelto io perché me lo avevano chiesto. Stava per essere nominato qui già prima, c’era stato qualche indizio, ma c’era anche stato un processo dal quale era uscito pulito. Prima di tutto perché 9. Erano uno per ogni continente e poi uno per il Governatorato, un coordinatore. Ora 6, perché? Perché tre sono andati in pensione, o meglio sono andati via. Quello del Cile, il cardinale Pell e quello del Congo. Stiamo funzionando bene in sei, per cui perché aggiungere altri se sta funzionando bene in questa fase? È così.

Ha detto che sono andati in pensione. O li ha mandati in pensione Papa Francesco?

R. – Il cardinale Pell ovviamente è in carcere ed è stato condannato. È ricorso in appello, ma è stato condannato. Il cardinale Errázuriz non poteva continuare, era ovvio. E il cardinale Monsengwo aveva compiuto 80 anni. Allora è andato via per motivi di età. È rimasto a 75 anni Rodríguez Maradiaga perché è il coordinatore e Bertello, che ha più di 75 anni perché è il governatore. Non posso prescindere dal governatore e dal coordinatore.

Sul coordinatore è stato detto…

R. – Gli dicono di tutto ma non c’è nulla di certo, no, è onesto e mi sono preoccupato di esaminare bene le cose. Si tratta di calunnie.

Del cardinale Maradiaga…

R. – Sì. Perché nessuno ha potuto provare nulla. Può essersi sbagliato in qualcosa, può aver commesso qualche errore, ma non del livello che gli vogliono addossare. Questo è l’importante, perciò lo difendo. E poi ci sono gli altri.

Questo riguardo al C9. Parlando sempre della mancanza d’informazione o del fatto che non arriva tutto, in Argentina, per esempio, i media dicono che avevano informato circa monsignor Zanchetta, che voi qui in Vaticano sapevate. Lei lo ha portato qui, lo ha messo in un posto che ha creato praticamente dal nulla per lui, questo la gente non lo capisce.

R. – No, ma bisogna spiegarlo alla gente.

Per questo mi piacerebbe che lei lo spiegasse.

R. – Vuole che lo spieghi ora? Lo faccio volentieri.

Se lei vuole…

R. – Sì. allora, c’era stata un’accusa e, prima di chiedergli la rinuncia, l’ho fatto venire subito qui con la persona che lo accusava. Un’accusa con telefono.

Immagini…

R. – Sì, ma alla fine si è difeso dicendo che lo avevano hackerato, e si è difeso bene. Allora di fronte all’evidenza e a una buona difesa resta il dubbio, ma in dubio pro reo. Ed è venuto il cardinale di Buenos Aires per essere testimone di tutto. E l’ho continuato a seguire in modo particolare. Certo, aveva un modo di trattare, a detta di alcuni, dispotico, autoritario, una gestione economica delle cose non del tutto chiara, sembra, ma ciò non è stato dimostrato. È indubbio che il clero non si sentiva trattato bene da lui. Si sono lamentati, finché hanno fatto come clero una denuncia alla Nunziatura. Io ho chiamato la Nunziatura e il Nunzio mi ha detto: “Guardi, la questione della denuncia per maltrattamenti è seria”, abuso di potere, potremmo dire. Non l’hanno chiamata così, ma questo era. L’ho fatto venire qui e gli ho chiesto la rinuncia. Bello e chiaro. L’ho mandato in Spagna a fare un test psichiatrico. Alcuni media hanno detto: “Il Papa gli ha regalato una vacanza in Spagna”. Ma è stato lì per fare un test psichiatrico, il risultato del test è stato nella norma, hanno consigliato una terapia una volta al mese. Doveva andare a Madrid e fare ogni mese una terapia di due giorni, per cui non conveniva farlo tornare in Argentina. L’ho tenuto qui perché il test diceva che aveva capacità di diagnosi di gestione, di consulenza. Alcuni lo hanno interpretato qui in Italia come un “parcheggio”.

E l’hanno criticata perché ha detto che qui si era comportato bene e lo ha messo nell’Apsa.

R. – Non è stato così. Economicamente era disordinato, ma non ha gestito male economicamente le opere che ha fatto. Era disordinato ma la visione è buona. Ho iniziato a cercare un successore. Una volta insediato il nuovo vescovo, a dicembre dello scorso anno, ho deciso di avviare l’indagine preliminare delle accuse che gli erano state mosse. Ho designato l’arcivescovo di Tucumán. La Congregazione dei Vescovi mi ha proposto vari nomi. Allora ho chiamato il presidente della Conferenza Episcopale Argentina, l’ho fatto scegliere e ha detto che per quell’incarico la scelta migliore era l’arcivescovo di Tucumán. Chiaro, metà dicembre in Argentina è come metà agosto qui, e poi gennaio e febbraio come luglio, agosto. Ma qualcosa hanno fatto. Circa quindici giorni fa mi è ufficialmente arrivata l’indagine preliminare. L’ho letta, e ho visto che era necessario fare un processo. Allora l’ho passata alla Congregazione per la Dottrina della Fede, stanno facendo il processo. Perché ho raccontato tutto questo? Per dire alla gente impaziente, che dice “non ha fatto nulla”, che il Papa non deve pubblicare ogni giorno quello che sta facendo, ma fin dal primo momento di questo caso, non sono rimasto a guardare. Ci sono casi molto lunghi, che hanno bisogno di più tempo, come questo, e ora spiego il perché. Perché, per un motivo o per l’altro, non avevo gli elementi necessari, ma oggi è in corso un processo nella Congregazione per la Dottrina della Fede. Cioè non mi sono fermato.

Penso che sia stato importante raccontare tutto ciò, non crede?

R. – L’ho raccontato ora. Ma non posso farlo ogni momento, ma non mi sono mai fermato. Adesso, che il processo sta per concludersi, lo lascio nelle loro mani. Di fatto, come vescovo, devo giudicarlo io, ma in questo caso ho detto no. Facciano un processo, emettano una sentenza e io la promulgo.

Lei ovviamente non può sempre spiegare tutto, tutto il giorno, ma tra la gente e la stampa si crea confusione. O la gente non capisce. Mi viene in mente, per esempio, il caso del cardinale Barbarin di Lione. Chiaro, si crea un malessere tra la gente quando ci sono accuse provate. Ma lei dice: “non accetto la rinuncia finché non si conclude il processo perché per me è innocente fino alla fine”.

R. – Presunzione d’innocenza.

Esatto, per lui e per molti altri.

R. – Devo sempre considerarla, perché in un processo aperto vige la presunzione d’innocenza persino per i giudici più anticlericali, per tutti. Ma bisogna spiegare alla gente. In questo caso bisogna spiegare. Invece, in altri casi come quello di McCarrick, dove era evidente, ho tagliato netto prima del processo. Quando si è concluso il processo Mc Carrick un mese fa con la sospensione dallo stato clericale, gli ho tolto il cardinalato e tutto il resto.

La questione di McCarrick mi porta a un’altra questione che volevo affrontare con lei. Lei mi ha consigliato in uno dei suoi ultimi viaggi di leggere “Lettere della tribolazione”: io le ho lette, ho fatto i compiti. Ho incontrato molto spesso la parola silenzio e la spiegazione di come a volte il silenzio sia necessario. Secondo lei, è quasi come un momento di grazia. Ma dire a un giornalista che il silenzio è necessario… Non rida Papa Francesco, è così. Si ricorda quando le hanno detto, 8 mesi fa: c’è una dichiarazione dell’ex nunzio Carlo Maria Viganò che dice che lui stesso le ha detto in un’udienza all’inizio del suo pontificato chi era McCarrick, e lei non ha fatto nulla, ha solo detto: “non risponderò, giudicate voi, risponderò a tempo debito”. Quel silenzio ha pesato molto, perché per la stampa e per molta gente, quando uno tace, è come tra marito e moglie, no? Becchi tuo marito e non ti risponde e dici “qui qualcosa non va”. Allora perché quel silenzio? È giunto il momento di rispondere a quella domanda che le abbiamo fatto in aereo, sono passati più di otto mesi, Papa Francesco.

R. – Sì, quelli che hanno fatto il diritto romano dicono che il silenzio è un modo di parlare. In quel caso ho visto che Viganò non aveva letto tutta la lettera, allora ho pensato che confidavo nell’onestà dei giornalisti e vi ho detto: “Guardate, qui avete tutto, studiate e traete voi le conclusioni”. E questo avete fatto, perché il lavoro l’avete fatto voi, e in questo caso è stato fantastico. Ho fatto molta attenzione a non dire cose che non erano lì ma poi le ha dette, tre o quattro mesi dopo, un giudice di Milano quando lo ha condannato.

La questione della sua famiglia, intende?

R. – Certo. Ho taciuto, perché avrei dovuto gettare fango. Che siano i giornalisti a scoprirlo. E voi l’avete scoperto, avete trovato tutto quel mondo. È stato un silenzio basato sulla fiducia in voi. Non solo, ma vi ho anche detto: “tenete, studiatelo, è tutto”. E il risultato è stato buono, meglio che se mi fossi messo a spiegare, a difendermi. Voi giudicate prove alla mano. C’è un’altra cosa che mi ha sempre colpito: i silenzi di Gesù. Gesù rispondeva sempre, anche ai nemici quando lo provocavano, “si può fare questo, quello”, per vedere se cadeva nella provocazione. E lui in quel caso rispondeva. Ma quando divenne accanimento il Venerdì santo, l’accanimento della gente, tacque. Al punto che lo stesso Pilato disse: “Perché non mi rispondi?”. Ossia, di fronte a un clima di accanimento non si può rispondere. E quella lettera era un accanimento, come voi stessi vi siete resi conti dai risultati. Alcuni di voi hanno persino scritto che era pagata, non so, non mi risulta però.

Ci sono alcuni che continuano a pensare che è vera e che continuano a chiedersi il perché, se lei sapeva o no di McCarrick. Nella stampa c’è di tutto ovviamente.

R. – Di McCarrick non sapevo nulla, naturalmente, nulla. L’ho detto diverse volte, non sapevo nulla, non ne avevo idea. E quando dice che mi ha parlato quel giorno, che è venuto … e io non mi ricordo se mi ha parlato di questo, se è vero o no. Non ne ho idea! Voi sapete che io di McCarrick non sapevo nulla, altrimenti non avrei taciuto. Il motivo del mio silenzio è stato prima di tutto che le prove erano lì, vi ho detto: “Giudicate voi”. È stato davvero un atto di fiducia. E poi, per quello che vi ho detto di Gesù, che nei momenti di accanimento non si può parlare, perché è peggio. Tutto va a sfavore. Il Signore ci ha indicato questo cammino e io lo seguo.

Papa Francesco, prima dell’incontro di febbraio che lei ha convocato, nei media si diceva che era un po’ in gioco il suo pontificato, che era eccessivo, e si parlava del modo in cui il suo pontificato sarebbe passato alla storia su quel tema. Non ci ha ancora parlato dell’impressione che hanno suscitato in lei quei tre giorni. Non lo ha fatto ancora pubblicamente, credo. Ascoltare quelle vittime — le aveva già ascoltate in altre occasioni naturalmente — ma vedere tanti vescovi che arrivavano pensando che non fosse un loro problema, perché quelli dell’Africa e dell’Asia dicevano, non è un mio problema, è un problema dell’Occidente, del mondo anglosassone… Che cosa le è rimasto di quei tre giorni? Lei ha emanato tre nuove leggi.

R. – Mi è rimasto un sentimento di comunione ecclesiale molto grande. Il Papa con i vescovi. Poi mi è rimasta la serietà con cui hanno affrontato la questione, fin dal primo giorno, alcuni il secondo, quando si sono resi conto che era un tema scottante. È stata una cosa seria, molto seria, affrontata bene. E prima ancora mi erano rimaste le risposte e le proposte in quell’elenco che ho dato a tutti voi. Che sono già proposte e sono in corso. E alla fine, mi sono sentito unito a tutto l’episcopato con quel lavoro di lottare contro tutto ciò e porvi fine se possiamo, e risolvere problemi di corruzione di questo tipo.

Lei crede che hanno capito che le vittime devono stare al centro? Io credo che molti di quelli che stavano lì non avevano mai visto le vittime, lei ha chiesto loro d’incontrare prima le vittime. Io credo che molti di loro, prima del suo suggerimento, non le avevano incontrate.

R. – Sì, non so se tutti le hanno incontrate, ma la buona volontà di farlo mi risulta esserci stata. Inoltre delle proposte dell’elenco, che ho accettato tutte, le ultime otto le le ho messe nel discorso conlcusivo che ho fatto. Come si sta procedendo? È già stata pubblicata una serie di decreti, di documenti.

Alla denuncia per esempio di tutti i sacerdoti…

R. – Sì, sono cose che stanno procedendo. La cosa interessante di tutto ciò è che siamo in un processo. La mia politica è aprire processi. La mia politica, il mio modo di essere e di non occupare spazi, “ho ottenuto questo e quest’altro”, no. La vita è processi e apriamo processi in questo caso di guarigione, di cura, di correzione. Allora siamo in un processo buono, che deve essere controllato, ogni sei mesi. Questo c’è nei documenti. Mi ha colpito, ha suscitato in me tristezza quando in un giornale non italiano il titolo di un articolo sulla parte conclusiva dell’incontro, e soprattutto sul mio discorso finale, che forse alcuni non hanno ascoltato bene, era: “Il Papa nel suo discorso ha fatto una panoramica del problema della pedofilia mondiale, ha dato la colpa al diavolo e se ne è lavato le mani”. Era questo il titolo. Chiaro che la percentuale dei sacerdoti coinvolti nella pedofilia fa parte del tutto, una corruzione mondiale nella pedofilia, è terribile, vero? È terribile. Per questo ho voluto che tutti avessero le statistiche dell’Unicef, delle Nazioni Unite, quelle più serie, le statistiche serie. Il che non vuol dire “dato che lo fanno tutti non è così grave”. Anche se a farlo fosse uno solo, è mostruoso, è mostruoso! Il prete deve portare Cristo a un bambino. E con questo lo distrugge, lo seppellisce. È una grande mostruosità, più grave di qualunque altra. E poi, le linee finali. Quel discorso l’ho fatto lentamente e ho pregato chiedendo a Gesù di aiutarmi a dare una linea seria, di parlare come un pastore, non come a conclusione di un congresso. E anche questo è ispiratore.

A molte persone non è piaciuto perché ha detto proprio questo, perché ha riportato tutte quelle statistiche e ha parlato molto del diavolo, come se la colpa fosse del diavolo.

R. – È la verità, figlia mia. Ad aiutarci in questo è il diavolo, che entra in noi. Ho affrontato il problema del diavolo quando ho parlato della pedofilia mondiale, la pedofilia… e mi sono fermato e ho detto: “non si può spiegare perché non ha senso”, usando una definizione di un filosofo francese. Non ha senso. Qui vediamo solo lo spirito del male che induce tutto questo. E dico la verità, non riesco a spiegarmi il problema della pedofilia, senza vedervi lo spirito del male. Sono credente e Gesù ci ha insegnato che il diavolo è così.

Mi ricordo che poco prima dell’incontro, mi sembra nell’udienza generale, lei aveva già detto qualcosa del diavolo, che quelli che criticano la Chiesa o criticano il Papa, o criticano in generale diciamo la Chiesa, sono amici o cugini o parenti del diavolo. Allora la mia domanda è: ha detto qualcosa di simile in un’udienza?

R. – Non mi ricordo del testo, ma no. Non la vedo così, sono stato frainteso.

Se l’è lasciato sfuggire allora…

R. – No, no, bisogna vedere quello che ho detto. Sono incapace di dire una cosa così perché non credo che sia così. Se tu critichi la Chiesa, va bene, la critica fa bene. Quel testo, lo cerchi, perché non è quello che ho detto, c’è un errore, mi è sfuggito qualcosa, ma non ho detto questo. È vero che il diavolo ci tenta tutti, ma tenta anche quanti sono criticati [ride]. Siamo tanto peccatori quanto forse chi ci critica, o magari chi ci critica è un santo. Santa Caterina da Siena criticava i cardinali e a volte bastonava il Papa. Ed era una santa! Eppure non dici che in santa Caterina da Siena c’era il diavolo! Lo cerchi quel testo perché non è vero, c’è un errore d’informazione.

Nel suo ultimo discorso, proprio dopo l’incontro, quando ha parlato della stampa, lì, sì, credo ci fosse una certa allusione alla pressione mediatica. A volte dietro quella pressione mediatica ci sono gruppi di potere. Ma prima, per esempio, alla Curia, a dicembre, aveva ringraziato, per il lavoro svolto, la stampa e le vittime, perché avevano contribuito a scoprire i casi di abusi. Allora, non è molto chiaro come lei vede la stampa.

R. – C’è di tutto, figlia mia, c’è di tutto. È una bella “macedonia”. Ho parlato del giudizio mediatico a quei sacerdoti in Spagna. Il danno che ha recato la stampa spagnola lì. Non tutta la stampa spagnola, un gruppetto di stampa spagnola. E sono stati giudicati innocenti. Chi riscatta quegli uomini ora? Uno ha già chiesto la riduzione allo stato laicale perché è rimasto psicologicamente distrutto.

Io qui attacco i pregiudizi, il giudizio mediatico con forza. L’opinione no, l’opinione aperta no. Ci aiuta tutti. Cito ancora il mio viaggio di ritorno dal Cile, e penso a quei due o tre che mi hanno aiutato, con opinioni rispettose e non con giudizi. Questo mi ha aiutato. La stampa, solo la stampa, il giudizio mediatico credo sia ingiusto. L’opinione è sempre i pro e i contro, ossia l’equilibrio nel giudizio.

Mi permetto un solo riferimento personale, perché c’è una cosa che mi ha colpito un po’, dopo il mio intervento nell’incontro nella sessione delle domande. Avevo parlato della Chiesa come madre, perché sono una madre e ovviamente la vedo così. Allora un vescovo mi ha detto: “bene, ma se la Chiesa è madre, è madre non solo delle vittime, ma anche di quanti hanno commesso abusi e di quanti li hanno coperti”. Non sapevo cosa rispondere Papa Francesco. Ho detto: “Io sono mamma, se un figlio mio si comporta male, una figlia mia, li punisco, anche se sono figli miei, perché devo dare loro l’esempio”.

R. – No. Essere madre è fare quello che lei fa con i suoi figli: li punisce, perché continua a essere madre, non gli dice: “Non sei più mio figlio”. Mi riferisco alle madri dei detenuti, per esempio. Una madre, sì, punisce, tollera, ma continua a essere madre. E la Chiesa deve punire, deve imporre pene serie, su questo siamo tutti d’accordo.

Papa Francesco, fortunatamente non ci sono solo abusi nella vita della Chiesa, ci sono molte cose positive, diciamo, e molti temi. E anche il suo pontificato non lo possiamo ridurre solo a questo tema. C’è molta gente che a volte ha dei dubbi, che rimane perplessa davanti ad alcune sue affermazioni. Per esempio, c’è gente che dice: “mi sembra che al Papa piacciano più quelli lontani dei suoi”.

R. – È un complimento per me! È quello che faceva Gesù, e lo accusavano di questo. E Gesù dice: del medico hanno bisogno i malati, non i sani, quelli che sono lontani. Gesù lo accusavano continuamente: va con i peccatori, mangia con i peccatori, si unisce ai monchi…

Lei preferisce quelli di fuori o quelli di dentro?

R. – Non preferisco, no. Preferisco, no. Ma priorità sì. Priorità sì. Se hai già qualcuno in casa che si prende cura di te, vado a cercare gli altri. Mi assicuro che anche gli altri siano accuditi e vado a cercarne altri ancora. Se un pastore non cura bene quelli di dentro, lo sgrido.

Questo è un altro tema. Molti si lamentano, dicono che lei sgrida molto i suoi. Lo sa? Lo sa che cosa mi ha detto uno? “Sembra il capo dell’opposizione”. Mi ha detto: “ci rimprovera continuamente, a noi vescovi e sacerdoti, e sa cosa? Lui è il buono e noi siamo i cattivi”.

R. – Ebbene, da un lato i giornalisti mi accusano di tollerare, che tollero troppo la corruzione della Chiesa, e dall’altro se li rimprovero, mi dicono: “li rimprovera troppo”. È una cosa bella. Così mi sento pastore. Grazie.

Lo dirò loro.

R. – Sì. In ogni modo questa preferenza per quanti sono lontani Gesù ce l’aveva e glielo hanno rinfacciato. Non trascurava gli altri, io cerco di non trascurare gli altri.

Quello che succede è che a volte si sentono trascurati. Per esempio, lei va in parrocchia, però prima si ferma in un campo rom davanti alla parrocchia, arriva tardi alla parrocchia, forse i parrocchiani non la vedono passare perché si è fermato nel campo rom e dicono: “perché si fermato nel campo rom se i parrocchiani siamo noi?” Si sente di tutto.

R. – Quando vado a una parrocchia, comunque, quello che faccio è tutto programmato. Ossia, se mi fermo in un posto, non è per caso. È in programma che mi fermi lì. In ogni modo questo succede, è una famiglia, la Chiesa è così. È ovvio, Gesù andava sempre a cercare quanti erano lontani, andava a cercare, usciva. È questa la chiave. Non lo faccio sempre e me ne faccio una colpa, a volte mi trovo nel peccato, per averlo trascurato. Ma credo che sia mio dovere e devo farlo.

C’è un altro tema, glielo avranno detto mille volte, quello dei migranti dei rifugiati. C’è gente che dice che lei parla sempre del tema dei migranti, e parla molto di più di questo tema che magari di altri, dei valori che prima si dicevano valori irrinunciabili del cattolicesimo, come la difesa della vita, per dirne uno. Allora, perché sente che è la sua priorità, perché io sento che questo tema forse è una delle sue grandi priorità.

R. – Perché è una priorità oggigiorno nel mondo. Iniziamo a parlare dei migranti allora. È una priorità nel mondo, il mondo migratorio è giunto a un punto tale, oggi, che ho preso nelle mie mani la sezione migranti del Dicastero dello Sviluppo Umano Integrale per darle un significato. Tutti i giorni veniamo a sapere che il Mediterraneo sta diventando sempre più un cimitero, solo per fare un esempio.

Porti chiusi…

R. – È triste, vero? In ogni modo, non ho detto solo questo io. Dei migranti dico, primo, che bisogna avere il cuore per accoglierli. Secondo, che “li accogliamo e poi li lasciamo”, no. Bisogna accompagnare, promuovere e integrare. È un intero processo. E ai governanti dico: vedete fino a che punto potete. Non tutti i paesi possono. E a tal fine è necessario il dialogo e che si mettano d’accordo. Bisogna integrare tutto ciò, non è facile affrontare il problema dei migranti, non è facile. Ora stiamo cercando, attraverso i canali umanitari, di portare alcuni da Lesvos e uno da Moria, non so se di uno o dei due campi, perché è un’emergenza mondiale. Faccio sempre l’esempio della Svezia, che conosco molto ben in quanto dalla dittatura del ’76 in poi in Argentina e in America Latina nella Operación Cóndor, gli svedesi operarono molto bene. È pieno di latinoamericani in Svezia. Li accoglievano tutti, c’era tutta un’organizzazione, dopo due giorni andavano a scuola dove pagavano un tot al giorno, ricevevano una casa provvisoria, poi una volta imparata la lingua, davano loro un lavoro e li integravano. E questo la Svezia lo ha potuto fare fino ai giorni nostri. Ora ha più difficoltà, visti i numeri, ma lo ha detto. Il suo sistema è una meraviglia. Sono rimasto anche molto colpito quando sono stato a Lund. Mi ha accolto il Primo Ministro e dopo, nella cerimonia di commiato, il ministro della Cultura. È una donna giovane, molto attiva. Gli svedesi sono tutti biondi e con occhi chiari, e quella ragazza era un po’ “marroncina”, un po’ “brunetta”, come dicono gli italiani, mora. E, chiaro, era la figlia di una svedese e di un migrante africano. Vede come viene trattato un migrante in Svezia: sua figlia è ministro del paese! È fantastico! Faccio sempre questo esempio. È forse il paese che ha sviluppato di più questo aspetto. Perché io l’ho vissuto sulla mia carne, con quanti fuggivano dall’Argentina diretti in Svezia. Ma bisogna vedere un po’ quello che può fare il paese. Quel che accade è che tra paesi non si dialoga, tra i paesi si mettono frontiere; è chiaro, chi soffre? I più deboli che sono i migranti. Poi c’era un problema molto serio con i rimpatriati. Non so se lei ha visto i filmati clandestini girati quando li ricatturano: le donne e i bambini vengono venduti, gli uomini li tengono come schiavi, li torturano. Quei filmati sono terribili. Se non li ha visti, io li ho e posso passarglieli. Allora dico, attenzione anche con i rimpatri senza sicurezza. Anche per rimpatriare occorre un dialogo con il paese di origine e non semplicemente alzare un muro o chiudere le porte di casa. Perché il Papa si occupa oggi tanto dei migranti e parla tanto dei migranti? Perché è un problema scottante, attuale. Ma il Papa continua a parlare della vita, contro l’aborto ho detto cose molto dure, molto dure. Ripeto tutto quello che ha sempre detto la Chiesa, ossia non ho trascurato il resto. Mi sto giustificando? No, ma non voglio che ci sia una cattiva impressione, neanche in quanti vedranno questo programma. Sull’aborto faccio domande molto chiare: É giusto — questa domanda l’ho già fatta a un altro giornalista in piazza e mi ha risposto la piazza — è giusto eliminare una via umana per risolvere un problema? E la piazza ha gridato: no! Seconda domanda: È giusto assoldare un sicario per risolvere un problema? No. L’aborto non è un problema religioso nel senso che perché sono cattolico non posso abortire. È un problema umano. È un problema di eliminare una vita umana. Punto. E qui mi fermo.

E non si può giustificare in alcun caso

R. – È giusto eliminare una vita umana per risolvere un problema? La risposta la lascio a lei. A quanti mi stanno ascoltando. Ed è tutto molto chiaro. Dire che la Chiesa chiede e non chiede, che permette…, per favore non mettiamo la Chiesa in qualcosa che è pre-Chiesa, pre-cristiano, qualcosa che è puramente umano. Come quel prete tanto buono che a un giovane che gli confessò: “padre, padre, ho ucciso mia madre” rispose: “bene, figlio mio, non lo fare più”. Come se uccidere la madre fosse un problema della Chiesa. È un problema umano.

E con i governi, come si sente? È un aspetto che a volte richiama la nostra attenzione durante i viaggi, perché è impossibile trovare un governo che fa tutto quello che piacerebbe alla Chiesa: che abbia la politica sociale che vuole la Chiesa, che difenda i valori della religione cattolica e umani. Come lei dice, è complicato. A volte ci sono governanti, quelli di sinistra per intenderci, che magari hanno piani sociali che a lei piacciono molto, ma non rispettano i valori cattolici e umani. Al contrario, uomini di destra che attaccano l’aborto ma hanno un programma sociale ingiusto, e si ha come la sensazione che a lei piacciano più i primi che i secondi. È un’impressione sbagliata?

R. – No, non mi piace rispondere “mi piace di più, mi piace di meno”. No, voglio essere onesto in questo. Di fronte a un governante io cerco di dialogare con il meglio che ha. Perché è a partire dal meglio che ha che può fare del bene al suo popolo. E nei discorsi cerco di farlo. A volte nei discorsi dico cose più generali dei problemi del paese e poi nell’incontro privato mi permetto di fare un passetto in più. Ma bisogna riconoscere il bene che c’è in una persona, anche se poi ha pure cose cattive. “Lei ha questo, è bene, continui in questa direzione”. Così mi muovo. E trovo qualcosa di buono in tutti, buona volontà, anche nei non credenti, fanno sempre qualcosa di buono. E questo serve anche per le persone. Cioè, “questa persona mi sta antipatica”. Bene, ma questa persona antipatica, che parlerà persino male di me, ha qualcosa di buono? E se ha questo e quello… Allora penso in ciò che ha di buono e la tormenta si calma. È una cosa che sarebbe bene che tutti facessero. Le ho dato un opuscolo che sto distribuendo nella Curia, perché siamo più propensi a parlare male della gente, ci viene bene.

Ci può dire come si chiama?

R. – “Non sparlare degli altri”, “Non criticate la gente”. Questo è un difetto che abbiamo tutti, vediamo subito il difetto dell’altro, spettegoliamo, spettegoliamo. E questo vale per tutti: governanti, non governati, ragazzi, giovani, uomini, donne, tutti. Dicono che le donne sono più pettegole. Non è vero! Anche gli uomini sono pettegoli.

E qui dentro, abbastanza…

R. – [ride] Perciò credo che ci farebbe bene, quando stiamo per fare un pettegolezzo, pensare: “c’è del buono in questa persona”. Tutti hanno qualcosa di buono. Allora rendo grazie a Dio per questo. E dopo sì, glielo puoi dire in privato, perché si corregga, diglielo. Ma non dirlo agli altri.

Ora passiamo ai ricchi, ai poveri…

R. – Ho già parlato un po’ di questo problema quando ho parlato della migrazione.

Forse c’è un altro tema che attira l’attenzione e che credo sarebbe bene spiegare. È il suo relazionarsi con le persone che vivono situazioni che prima si chiamavano “irregolari”, diciamo così. Le faccio un esempio. Quando lei ha ricevuto a Santa Marta un transessuale spagnolo con il suo compagno e, chiaro, quelle persone sono uscite da Santa Marta dicendo che lei le ha abbracciate, le ha benedette, ha detto che Dio le ama. Poi una donna argentina divorziata l’ha chiamata al telefono e ha poi riferito: «Il Papa ha detto che posso fare la comunione» e, chiaro, i fedeli, in un caso e nell’altro, vanno dai sacerdoti e dicono: «il Papa mi ha detto che va tutto bene e che posso fare la comunione». E i sacerdoti si mettono le mani nei capelli e dicono: «e ora che faccio?», perché la dottrina non è cambiata. Allora, come gestisce lei questa situazione?

R. – A volte la gente per l’entusiasmo di essere ricevuta dice più cose di quelle che ha detto il Papa, non lo dimentichiamo.

È un rischio che lei corre…

R. – Chiaro, un rischio. Ma tutti sono figli di Dio, tutti siamo figli di Dio. Tutti. E io non posso scartare nessuno. Se devo fare attenzione a chi gioca sporco, a chi mi tende un tranello, devo far attenzione. Ma scartare, no. Non posso nemmeno dire a una persona che la sua condotta è in sintonia con quanto la Chiesa vuole, non posso farlo. Ma devo dirle la verità: “sei figlio di Dio e Dio ti ama così, ora, veditela con Dio”. Io non ho diritto di dire a nessuno che non è figlio di Dio perché non sarebbe la verità. E non posso dire a qualcuno che Dio non lo ama perché Dio ama tutti, ha amato persino Giuda. Chiaro, questi sono casi limite. Ciò che ho detto a quella signora, non lo ricordo bene, ma le devo aver detto sicuramente: “guardi, in Amoris laetitia c’è quello che lei deve fare, parli con un sacerdote, e con lui cerchi…”.

Un cammino…

R. – Un cammino, apro un cammino. Ma faccio molta attenzione a dire “lei può fare o meno la comunione” a dodicimila chilometri di distanza, sarebbe un atto d’irresponsabilità. E inoltre sarebbe cadere nella casistica, posso o non posso, cosa che non accetto. È un processo d’integrazione nella Chiesa. Se tutti noi pensassimo che le persone che stanno in situazioni irregolari… non facciamolo, non mi piace.

Sì, è una parola che lei detesta, e anch’io, ma per capirci.

R. – Se ci convincessimo che sono figli di Dio, la cosa cambierebbe abbastanza. Mi hanno fatto una domanda durante il volo — dopo mi sono arrabbiato, mi sono arrabbiato perché un giornale l’ha riportata — sull’integrazione familiare delle persone con orientamento omosessuale. Io ho detto: le persone omosessuali hanno diritto a stare nella famiglia, le persone con un orientamento omosessuale hanno diritto a stare nella famiglia e i genitori hanno diritto a riconoscere quel figlio come omosessuale, quella figlia come omosessuale, non si può scacciare dalla famiglia nessuno né rendergli la vita impossibile. Un’altra cosa che ho detto è: quando si vede qualche segno nei ragazzi che stanno crescendo bisogna mandarli, avrei dovuto dire da un professionista, e invece mi è uscito psichiatra. Titolo di quel giornale: “Il Papa manda gli omosessuali dallo psichiatra”. Non è vero! Mi hanno fatto un’altra volta la stessa domanda e ho ripetuto: sono figli di Dio, hanno diritto a una famiglia, e basta. E ho spiegato: mi sono sbagliato a usare quella parola, ma volevo dire questo. Quando notate qualcosa di strano, no, non di strano, qualcosa che è fuori dal comune, non prendete quella parolina per annullare il contesto. Quello che dice è: ha diritto a una famiglia. E questo non vuol dire approvare gli atti omosessuali, tutt’altro.

Sa che succede, che lei molte volte si stacca dal contesto, è anche un vizio della stampa. Quando lei ha detto nel suo primo viaggio quella famosissima frase: “chi sono io per giudicare”, lei prima aveva detto: “sappiamo già quello che dice il catechismo”. Ciò che succede è che questa prima parte non si ricorda, si ricorda solo: “chi sono io per giudicare”. Allora anche questo ha suscitato molte aspettative nella comunità omosessuale mondiale, perché hanno pensato che lei sarebbe andato avanti.

R. – Sì, ho fatto dichiarazioni come questa della famiglia per andare avanti. La dottrina è la stessa, quella dei divorziati è stata riadattata, in linea però con Amoris laetitia, nel capitolo ottavo, che è recuperare la dottrina di San Tommaso, non la casistica.

È questo il problema che a volte si crea.

R. – Ed è strano, mi hanno raccontato che è stata una persona non credente a difendermi. Ha detto una cosa mai sentita prima, che la frase “veda uno psichiatra” era un lapsus linguae.

Papa Francesco, c’è una cosa che richiama la mia attenzione. Alcuni suoi conoscenti quando viveva in Argentina dicono che lei era conservatore, per usare sempre categorie, diciamo, nella dottrina.

R. – Sono conservatore.

Lei ha fatto tutta una battaglia sui matrimoni con persone dello stesso sesso in Argentina. E poi dicono che è venuto qui, è stato eletto Papa e ora sembra molto più liberale di quanto lo fosse in Argentina. Si riconosce in questa descrizione che fanno alcune persone che l’hanno conosciuta prima, o è stata la grazia dello Spirito Santo che le ha dato di più? [ride]

R. – La grazia dello Spirito Santo esiste, certo. Io ho sempre difeso la dottrina. Ed è curioso, nella legge sul matrimonio omosessuale… è un’incongruenza parlare di matrimonio omosessuale.

Allora non è vero che prima era una cosa e ora un’altra.

R. – No, prima ero una cosa e ora sono un’altra, è vero.

Sì, perché ora è Papa.

R. – No, perché confido nel fatto che sono cresciuto un po’, che mi sono santificato un po’ di più. Si cambia nella vita. Che ho ampliato i criteri, può essere, che vedendo i problemi mondiali ho avuto più coscienza di certe cose di quanta ne avessi prima. No, credo che in tal senso ci sono cambiamenti, sì. Ma, conservatore… sono tutte e due le cose.

Sarebbe tutte e due le cose allora?

R. – E sì, in Argentina andavo nelle villas, in una villa per esempio ho avuto un infarto, e poi mi preoccupavo pure che la catechesi fosse seria. Non so, un poco… un mix.

È molto difficile rinchiudere le persone in categorie.

R. – É vero.

Ma pensando a questa evoluzione che lei dice di aver avuto in questi sei anni, se dovesse dirci le cose migliori che ha fatto in questi sei anni…

R. – Ascoltarvi, credo che per me sia stata una cosa, non dico la migliore, ma una cosa molto bella.

Anche se critichiamo.

R. – Sì.

Non siamo nemici.

R. – No, però se criticate bene, Dio sia benedetto, se criticate male, ve lo dico e chiarisco certe cose. Perché il ruolo della stampa non è solo di criticare, ma anche di costruire, costruire. A volte attraverso la critica, a volte sviluppando una cosa buona, elogiando la presa di una decisione buona, a volte richiamando l’attenzione su qualcosa, senza criticare, ma “con attenzione a questo”. È costruire, costruire. La stampa deve costruire.

Una critica costruttiva, diciamo.

R. – Costruttiva. Quando è critica, ma costruire dopo la critica. Sono anche consapevole di una cosa che vi riguarda: che non sempre siete liberi, purtroppo molti per vivere e tutto il resto dipendono da una linea editoriale e non sempre possono dire tutto quello che vorrebbero dire o che sentono, e in questo vi sono vicino, vi capisco, ma non sempre, che sia chiaro.

Ci sono molti giornalisti che pagano con la vita il loro lavoro in Messico e in moltissimi altri Paesi.

R. – Sì, è vero. È una vita dura e non totalmente libera, è questo il punto.

Qual è la cosa più bella che crede di aver fatto?

R. – La cosa più bella per me è sempre stare con la gente, che vuoi che ti dica. Rinasco quando vado in piazza, quando vado in una parrocchia.

Le carceri…

R. – Carceri, stare con la gente. Sì, sono Papa, sono vescovo, sono stato cardinale, potete togliermi tutto, ma, per favore, non mi togliere l’essere prete.

Che odora di pecora tra l’altro…

R. – Che odora di pecora e che odora di sacrario, tutte e due gli odori. Questo lo vivo, nella mia vocazione, l’essere prete.

Una cosa che pensa di aver fatto male, che non rifarebbe nello stesso modo?

R. – Parliamo degli errori in Cile per esempio. Qualche errore di giudizio in alcune decisioni che poi ho dovuto rettificare, allora ne ho fatti diversi. Alcuni che non conoscete grazie a Dio, altrimenti mi avreste criticato duramente.

Ce lo può raccontare, abbiamo tempo.

R. – Gli errori si fanno sempre. Mi confesso ogni quindici giorni, segno che commetto sbagli.

E sono confessioni lunghe o no?

R. – La curiosità femminile eh? The woman’s touch.

Era per rendere tutto più piacevole.

R. – È già bello.

Papa Francesco, si sente molta polarizzazione, nel mondo in generale, anche nella Chiesa, qui dentro, non in questa sala, ma dentro il Vaticano, ovunque. Non è una prerogativa del Vaticano.

R. – Polarizzare è una tentazione distruttiva.

Ma si percepisce molto forte anche dentro la Chiesa, quei gruppi…

R. – Anche, beh, lei stessa ha detto che alcuni mi accusano di essere eretico…

L’essere eretico, come l’ha presa?

R. – Con senso dell’umorismo, figlia mia.

Non le dà molto peso…

R. – No, no, inoltre prego per loro perché stanno sbagliando e, povera gente, alcuni sono manipolati. E chi erano quelli che firmavano… No, davvero, senso dell’umorismo e direi tenerezza, tenerezza paterna. Ossia, non mi ferisce affatto. Mi feriscono l’ipocrisia e la menzogna, queste sì mi feriscono. Ma un errore così, dove c’è persino gente a cui hanno riempito la testa di… no, per favore, bisogna prendersi cura anche di loro.

Si ha la sensazione che esista un paradosso tra lei, che in tutti i modi gode di grande popolarità — alle persone piacciono molto la sua vicinanza, la sua umanità, il fatto che sia una persona tanto spontanea — e una Chiesa che vive una crisi. Quindi parrebbe esserci una contraddizione tra una Chiesa in crisi e un Papa che gode di popolarità. Come si vive tutto ciò?

R. – Bene, anche il Papa attraversa delle crisi. Parliamo di una di queste. Anch’io. E anche la Chiesa vive momenti di popolarità. Credo che la Chiesa stia cambiando, lo dimostrano i tentativi di riforma che stiamo facendo, che si fanno, che non sono merito mio. Questo è stato chiesto da tutti i cardinali al Papa che stava per essere eletto. Ossia, colui che stava lì, che stava per diventare Papa, ha ascoltato tutto. E nel mio caso non faccio che mettere in moto quello che loro mi hanno chiesto, cioè coscienza di queste crisi della Chiesa. Però le crisi sono anche di crescita; per me è una crisi di crescita, dove bisogna aggiustare certe cose, promuoverne altre e andare avanti, avanti in questo aspetto. Questo non lo vivo come contrapposizione perché ci sono persone più popolari di me nella Chiesa e pastori popolari molto amati dal popolo. E io l’ho visto nella mia patria e altrove. Anche qui in Italia. L’esempio è il nuovo vescovo di Lucca, Giulietti: “Entrerò camminando nella mia diocesi, camminando”. Un po’ di semi-sport, chiaro, la gente ha visto: “questo nuovo pastore non viene in una limousine già tutto ben vestito”. E il popolo si è andato raccogliendo attorno a e c’erano 2300 giovani con lui. Arrivato alla cattedrale, prima di entrare, si mette la sottana, si veste da vescovo e entra con il suo popolo. È fantastico! Questa non è una Chiesa in crisi, è una Chiesa in crescita! Ed è solo l’ultimo esempio che è uscito sui giornali. E ce ne sono tanti, quando vediamo questi uomini e queste donne sepolti in paesi lontani che consumano la loro vita lì. La suorina dei tremila parti che ho incontrato nella Repubblica Centrafricana… questa è la forza. A essere in crisi sono le modalità che formano la Chiesa, che devono cadere. Siamone consapevoli. Lo Stato della Città del Vaticano come forma di governo, la Curia, quello che è, è l’ultima corte europea di una monarchia assoluta. L’ultima. Le altre sono ormai monarchie costituzionali. La corte si diluisce. Qui ci sono ancora strutture di corte, che sono ciò che deve cadere.

Con la sua riforma ha la sensazione che già stiamo per…

R. – Non è la mia riforma…

Sì, ma lei l’ha presieduta…

R. – Però l’hanno richiesta i cardinali. Questa è la realtà.

Lei l’ha dovuta portare avanti…

R. – Sì, l’abbiamo portata avanti come abbiamo potuto. È una riforma che stiamo portando avanti, cercando di dividere gli accordi. La gente ha voglia di riformare. Per esempio il palazzo di Castel Gandolfo, che viene da un imperatore romano, restaurato nel Rinascimento, oggi non è più un palazzo pontificio, oggi è un museo, è tutto un museo. E quindi il prossimo Papa se vorrà andare a passare l’estate lì, e ne ha diritto, ci sono due palazzi, può andare in uno di questi, è tenuto bene. Però questo è un museo. Si cambia… La corte si trasferiva tutta a Castel Gandolfo perché sono abitudini, costumi antichi che si possono riformare. Il Papa deve andare in vacanza, ovviamente! Ebbene, Giovanni Paolo II andava a sciare. Benedetto andava a camminare in montagna… è giusto. Il Papa è una persona, una persona umana. Ma lo schema di corte deve sparire. E questo lo hanno chiesto tutti i cardinali, ebbene, la maggior parte, grazie a Dio.

Ha appena menzionato Giovanni Paolo II. C’era una domanda, che avevo in mente, che ha suscitato certi dubbi. Lei in aereo, in uno dei suoi ultimi viaggi, ha riportato un aneddoto, si ricorda? Tutti hanno capito che si stava riferendo al caso Maciel. Sembra che il cardinale Ratzinger sia andato con i suoi documenti a una riunione, per esporre le accuse contro il fondatore dei Legionari di Cristo, e che sia uscito da lì e abbia detto al suo segretario: “ha vinto l’altro partito”. Alcun giornalisti l’hanno interpretato dicendo che Giovanni Paolo II era a quella riunione e che aveva ostacolato…

R. – No, no. Giovanni Paolo ii non era lì. Era a una riunione dei responsabili della Curia, di diversi dicasteri, per vedere il caso di Maciel. Anche Giovanni Paolo ii a volte è stato ingannato, è certo. Lo è stato nel caso dell’Austria, per esempio, del primate di Vienna, quel monaco benedettino che sembrava in un modo e poi si è scoperchiata la pentola…

Quattro anni fa lei mi ha addirittura detto che le risultava che avevano autorizzato il cardinale Ratzinger a investigare su Maciel, alla fine della sua vita.

R. – Sì, sì. In questo Ratzinger è stato coraggioso. E anche Giovanni Paolo II. Bisogna capire certi atteggiamenti di Giovani Paolo II perché veniva da un mondo chiuso, dalla cortina di ferro, dove ancora vigeva tutto il comunismo.

E c’era una mentalità difensiva. Dobbiamo comprendere bene, nessuno può dubitare della santità di questo uomo e della sua buona volontà. È stato un grande, è stato un grande.

Lei, quando ha detto che se il prossimo Papa vorrà andare a Castel Gandolfo lo potrà fare, mi ha fatto pensare a una cosa. Si ricorda che quattro anni fa mi ha detto: “ho la sensazione che il mio pontificato sarà breve, due, tre, quattro anni”. Siamo già al sesto, fortunatamente intendo.

R. – Ho ancora la stessa sensazione.

Ha ancora questa sensazione?

R. – Sì.

Sono passati già sei anni, non è così breve.

R. – Ma non pensiamo neanche a venti.

Vent’anni forse no, visto che ora ne ha 82, ma magari festeggeremo i cento. Io ho festeggiato i 150 [viaggi papali], mi ha detto che non ero poi così mummia… Potremo poi celebrare il suo compleanno, i suoi cento anni.

R. – Va bene…

Mi ricordo anche che mi ha detto che quello che più le mancava dei tempi in cui non era Papa era uscire di nascosto a mangiare una pizza. Si ricorda? Ci è riuscito?

R. – No. Quello che più mi mancava era girovagare per le strade, e a Roma, invece, uscire di nascosto a mangiare una pizza. No, non l’ho fatto. No, è una cosa a cui devo rinunciare perché a Buenos Aires andavo in metro da una parrocchia all’altra, o camminavo per le strade. A me la strada dice molto, imparo molto in strada.

Non abbiamo parlato ancora dei grandi temi del dialogo interreligioso e della geopolitica, che chiaramente sono una parte molto importante del suo pontificato. E nell’ultimo anno credo che sia stato particolarmente evidente il suo avvicinamento al mondo dell’islam, con momenti molto importanti: il primo viaggio di un Papa negli Emirati, la firma sulla fratellanza umana. Qual è la sua strategia verso l’islam, lo sente come una priorità in questo momento?

R. – Penso di sì. Quando vado nei quartieri qui a Roma, nelle parrocchie alcuni mi dicono “sono musulmano, sono musulmana”, ma mi vengono comunque a salutare, le donne con il velo. Ossia, l’islam è entrato di nuovo in Europa, siamo realisti. L’islam è una realtà che non possiamo ignorare. In alcuni paesi dell’Africa gli islamici e cristiani vivono come amici, sono molto amici. Ci ha raccontato un vescovo che durante il Giubileo nella cattedrale c’era sempre una lunga fila di gente, dalla mattina alla sera. Un vescovo dell’Africa. Alcuni andavano a confessarsi, altri rimanevano a pregare. La maggior parte si fermava davanti all’altare della Vergine. Erano tutti islamici! Lui un giorno ha detto: “ma voi siete musulmani, che venite a fare qui?”. “Vogliamo ottenere il giubileo anche noi”. Andavano all’altare della Vergine. Credo che siamo fratelli, veniamo tutti da Abramo, e su questo punto seguo le linee del Concilio: tendere la mano, a ebrei, islamici, tendere il più possibile la mano. Certo che l’islam è ferito fortemente da gruppi estremisti, da gruppi intransigenti, fondamentalisti. Anche noi cristiani abbiamo gruppi fondamentalisti, piccoli gruppi fondamentalisti, che non sono guerriglieri ovviamente. Ma ci sono. Bisogna aiutarli con la vicinanza, perché mostrino il meglio che hanno, che non è certo la guerriglia.

Firmare con leader moderati. C’è il grande tema dei martiri cristiani. Basti pensare all’Iraq e ultimamente anche allo Sri Lanka.

R. – Sì, bastano piccoli gruppi a fare disastri. Perché con la tecnica dei kamikaze…

E poi c’è la Cina, che è il suo sogno.

R. – Il mio sogno è la Cina. Voglio molto bene ai cinesi.

Vuole andare in Cina?

R. – In Giappone. Con la Cina le relazioni sono molto buone, molto buone. Con l’accordo che c’è stato… L’altro giorno sono venuti da me due vescovi cinesi, uno che veniva dalla Chiesa nascosta e l’altro dalla Chiesa nazionale. Già riconosciuti come fratelli, sono venuti qui a visitarci. È un passo importante questo. Sanno che devono essere buoni patrioti e che devono prendersi cura del gregge cattolico. Con la Cina c’è anche uno scambio culturale impressionante. Abbiamo anche aperto un Padiglione in Vaticano.

È un cammino di avvicinamento…

R. – Sì, e inoltre loro accettano sacerdoti cattolici, esperti in alcune materie, come loro professori universitari. Ossia dal punto di vista culturale ci sono buoni rapporti, ottimi rapporti. In questo momento va bene.

I cattolici cinesi si sono sentiti un po’ messi da parte da questo accordo.

R. – I cattolici in generale no. I cattolici sono felici ora di essere uniti, sono sempre stati uniti loro. Qualche dirigente forse, ed è normale. È successo lo stesso nel caso dell’Ungheria, penso a Mindszenty. Alcuni hanno pensato che si stava negoziando il cardinale Mindszenty, che Paolo VI lo stava negoziando, ma non era così. Con tutta la politica estera dei piccoli passi, è normale che qualcuno si senta fuori, questo è vero, ma è una minoranza. Di fatto la Pasqua l’hanno celebrata tutti insieme, tutti insieme e in tutte le chiese. Quest’anno non ci sono stati problemi.

Ci porta in Cina?

R. – Mi piacerebbe davvero! Per lei sarebbe il viaggio numero cento… gli dia un numero.

Dipende da quanto ci si metterà a farlo…

R. – Facciamo il contrario, lei gli metta il numero e già è cabala.

260… Papa Francesco mi ha già concesso troppo tempo…

R. – Vi ringrazio, vi ringrazio molto. Vorrei concludere parlando a Rocío. Questa donna non ha potuto vedere i suoi figli, non li ha visti crescere, e qui sta la sua maglietta. Vorrei dire a quanti ci stanno seguendo che più che una maglietta è una bandiera, una bandiera della sofferenza di tante donne che danno vita e danno la vita, e che passano senza un nome. Di Rocío conosciamo il nome, anche di Grecia, ma di tante altre no. Passano senza lasciare il nome ma lasciano il seme. Il sangue di Rocío e di tante donne uccise, usate, vendute, sfruttate, credo che debba essere seme di una presa di coscienza di tutto ciò. Vorrei chiedere a quanti ci stanno vedendo di fare per un momento silenzio nel proprio cuore per pensare a Rocío, per darle un volto, per pensare a donne come lei. E se pregate, pregate, se avete desideri, esprimeteli, e che il Signore vi dia la grazia di piangere. Piangere su tutta questa ingiustizia, su tutto questo mondo selvaggio e crudele, dove la cultura sembra essere solo una questione d’enciclopedia. Vorrei cioè concludere con questo ricordo e con la parola Rocío.

Traduzione dallo spagnolo di CATERINA CERULEO – L’Osservatore Romano