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Come fare perché perfino mangiare avvicini a Dio

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padre Carlos Padilla - pubblicato il 08/05/19

Il pericolo è quello di smettere di vivere le cose della terra sentendo che ci allontanano da Dio

L’umanità di Gesù mi commuove. Gli importa della mia vita e delle mie necessità. Gli importa quello che importa a me. Dice il Vangelo:

“Appena scesero a terra, videro là della brace e del pesce messovi su, e del pane. Gesù disse loro: «Portate qua dei pesci che avete preso ora». Simon Pietro allora salì sulla barca e tirò a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci; e benché ce ne fossero tanti, la rete non si strappò. Gesù disse loro: «Venite a fare colazione». E nessuno dei discepoli osava chiedergli: «Chi sei?» Sapendo che era il Signore. Gesù venne, prese il pane e lo diede loro; e così anche il pesce”.

Mi colpisce quella preoccupazione per le cose quotidiane, per le necessità di base. Ad Emmaus cena con i due discepoli e spezza il pane. Sul lago Gesù vuole mangiare con loro. Pescano da tutta la notte. Sono distrutti. Prepara il fuoco per loro. Spezza il pane. Dà loro da mangiare il loro pesce.

Gesù risorto non vive sulle nubi. Continua a stare sulla terra. È umano. È uomo e Dio. Uomo con un corpo glorioso. Ma ha fame. Mangia con i suoi. Spezza il pane con loro. Come nell’Ultima Cena. Il pane che è la sua vita spezzata per amore.

Lo preoccupa la mia vita nelle stesse cose che preoccupano me. Non mi parla solo della vita trascendente. Non mi mostra solo il cielo.

Mi chiede di amare la terra. Di rallegrarmi delle cose più semplici, del cibo e delle bevande. Di non vivere solo di idee. È un amore umano.

La sua vita gloriosa segue gli stessi parametri della sua vita quando era vivo. Mangiava con i suoi discepoli. Condivideva la quotidianità, con le sue paure e le sue preoccupazioni.

Il pericolo che corro è quello di smettere di vivere le cose della terra sentendo che mi allontanano da Dio. È solo una tentazione.

Quando divento Cristo, quando Egli prende possesso della mia vita, in quel momento assume tutto ciò che di umano fa parte di essa.

Diceva padre Josef Kentenich:

“Dio prenderà possesso di tutta la nostra vita interiore, con tutte le nostre capacità. Sarà davvero Cristo a vivere e pensare in noi, non solo in modo astratto, ma riflettendosi nei nostri atteggiamenti e nella nostra vita quotidiana. Guiderà e condurrà il nostro intelletto. Sì, lo spirito di Dio penserà a noi” [1].

Lo Spirito Santo non mi trasformerà in uno Spirito senza carne. Gesù prende possesso di me. Di tutto ciò che è mio. Anche delle mie necessità umane più basiche e istintive. Nulla di ciò che è umano gli è estraneo.

Anche così, Gesù vuole che sogni le cose più alte. Vuole che non mi conformi a ciò che c’è di più umano. Vuole che aspiri al cielo e che permetta allo Spirito di placare la mia sete infinita. Leggevo giorni fa: “I cartelloni pubblicitari sulle nostre strade ci invitano a lottare gli uni contro gli altri, a calpestarci a vicenda nella competizione, per soddisfare i nostri desideri illimitati; il nostro Dio ci offre la soddisfazione di un desiderio infinito, gratuito come un dono. Desideriamo, quindi, in modo più profondo” [2].

Non mi soffermo sulla soddisfazione di miei desideri immediati. Desidero con maggiore profondità. Guardo nel mio cuore e vi vedo necessità che spesso trascuro.

Quello che Gesù mi regala è la pace di sapere che tutto è dono. La soddisfazione dei miei desideri è dono. Che la rete si riempia di pesci è dono di Dio. Imparo il senso della parola “gratuità”. Restano incise dentro di me delle parole che leggevo giorni fa:

“So che da quando ero bambino il mio cuore ha implorato continuamente intimità, e ho sempre vissuto come se dovessi guadagnarmela. Non riuscendo a raggiungere ciò che desideravo, ho tentato con tenacia di provare a me stesso che meritavo l’amore di cui sentivo di aver bisogno per vivere” [3].

Il desiderio di intimità è quello più vero e sacro che ho. Cerco quella intimità con gli uomini. Cerco una casa. Dov’è la brace accesa. E il pesce arrostito. E il pane spezzato.

E uno sguardo complice di misericordia. Lo sguardo degli uomini che mi mostrano Gesù. Lo sguardo di Gesù stesso in altri occhi.

Uno sguardo che mi salva e mi regala uno spazio di intimità intorno a un falò e a un pane spezzato. In comunità, in famiglia. Nella casa in cui posso essere me stesso e riposare.

Lì dove non devo dimostrare nulla. Non mi devo difendere. Non devo lottare per guadagnarmi uno spazio perché ce l’ho senza meritarlo. Come dono sacro che Dio mi fa.

Cerco una casa. Voglio sentirmi a casa. E Gesù costruisce la casa accanto al lago, sulla riva, intorno al fuoco, vicino a quelli che ama. Non c’è nulla da mendicare.

Non ho neanche diritto a quello spazio santo. Tutto è grazia, è dono. Nel quotidiano mi viene donata la grazia di un’intimità che non mi appartiene. È di Dio. Me la dà perché io impari a vivere il cielo sulla terra.

Gesù risorto quel giorno accanto al lago disegna sulla sabbia. Rende realtà una pesca impossibile. E trasforma ciò che c’è di più umano in un momento di profondità. Lì tutti si sentono accettati. Non ci sono rimproveri. Niente lamentele. Nessuna paura. Non c’è rabbia nell’anima. Tutto è pace e riposo intorno al fuoco.

Vorrei essere costruttore di case. Che intorno a me chiunque trovasse la sua casa e il riposo. Vorrei poter stare in casa con coloro che amo e che mi amano. Lì dove sono amato nella mia povertà. Come sono, senza bisogno di guadagnarmi alcun diritto.

[1] Kentenich Reader Tomo 3: Seguir al profeta, Peter Locher, Jonathan Niehaus
[2] Giovanni Cucci SJ, La fuerza que nace de la debilidad
[3] Henri J. M. Nouwen, Esta noche en casa. Más reflexiones sobre la parábola del hijo pródigo

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