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Michela Marzano: un figlio non può essere un desiderio egoistico

MICHELA MARZANO

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Annalisa Teggi - pubblicato il 28/05/19

Dalle colonne de Il Foglio non parla come docente della Sorbona, impegnata a difendere unioni civili, stepchild adoption e utero in affitto; si racconta come donna che fa i conti con il non essere diventata madre.

Molto, moltissimo ci separa. Anzi sulle questioni che reputo più urgenti (vita, eutanasia, famiglia, affettività) siamo proprio su fronti opposti e fatico a rimanere serena seguendo i suoi contributi scritti e televisivi. Michela Marzano è docente di filosofia alla Sorbona e commenta temi sociali e di cronaca su Repubblica e Vanity Fair. La sua militanza politica nelle file del PD si è interrotta quando la legge sulle unioni civili fu decurtata della stepchild adoption a cui lei teneva. È, appunto, solo uno dei tanti temi in cui la distanza di pensiero è abissale: ha scritto un libro per screditare l’esistenza di una teoria gender; non condanna l’utero in affitto e difende l’idea di dono che esprime l’espressione “gestazione per altri”; proprio di questi giorni è la sua dichiarazione sul fatto che interrompere la somministrazione di cibo e acqua a Vincent Lambert sarebbe un gesto pietoso.


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Sarei poco predisposta a confrontarmi con una persona così distante da me, ed è un mio limite senz’altro. Eppure qualche giorno fa, esattamente il 24 maggio, è uscito un suo contributo intimo e struggente su Il Foglio in cui, spogliata del ruolo istituzionale e semplicemente parlando come se stessa, ha condiviso alcune riflessioni sul non essere diventata madre. Non ho potuto non sentirmi vicina a quella voce, e ho pensato a una frase di Chesterton:

Un uomo vede solo piccole cose dall’alto di una montagna, ma le vede grandi dalla valle.

Fuor di metafora, quando una persona scende dal piedistallo dell’ideologia e abita la valle dell’esperienza mette a fuoco tasselli preziosi, che poi – guarda caso – restituiscono grandezza proprio a quei punti dolenti che il puro pensiero teorico vorrebbe ridurre. Ma anche io devo scendere dalla montagna che rimpicciolisce l’altro a «uno che non la pensa come me»; tento, allora, di passeggiare al fianco della voce che, così, a cuore aperto ha messo nero su bianco: «Non sono madre, non lo sarò mai».


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Lì dove fa male

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di Soul Monica Mondo ha chiacchierato con Michela Marzano «mordendo» quello che è un osso (parola che prendo a prestito dal lessico di Montale) irriducibile della sua sensibilità: il valore buono e costruttivo delle crepe, delle ferite, della fragilità. A una grande carriera accademica, si accompagna una vita segnata da molto dolore che porta alla Marzano in dote un’intuizione enorme:

Il punto di forza di ognuno di noi è lì dove fa male.

Le ferite sono il nostro dono più prezioso da dare al mondo, perché sono aperture dolenti senza anestesia. La fragilità ci permette una vista autentica sulle cose della vita, perché ci sbatte a tu per tu con un’impotenza ultima. Non siamo il capo in comando del mondo e neppure del nostro cuore; il puro pensatore a volte si illude del contrario e ha molte frasi con cui tappare le buche dell’umano. L’esperienza, invece, ci dice che in quelle stesse buche ci s’inciampa e si grida di dolore per l’urto. Non sono a mio agio con buona parte del pensiero di Michela Marzano, ma quando parla della sua vita vissuta la sento compagna su una strada comune.


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Mi ritrovo pienamente in un quadro umano fatto di domande più che di teorie, mi ritrovo pienamente nel racconto in cui mi sono imbattuta sul Foglio in cui la Marzano dona al lettore il suo volto di donna che riflette su quel figlio che non è arrivato.

Una mamma che fa la maglia: stereotipo o presenza?

Mamma ha ricominciato a lavorare a maglia. La sera si siede in poltrona, apre un cestino pieno di gomitoli, cerca i ferri, inforca gli occhiali, fissa il modello, conta le maglie, a tratti scuce sbuffando, poi ricomincia, concentrata e attenta, come quando io ero bambina, e il pomeriggio, mentre studiavo o leggevo, mi si sedeva accanto e sferruzzava o cuciva. Lavora spesso fino a tardi. (da Il Foglio)
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Potrebbe essere il ritratto di mia nonna. Potrebbe essere il ritratto di mamme e zie di tutti noi; è senz’altro un’immagine familiare che la Marzano fissa molto bene con le parole, riuscendo a esprimere tutta la premura di chi ha a cuore il nido domestico. Sceglie questo come incipit: una donna che lavora a maglia. E da lì dipana il tema di una maternità mancata. Perché confrontarsi con un’immagine così tradizionale, stereotipata, antica?

Intendiamoci non mi stupisce che l’affetto peschi nel vivo di una memoria vissuta; e tutte le volte che sono rimasta incinta io ho ripreso in mano i ferri. Mi colpisce che una come la Marzano, impegnata teoricamente a interrogarsi e a riscrivere i ruoli del femmile e del maschile, prenda le mosse da una scena così tradizionale. Dalle colonne del Fatto quotidiano scriveva:

E poi c’è il problema di immaginare un legame necessario tra differenze biologico-anatomiche e comportamentali. Un esempio? Le donne hanno un corpo atto alla gestazione, allora sono più portate alla cura rispetto agli uomini. Questa è fallacia argomentativa, perché non è la differenza anatomica che predispone alla cura. In realtà la cura non ha né sesso né genere: possiamo avere donne incapaci nel curare i figli come degli uomini. Smetterla di immaginare determinati comportamenti o attitudini siano legati alle differenze biologiche e genetiche sarebbe già un grosso passo in avanti. (da Il Fatto quotidiano)

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Perché, se dobbiamo liberarci di questi stereotipi che legano la conformazione del corpo alla vocazione dei sessi, cominciare una riflessione sulla maternità da una donna che fa la maglia? Perché nell’ambito delle discussioni teoriche la donna-madre-accogliente è uno stereotipo, ma nella vita vissuta è una presenza. Questa guerra ideologica, che chiama stereotipi le presenze irriducibili della realtà, è un incendio violento che fa tabula rasa dei volti precisi di mamme, zie, nonne. Ma è confortante che, una volta scesa dalla cattedra, una donna intelligente e profonda come la Marzano ritorni con occhi limpidi nel posto in cui si dice che il ruolo femminile sia svilito, l’accudimento domestico.

Dovendo descrivere l’attesa di un figlio – e dovendo introdurre un discorso intimamente sincero su un’attesa mancata – il pensiero emotivo di Michela Marzano si orienta sull’immagine di sua madre che prepara un corredino. Non mi sognerei mai di accusarla di aver ridotto la donna a stereotipo; la ringrazio di averci offerto questa radice familiare che ci accomuna tutti.




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Mica i figli li si fa per sé, no?

Aprire una ferita fa male, eppure porta a una chiarezza di cui solo il dolore è capace. Ne è testimone il cielo che attraversa la tempesta. Con altrettanto disarmante candore la Marzano confessa:

Perché io, di figli, purtroppo non ne ho avuti. Nonostante per anni abbia evitato di parlarne – soprattutto con mamma, arrabbiandomi ogniqualvolta tirasse fuori l’argomento – nel mio caso, infatti, non si è trattato di una scelta deliberata. Anzi. L’anima in pace per questo figlio mai nato non me la sono ancora messa, e talvolta immagino ancora che, prima o poi, un bimbo arriverà, basta aspettare, essere pazienti, ti pare che non divento mamma? (da Il Foglio)
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Grazie, allora, una volta di più: per aver detto chiaro e tondo che questa vocazione alla maternità c’è. Non è una schiavitù imposta alla donna; non è una trappola per impedirle di perseguire successo e carriera. Certo, non deve essere un’imposizione; ma è un dato con cui si confronta onestamente anche chi fa scelte che non conteplano la procreazione. È un dato così profondamente presente che permette anche a una donna che non è madre di essere autorevole nel rispondere alla domanda delle domande: cosa significa avere un figlio?

Il vuoto ferito della Marzano le concede di entrare a gamba tesa sul tema della genitorialità. Abitare con dolore una mancanza significa misurare i passi, guardare bene, non affrettarsi su cose che qualcuno ha il lusso di dare per scontato. È giusto mettere al mondo i figli solo per perseguire un desiderio personale? Che cos’è questa paura di restare soli?

Quando la mamma di mio marito si è ammalata di Alzheimer, negli occhi di Jacques ho visto tutto quello che nessuno potrà mai provare nei miei confronti: quella tenerezza sconfinata che resta, anche quando nulla è più come prima. […] Chi ci sarà accanto a me se un giorno mi dovessi trovare al posto della mamma di mio marito? Mio marito, certo. Ma se lui non ci dovesse più essere o anche lui si ammalasse? Ma forse sono solo un’insopportabile egoista. Mica i figli li si fa per sé, no? (da Il Foglio)



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Già. Perché si fanno i figli? Se non devono essere una risposta al nostro egoismo, allora forse è più onesto dire che li si accoglie e non che «li si fa». È evidente che chi scrive quanto sopra sa che un figlio non deve essere un dono che ci si auto-regala, perché è una persona non un oggetto. Allora, non riesco a conciliare questa sua esperienza di vita con altre sue parole più astratte, che difendono la fecondazione eterologa con un ragionamento davvero esasperato, descrivendola come gesto addirittura più amorevole dell’adozione:

Nell’adozione, c’è sempre la storia di un abbandono. […] Ma quale abbandono ci sarebbe nel caso di chi è nato grazie ad un dono di gameti? La storia parentale, in questo caso, non è forse quella di chi, sterile, desiderava a tal punto avere un figlio che è ricorso a un dono di gameti? (da Michela Marzano)

Una procreazione che si fa meccanica, che a priori stabilisce l’assenza del padre o della madre, che si spinge a separare l’utero dalla madre, che prende gameti di qua e distrugge embrioni di là non è da “insopportabili egoisti”? Quel desiderio così grande di aver un figlio per non degenerare in dittatura egoistica ha bisogno di un abbraccio, che non arriva dal laboratorio.

E lei, signora Marzano, intuisce molto bene una via più ardita e coraggiosa. L’ipotesi della fecondità non è preclusa a chi non è padre o madre biologico; ed è ancora una volta la vita vissuta a suggerire indicazioni preziose: l’accenno al rapporto fecondo coi suoi studenti è un esempio autentico del fatto che lì dove ciascuno è può offrire lo sguardo, la parola, l’abbraccio di una vera madre,

Perché il vuoto che cerco di tenere a bada è sempre lì, e basta un niente affinché si spalanchi di nuovo. Poi cerco di consolarmi – ho imparato, ci ho messo tanti anni, ma adesso ci riesco anche io – e penso ai miei studenti. Certo, non sono figli miei. Ma è a loro che posso trasmettere parte del mio amore, è con loro che posso attraversare i miei vuoti, è attraverso di loro che posso lasciare anch’io una piccola traccia di umanità.

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