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Se Gesù ha avuto paura, perché non dovrei averne anch’io?

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Catholic Link - pubblicato il 29/04/19
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di Cristian García Zelada

Di recente, dopo 25 anni, mi sono reso conto che la vita non è facile. Durante l’adolescenza mi ripetevo che la vita non era complicata come tanti la dipingevano, che era solo una questione di prospettiva, di prendere ogni problema come viene e affrontarlo con coraggio. Non avevo idea di quello che dicevo, e tuttavia avevo completamente ragione.

Se potessimo affrontare ogni problema con un po’ di prospettiva, se solo potessimo essere sempre coraggiosi, avere fede in ogni momento… ma non è così. Nessun cuore è così forte, così audace. A cosa serve la fiducia in se stessi quando si vede un fratello soffrire e nulla di ciò che si fa sembra aiutarlo? Non importa quanto si è coraggiosi se chi si ha accanto muore di paura e a noi resta solo il dolore dell’impotenza, la paura di quelli che dicono di non averne.

A cosa serve, dall’altro lato, la preparazione se all’improvviso un giorno i propri sensi ingannano, se la percezione fa cadere in errore, se la mente gioca brutti scherzi?

A cosa serve qualsiasi maturità apparente se al momento decisivo né i sensi né i pensieri rispondono come si vorrebbe, se non si possono controllare e allora non si è pronti?

Non si riesce a controllare neanche se stessi.

1. Gesù era pronto per la croce?

No. Anche se ho pensato mille volte di sì, oggi posso assicurare che la risposta è negativa. Perché? Perché era umano come noi, fragile e timoroso come tutti. Nel Getsemani ha sudato sangue, come tanti altri che senza volerlo, già adulti, sudano per la paura di fronte alle prove che si avvicinano.

Il suo corpo è caduto a terra non per posa o per empatia, ma per il peso della croce. Ha controllato tutto questo? È stato Lui a voler cadere con il viso a terra e versare lacrime di sangue, privato di ogni speranza? Oserei dire di no. È stato il suo corpo a farlo cadere, è stata la fragilità della sua mente umana a farlo dubitare; è stata la triste impotenza dell’incertezza a farlo temere, ma in definitiva non è stato qualcosa che potesse controllare. È stata la bellezza di quel mistero che chiamiamo umanità.

2. Siamo condannati alla sofferenza?

Si teme che possa sempre arrivare un problema più grande di fronte al quale non si sa come agire? In definitiva no. Quel Gesù timoroso e sofferente di appena 33 anni era sia uomo che Dio, e come
Lui anche noi, essendo suoi figli, abbiamo qualcosa di quel Dio. Non solo nell’anima, ma anche nel corpo, nel cuore.

La Passione non è finita al Getsemani. Gesù si è alzato. È stato semplicemente un aiuto divino intervenuto per pena nei confronti del Dio sofferenze? No, Dio non ha provato pena per suo Figlio. Nel mistero della Trinità, il Padre ha misericordia del Figlio che soffre, è vero, ma non spezza la fragilità del tempo per intervenire in suo aiuto. Non è un padre iperprotettivo.

Cos’è accaduto allora in quel momento in cui la divinità e l’umanità di Gesù si sono apparentemente scontrate? Se il dolore e il timore offuscavano la sua volontà, che atto ha potuto compiere quel Dio addolorato che portava su di sé già dal Getsemani il peso di tutto il nostro dolore? Sicuramente sarà stato un atto non nato dall’umanità, ma che ha origine nel divino. O forse, invece, può essere l’atto più umano che si possa compiere.

Nel Getsemani, Gesù ha iniziato quello che poi avrebbe sopportato per ore sotto il peso della croce. Non ha rifiutato quel peso. Lo ha abbracciato. Ha legato la sua vita a quel legno, pur sapendo che sarebbe stato lo stesso che qualche ora più tardi gli avrebbe strappato la vita. Gesù ha abbracciato la sua umanità. Che atto umano, e al contempo così semplicemente divino! Non spetta all’uomo abbracciare la sua umanità. È un abbraccio che può arrivargli solo dall’alto, dalla divinità. Solo grazie a Cristo, che attraverso la sua incarnazione ha iniziato il cammino verso la croce, verso l’abbraccio perfetto con l’umanità.

3. Cosa significa per noi abbracciare l’umanità?

Significa imitare Gesù. Abbracciare la paura. Abbracciare la croce. Abbracciare la triste incertezza di non sapere cosa accadrà. Smettere di lottare per convincersi di potere. Avere il coraggio di gridare a Dio “Non posso stare senza di te!”, “Ho paura!” Cosa crediamo che gridasse Gesù da terra? Forse “Padre, affronterò con coraggio quello che verrà?” No. Non dimentichiamo che ha chiesto che se fosse possibile lo allontanasse dalla prova, che non gli facesse bere quel calice. Il suo grido è stato “Papà, non ce la faccio, ho paura”.

Disfattismo? Assolutamente no, perché il “Non ce la faccio” dell’uomo è sempre accompagnato dal “Posso” di Dio. Gridare alla vita che non ce la facciamo non ha senso. Guardare Dio negli occhi e dirgli “Non ce la faccio” appartiene a un ordine di saggezza molto superiore, perché tra le righe dell’apparente sconfitta si nasconde la certezza di riconoscere Dio come tale, di intravedere chi è davvero: “Tu puoi tutto”. “Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà”.

4. Io non posso, non so, ma tu puoi, tu sai tutto

Cosa possiamo dire che implica il fatto di abbracciare l’umanità? Non è altro che il nostro modo migliore di abbracciare la divinità. Riconoscere senza timore i nostri limiti implica il fatto di smettere di confidare nelle nostre capacità, che sono effettivamente limitate e spesso ci deludono. Dobbiamo invece decidere di accogliere le capacità di Dio, che sono perfette e non conoscono limiti, e sono sublimi al punto da poter venire in nostro aiuto.

“La fede supplisca al difetto dei nostri sensi”, direbbe un santo saggio nel Tantum Ergo. E allora, che dire tornando al punto di partenza? Ho solo 25 anni, ma oso rispondere e sbagliare un’altra volta. E poi magari potrò correggermi in seguito… Dirò che in effetti credo che la vita sia davvero facile. L’unico problema è che noi siamo complicati, troppo complicati. Inconsistenti, confusi, disordinati. Mistero che non riusciamo a cogliere, ma mistero che può essere messo nelle mani di chi lo sa gestire. Quando non resta più niente, bisogna solo abbandonarsi a Dio. È quello che mi dice sempre mia madre.

Qui l’articolo originale pubblicato su Catholic Link