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Il Nuovo Testamento attraverso lenti ebraiche

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L'Osservatore Romano - pubblicato il 06/05/19

Leggere le Scritture insieme

di Amy-Jill Levine

Sono un’ebrea che ha trascorso più di mezzo secolo a studiare il Nuovo Testamento. La mia situazione è diversa da quella dei cristiani che insegnano l’Antico Testamento: l’Antico Testamento è parte della Bibbia della Chiesa; il Nuovo Testamento non è una Scrittura della Sinagoga. Né è del tutto paragonabile a quella dei cristiani che studiano fonti ebraiche post-bibliche. Questi testi, sebbene formativi per l’identità ebraica, sono sconosciuti alla maggior parte degli ebrei, proprio come gli scritti dei Padri della Chiesa in genere sono sconosciuti alla maggior parte dei cristiani.

Non solo studio la Scrittura altrui, ma scrivo anche del Signore altrui. Questo è sia un immenso privilegio, sia un’immensa responsabilità. Anche se non rendo culto a Gesù, i suoi insegnamenti mi affascinano come studiosa e mi ispirano personalmente, come ebrea fedele alla mia tradizione.

Per spiegare come faccio e che cosa faccio, devo spiegare perché lo faccio, ovvero perché io, come ebrea, sin dall’infanzia lavoro nella vigna del Nuovo Testamento.

Mentre crescevo in un quartiere portoghese-cattolico agli inizi degli anni Sessanta, in Massachusetts, i miei amici mi portavano in chiesa. Assistere alla messa per me era come assistere alle funzioni in sinagoga: le persone erano sedute sui banchi mentre uomini in vesti lunghe parlavano una lingua — i sacerdoti in latino, i rabbini e i cantori in ebraico — che io non capivo del tutto. Apprezzavo che la messa fosse più corta delle funzioni dello shabbat; pensavo che la Vergine Maria fosse bellissima. Gli amici che mi accompagnavano alla sinagoga apprezzavano che gli ebrei non passassero con il cestino per le offerte durante lo shabbat e anche che servissimo il pranzo dopo la funzione.

I miei genitori mi dicevano che il cristianesimo — che significava la religione cattolica romana — era come l’ebraismo: adoravamo lo stesso Dio, Colui che ha creato i cieli e la terra; ci erano cari gli stessi libri, come la Genesi e Isaia; recitavamo i Salmi. Mi dissero anche che i cristiani seguivano Gesù, un ebreo.

Quando compii sette anni chiesi ai miei genitori se potevo fare la prima comunione. Non sapevo molto del rituale, però sapevo che tutte le mie amiche ricevevano un vestito bianco. Volevo il vestito. Quando i miei genitori rifiutarono, io protestai: «Ma mi avete detto che abbiamo lo stesso Dio e gli stessi Salmi». Le mie proteste cessarono quando mia madre comprò un vestito da sposa per la mia Barbie. Vestivo la Barbie di bianco, mettevo a Ken un collarino di carta e mi esercitavo a far ricevere la comunione a Barbie.

Più tardi, quell’anno, una ragazzina sul pullman della scuola mi disse: «Hai ucciso nostro Signore». «Non è vero», insistevo io. Se uccidi Dio, lo dovresti sapere. «Sì, l’hai fatto», rispose. «L’ha detto il nostro prete». Anche se il Vaticano II era già iniziato, Nostra aetate ancora non era stata pubblicata.

Pensavo che i collarini ecclesiastici soffocassero i sacerdoti che mentivano (la ritengo ancora una buona idea). Domandai: «Il prete è morto?». Deve esserlo, pensavo, se racconta una bugia del genere. «No», mi rispose.

Essendo una bambina razionale, verificai l’affermazione: il sacerdote aveva detto che io avevo ucciso Dio; il collarino non aveva ucciso il prete; dunque il prete diceva la verità. Quando scesi dal pulmino, piangevo. Mia madre mi domandò che cosa fosse successo; io risposi: «Ho ucciso Dio».

Mia madre mi assicurò che il sacerdote aveva torto. Dio non era morto e io non avevo ucciso nessuno. Forse, pensai, il sacerdote aveva fatto un errore di traduzione. Nella scuola ebraica stavo imparando l’ebraico e sapevo che la Torah era scritta in ebraico. Nessuno mi aveva detto che l’Antico Testamento era scritto in greco.

Annunciai ai miei genitori che sarei andata all’ora di catechismo per sistemare la traduzione. Avevo sette anni, e stavo per porre fine all’antisemitismo. I miei genitori, che erano molto saggi, dissero: «Purché ricordi chi sei, va’; è bene conoscere la religione dei nostri vicini».

Andai al catechismo due volte a settimana, dopo la scuola. Probabilmente ero l’unica ragazzina di sette anni che voleva andarci. Gli insegnanti, che mi accolsero volentieri, mi raccontavano storie che assomigliavano a quelle che sentivo in sinagoga: racconti di miracoli e parabole; ammonimenti etici e dibattiti sulle pratiche; un Giuseppe figlio di Giacobbe che fa dei sogni, va in Egitto e ritorna in Israele; un bambino che, come Mosè, sopravvive quando altri bambini vengono uccisi e poi, in seguito, si arrampica su una montagna per trasmettere un insegnamento profondo. Erano i miei racconti, ma era come se venissero suonati con strumenti diversi e ascoltati in una nuova chiave.

Finalmente, da adolescente lessi il Nuovo Testamento. Lì appresi dove il sacerdote aveva trovato quel suo odioso insegnamento. E allo stesso tempo compresi due fatti che hanno caratterizzato la mia vita accademica: primo, siamo noi a scegliere come leggere; secondo, il Nuovo Testamento è storia ebraica.

Sulla scelta di come leggere: il termine tecnico è “ermeneutica”, vocabolo che all’epoca non possedevo. Leggendo il Nuovo Testamento si potrebbe giungere alla conclusione che gli ebrei sono demoniaci e dannati. E tuttavia, i miei insegnanti cattolici non mi odiavano, seppure mi auto-identificavo come ebrea. Scelsero di leggere con gentilezza invece che con crudeltà. Questa accoglienza che, come appresi in seguito, era supportata da numerosi insegnamenti della Chiesa, mi consentì di proseguire i miei studi.

Ci sono anche alcuni passi problematici nelle Scritture che ebrei e cristiani condividono: alcune parti del Deuteronomio e di Giosuèsembrano promuovere il genocidio; Ezechiele ha immagini terribili delle donne. E anche se conoscevo il racconto dell’Esodo sulla schiavitù in Egitto, seguita da bambini annegati, non odiavo gli egiziani. Anzi: sarei uscita con Omar Sharif se ne avessi avuto l’opportunità.

Mi domandai che cosa avesse suggerito la scelta di leggere con gentilezza. Ero influenzata dalla famosa midrash su Dio che piange per i soldati egizi, e dunque dall’insegnamento che tutti, anche i nemici, sono figli di Dio? Non odiavo perché i miei genitori mi avevano insegnato che tutti sono a immagine e somiglianza di Dio? Mi domandai quale midrashim avessero i cristiani per evitare letture anti-ebraiche.

Per quanto riguarda la storia ebraica, l’educazione in sinagoga è eccellente per tutta la storia dell’Hanukkah (la Chiesa ha inserito il libro dei Maccabei nel canone; la Sinagoga non lo ha fatto, ma ha mantenuto la festa), poi salta direttamente ai martiri come Rabbi Akiva e Rabbi Hananiah ben Teradion, all’inizio del secondo secolo dell’era cristiana. Senza il Nuovo Testamento, la storia del mio popolo è incompleta.

A guidare i miei studi sono dunque l’ermeneutica e la storia. Voglio assicurare che le persone che insegnano e predicano la Bibbia non promuovano l’odio. Questo significa correggere gli stereotipi falsi e negativi degli ebrei che hanno alcuni cristiani. Se caratterizziamo male l’ebraismo giudeo, galileo e della diaspora, fraintendiamo anche Gesù e Paolo. La cattiva storia porta a cattiva teologia, e la cattiva teologia fa male a tutti.

Dobbiamo anche sradicare gli stereotipi falsi e negativi del cristianesimo che hanno alcuni ebrei. Occorre lavorare da entrambe le parti.

Come studiosa ebrea del Nuovo Testamento, sono interessata a come i Vangeli descrivono la tradizione ebraica e a come quella tradizione finisce per essere rappresentata dagli interpreti cristiani. Questo studio mi rende un’ebrea migliore: meglio informata sulla storia ebraica e più capace di correggere interpretazioni storicamente inaccurate e pastoralmente poco fedeli.

In primo luogo, i Vangeli sono una fonte straordinaria per la storia delle donne ebree: proprietarie di casa come Marta e Maria; donne con beni propri, come quella che unge Gesù; la parabola della donna che, insieme ad altre donne, celebra la moneta ritrovata; donne nelle sinagoghe, come la donna curva che Gesù guarisce, e le donne nel tempio di Gerusalemme, tra le quali Maria e Anna. L’insegnamento comune secondo il quale Gesù respingeva un ebraismo misogino che opprimeva le donne è sbagliato. Le donne seguivano Gesù non perché erano oppresse dall’ebraismo; lo facevano per il suo messaggio del regno del cielo, le sue guarigioni e gli insegnamenti, la sua nuova famiglia dove tutti sono madre o fratello o sorella.

In secondo luogo, i Vangeli ci ricordano la diversità delle visioni ebraiche del primo secolo, diversità confermata da fonti esterne come lo storico ebreo Giuseppe e il filosofo ebreo Filone, i rotoli del Mar Morto, gli pseudoepigrafici, perfino l’archeologia. In tali fonti troviamo punti di vista differenti su matrimonio e celibato, fato e libero arbitrio, cielo e inferi, risurrezione del corpo e immortalità dell’anima, adeguamento all’impero romano e resistenza contro lo stesso.

In terzo luogo, rispetto profondamente le istruzioni di Gesù su come intendere gli insegnamenti ricevuti da Mosè sul monte Sinai. Gesù non solo segue la Torah, ma ne intensifica gli insegnamenti. In aggiunta al comandamento contro l’assassinio, egli vieta l’ira; in aggiunta al comandamento contro l’adulterio, egli vieta la lussuria. Questi insegnamenti sono ciò che la tradizione rabbinica definisce «costruire una recinzione intorno alla Torah», ovvero proteggerla dalle violazioni.

Vorrei anche interrogarlo circa alcuni suoi insegnamenti: sul separare madri e figlie; dire a un potenziale discepolo di non seppellire il proprio padre e di lasciare che siano i morti a seppellire i morti; interpretare la parabola del servitore infedele; non avere donne tra i dodici. Questo interrogare è tipico degli ebrei.

Anche quando Gesù pronuncia invettive contro altri ebrei, come in Matteo 23 con il suo ritornello «guai a voi, scribi e farisei», a me suona molto ebraico. Sembra di sentire Amos e Geremia; sembra anche di sentire mia madre, che di tanto in tanto si lamentava delle decisioni prese dai capi della nostra sinagoga. Gli ebrei hanno avuto una lunga storia di tochecha, di «rimprovero», basata su Levitico 19, 17: «Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai d’un peccato per lui». Il verso successivo è il famoso «amerai il tuo prossimo come te stesso». Tuttavia, mi sono anche resa conto che quando le parole di Gesù agli altri ebrei vengono estrapolate dal loro contesto storico e poste nel canone della Chiesa dei gentili, le parole agli ebrei diventano parole sugli ebrei, e il discorso profetico può sembrare antisemitismo. Per questo il contesto storico è importante.

In quarto luogo, amo le parabole, e in questo semestre sto tenendo un corso sulle parabole al Biblicum. Gli studenti non devono cercare di smontare 2000 anni di interpretazione (salvo che per le letture antiebraiche). Il corso è volto a cercare di recuperare l’ancora storica delle parabole e la loro provocazione originale, che di solito si perdono nelle interpretazioni allegoriche dei Padri della Chiesa. Le parabole di Gesù accusano e divertono, provocano e intrattengono: questa è la miglior forma di insegnamento, è una forma ebraica e Gesù la applica brillantemente. E per di più, le parabole mi aiutano a trovare nuove intuizioni riguardo alle mie Scritture. Il buon Samaritano attinge al Secondo libro delle Cronache (28); il figliol prodigo mi fa riconsiderare Caino, Ismaele ed Esaù.

In quinto luogo, i racconti di concepimenti miracolosi, della voce di Dio che discende dai cieli e della resurrezione sono di casa nell’ebraismo del primo secolo. In quel contesto, anche il magnifico prologo di Giovanni — «In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio» — è molto ebraico. Piuttosto che considerare gli insegnamenti cristologici come delle intrusioni pagane, noi ebrei dobbiamo riconoscere come questi insegnamenti avevano un senso per alcuni ebrei del i secolo.

Ma quello che aveva un senso per alcuni ebrei del i secolo, non lo ebbe più per gli ebrei di quattro secoli dopo. Le nostre tradizioni si sono allontanate man mano che gli ebrei e i cristiani hanno sviluppato le proprie pratiche e credenze. Dovremmo celebrare sia ciò che abbiamo in comune sia ciò su cui siamo in disaccordo. Non dovremmo sacrificare i particolari delle nostre tradizioni sull’altare della sensibilità interconfessionale. Ci sono questioni dove i cristiani e gli ebrei d’oggi non saranno d’accordo. Va bene. Non raggiungeremo un accordo su tutto fino a quando non verrà (o, se preferite, ritornerà) il Messia. Ma fino ad allora, faremo bene ad ascoltare con le orecchie gli uni degli altri. Con l’apprendimento giunge la comprensione, e con la comprensione il rispetto.

Quando i cristiani leggono la Genesi o Isaia o i Salmi, vedono in quei testi cose che io come ebrea non vedo. Quando io leggo attraverso le lenti rabbiniche, negli stessi testi vedo cose che non vedono i miei amici cristiani. Pertanto, i nostri testi comuni — il Tanakh e l’Antico Testamento (che non sono esattamente uguali) — sono più grandi, più pregni di significato di quanto gli ebrei o i cristiani da soli riescano a scoprire.

Quando io, come ebrea, leggo il Nuovo Testamento, vi trovo parabole che ispirano e provocano; vi trovo ebrei come Gesù e Paolo e Giacomo, che discutono della Torah; vi trovo miracoli che sottolineano l’importanza dell’assistenza sanitaria (vi trovo anche che l’assistenza sanitaria gratuita è un miracolo).

Krister Sendahl, già vescovo luterano della Svezia, ha parlato di «santa invidia»: la capacità di trovare bellezza e ispirazione in un testo o una tradizione diversi dai propri. È ciò che io trovo nel Nuovo Testamento e nella tradizione cattolica. E inoltre, nell’imparare dai miei amici e insegnanti cattolici, divento un’ebrea migliore.

Qui l’originale de L’Osservatore Romano

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