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Il buio, che segue a un impatto così forte con una realtà inaccettabile a prima vista, come lo racconti?
Non ho provato rabbia, ma incredulità e disperazione. Uno deve essere pronto a vedere il buio totale di fronte a sé. Ho sentito il senso di disorientamento totale: non mi riconoscevo nella vita che facevo e i miei sogni svanivano, mi sono chiesta da capo chi ero. Sentivo un’estranea al mio posto. Il buio era fare i conti con una malattia come la SLA che, informandosi s’impara presto, non dà scampo a nessuno.

La fine è certa; questo è piombato dentro la nostra vita di una coppia sposata da quattro anni e tutta proiettata dentro l’ipotesi di una lunga vita futura da vivere assieme. Tutti i nostri progetti non potevano più esserci, in primis avere dei figli. L’idea che avrei visto morire mio marito era fonte di angoscia e non potevo condividere questo peso con lui; proprio io che, grazie a quella crisi di coppia iniziale, avevo imparato a condividere tutto con lui. La disperazione aveva la forma di una domanda precisa: come faccio ad alzarmi la mattina, a rimboccarmi le maniche, ad affrontare i problemi che subentreranno? Come faccio a trovare il coraggio di lottare, quando so che questa lotta non mi servirà a nulla perché la morte arriverà? Vivevo tutto nell’ottica della parte finale della malattia. La mattina ritardavo il momento della sveglia perché avevo la sensazione di essere dentro un incubo. Volevo una realtà senza la malattia. Però poi aprendo bene gli occhi facevo i conti con l’evidenza che quella era la mia realtà. È umanissimo provare la disperazione iniziale, l’impotenza e anche quasi il lasciarsi andare. L’idea di lotta che si mette a fuoco all’inizio della malattia è completamente differente da quello che poi s’impara stando dentro la malattia. All’inizio è un’idea di lotta puramente umana e materiale.
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Per deviazione personale io torno sempre a Dante, che per arrivare al Paradiso attraversa l’Inferno fino in fondo. Chi come te l’ha vissuto in prima persona è più attendibile nel dire che non bisogna temere di scendere fino in fondo al dolore …
È un paragone che calza a pennello: si attraversa l’inferno, però ti rendi conto che alla fine dell’inferno ci trovi il paradiso. Il dolore è un luogo che devi attraversare, per forza. Nella disperazione si trova, non so come, un cammino che porta altrove; io che sono cristiana la spiegazione me la do: il Signore non ci abbandona mai e quindi dà la forza di affrontare quello che sembrerebbe impossibile agli occhi umani. Superando quel primo momento di disperazione, si scoprono cose nuove. Ad esempio, io ho scoperto che il futuro non conta più. Vedi in modo più grande il presente e poi un domani circoscritto: le 24 ore successive. Vivere il presente ha significato prendere atto di ciò che via via la malattia ci consentiva di fare e non concentrarsi su ciò che la malattia toglieva a Marco.
Tu parli, infatti, di un miracolo meno vistoso che è accaduto dentro questa quotidianità che inizialmente ti spaventava e da cui istintivamente ti ritraevi. Che volto ha la SLA, una malattia che porta alla paralisi del corpo ma lascia la lucidità della mente?
È disumana. La malattia ha via via tolto sempre di più a mio marito, ma lasciava Marco. Lasciava la sua essenza, il suo provare emozioni forti. Questo dà la forza anche a chi assiste di reagire; e per chi crede questo significa essere certi che c’è Qualcuno che mi vuole bene: non mi ha mandato la malattia per punirmi, né perché io valgo meno di qualcun altro. La malattia arriva perché noi siamo mortali. E semmai possiamo dire che dentro la malattia c’è Qualcuno che non ci lascia soli. Ci sostiene anche se non ce ne accorgiamo. Non ce ne accorgiamo perché siamo angosciati e perché, soprattutto all’inizio, vorremmo un miracolo. Credere in un miracolo dà una speranza, che nutre lo spiraglio di luce in mezzo al buio. Giorno dopo giorno quello spiraglio cresce, diventa più potente della disperazione e dà la forza di combattere anche per anni. All’inizio chiedevo il miracolo della guarigione, poi quello che la malattia si fermasse; più avanti chiedevo di poter procrastinare il più possibile la morte di Marco. Alla fine il miracolo è diventato riuscire a stare ogni giorno vicino a lui, aiutandolo, e il miracolo era vedere un Marco nel cui animo prevaleva, nonostante tutto, la gioia. Nutriva ancora la voglia di vivere, questo è stato il miracolo che si è compiuto appieno.
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E l’assistenza quotidiana com’è?
Stare vicino è difficile, perché io sapevo molte più cose sulla malattia di lui. Forse, dico; magari lui era consapevole. Evitavo di riportare tutto ciò che i medici mi riferivano; mi ero resa conto che a Marco non interessava come sarebbe stato il decorso nel lungo termine. Voleva sapere qual era la sua condizione momento per momento. Di fronte a ogni nuova necessità – come il sondino per nutrirsi, ad esempio – la sua domanda era sempre: mi aiuta a vivere meglio?

Proprio alla luce di questo ti chiedo, senza perifrasi, cosa rispondi a chi parla di “vite inutili” parlando di malati dalla condizione irreversibile?
Negli ultimi anni Marco era completamente immobile, muoveva solo la bocca per sorridere e leggermente gli occhi per darci dei segnali. Ma ti dico che è come se lo vedessi in movimento. Nel fisico si era trasformato completamente: la muscolatura si era assottigliata, l’addome invece si era allargato, aveva il tubicino all’altezza dello stomaco per nutrirsi, un altro al di sotto dell’ombelico per svuotarsi dell’urina, era attaccato alla macchina per respirare. Quel fisico per me era comunque bellissimo, perché ci vedevo l’anima.