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Card. Sarah: «Chi mi oppone al Papa dice più di sé che di me»

ROBERT SARAH

Il cardinal Sarah

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Giovanni Marcotullio - Breviarium - pubblicato il 17/04/19
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In una lunghissima intervista alla testata online francese Atlantico.fr, il prefetto della Congregazione per il Culto Divino risponde a molte domande, la maggior parte delle quali tese ad avere risposte “esplosive”. Risposte che non sono arrivate, o almeno non quali erano attese.

Propongo qui di seguito una lunghissima intervista al cardinal Robert Sarah, pubblicata in due puntate il 7 e il 14 aprile scorsi su Atlantico.fr, un portale d’informazione fondato da Jean-Sébastien Ferjou e Pierre Guyot. Ispirato – così dichiara la Redazione – a un vasto pluralismo, la linea ideologica dell’intervistatore (che è appunto il primo dei due cofondatori) vi apparirà presto chiara: buona parte delle domande, infatti, sembrano altrettante declinazioni del molteplice e caparbio tentativo di strappare al porporato qualche dichiarazione scottante. Migranti, ambiente, populismo (con una particolare insistenza su alcuni nomi evidentemente cari all’intervistatore), ma la lingua di Ferjou batte particolarmente su Papa Francesco.

E questo è valso l’aver ottenuto alcune risposte importanti, dal Cardinale, delle quali anche in Italia non pochi suoi sedicenti estimatori farebbero bene a giovarsi. «Sono soltanto quelli che mi conoscono per modo di dire – spiega il porporato guineano – che si esprimono in questo modo e cercano di pugnalarmi alle spalle».


Prima parte

Jean-Sébastien Ferjou: Eminenza, lei parla della crisi della Chiesa, ne analizza i differenti sintomi, poi parla della crisi dell’Occidente. Lei utilizza due immagini: quella dell’uomo ricco che segue Gesù fino a quando Gesù gli chiede di rinunciare alla sua fortuna – cosa che l’uomo rifiuta perché ha troppi beni. E poi un’altra: «Il mondo moderno ha rinnegato Dio perché non voleva vedere la propria immagine riflessa negli occhi di Gesù. Ma se rifiutatosi di lasciarsi guardare finirà come Gesù nella disperazione. Questo è il segno della crisi contemporanea della fede». L’Occidente non ha più voluto le rinunce al comfort materiale o morale e non ha più lasciato di lasciarsi guardare in questa posa. Lei direbbe che la Chiesa sia in crisi perché è troppo occidentale? O che l’occidente è in crisi perché lo è anche il cristianesimo?

+ Robert card. Sarah: Posso sbagliarmi, ma io non distinguo l’Occidente dalla Chiesa. L’Occidente è cristiano, è stato plasmato dal cristianesimo. La sua cultura, la sua arte, la sua visione dell’uomo sono cristiane. La crisi della Chiesa è al contempo la crisi dell’Occidente. La crisi dell’Occidente è al contempo quella della Chiesa. Logicamente, non possiamo separare le due. Per me, come Africano, l’Occidente è stato creato dal cristianesimo, anche se oggi si rifiutano le radici cristiane dell’Occidente. Ma non si può negare questa cultura, quello che voi siete. La vostra arte, la vostra musica, tutto è cristiano. Le due cose si influenzano. L’Occidente non è un’entità aerea.

J.-S. F.: Tanti preti, al giorno d’oggi, non sono più occidentali…

+R. S.: Certo, ma l’Occidente è il cristianesimo – che sia protestante o cattolico. La cultura, l’arte, il pensiero sono cristiani. Le due crisi sono contemporanee e correlate. Perché la Chiesa è lei: è i preti come anche i laici.

J.-S. F.: Ci sono anche numerosi credenti cinesi, sudamericani o africani…

+R. S.: Sì, ma se noi siamo cristiani altrove che in Europa, nel mondo, è perché l’Occidente ci ha portato il cristianesimo. La missione dell’Occidente, per me, non è frutto del caso. Dio l’ha voluta così. Siete voi che avete inviato missionari dappertutto. Non si può quindi separarvi dalla Chiesa. La crisi dell’Occidente è dunque contemporanea alla crisi della Chiesa. È perché la Chiesa è collassata che l’Occidente è collassato. E viceversa. Chi dà testimonianza dell’Evangelo in politica? Non tocca al prete, ma ai laici. Chi testimonia l’Evangelo nell’economia? Non tocca al prete ma ai laici.

J.-S. F.: A proposito di questo, lei trova che i cattolici francesi – forse per una cattiva comprensione della laicità – abbiano rinunciato alla parte di testimonianza di cui dovrebbero essere forieri, mascherando la loro identità cattolica per non urtare gli altri?

+R. S.: La laicità alla francese è una perfetta contraddizione: voi siete essenzialmente plasmati dalla Chiesa. Non potete dire “sono laico in società e cristiano in Chiesa”, è ridicolo. Un uomo non può essere diviso: egli è uno da ogni punto di vista, in tutte le circostanze. Un francese in Chiesa è anche un francese in politica. È quindi incoerente immaginare il contrario. La fede è una realtà intima, ma dev’essere pure vissuta in famiglia e nella società in senso lato.

J.-S. F.: Lei pensa che i vescovi francesi si siano ritirati troppo dal dibattito pubblico?

+R. S.: Non sta a loro partecipare alla politica in quanto tale. Però devono difendere i valori cristiani, i valori della vita, i valori della morale: è loro dovere. Essi devono difendere ciò che Dio dice loro di difendere. Essi devono dire ciò che Dio si aspetta da noi. Tutto quel che sta nei comandamenti – non ucciderai, non ruberai, non commetterai adulterio – essi devono ripeterlo alla gente. Essi devono dire che il matrimonio è un matrimonio tra un uomo e una donna. Essi devono dire che non dev’esserci divorzio, perché nessuno può sposarsi per sfasciare la propria famiglia. Questo vale per i cristiani ma anche per tutta la società.

J.-S. F.: Sta evocando quello che in Francia chiamiamo “Mariage pour tous” o anche le problematiche di filiazione che ne derivano – PMA, GPA. La Chiesa non ha la sua parte di responsabilità nell’impennata delle rivendicazioni sociali, per aver saputo ascoltare e accogliere dei cristiani o dei non cristiani dalle traiettorie di vita meno evidenti? Senza cedere sui suoi insegnamenti, naturalmente, ma non mostrandosi esclusiva.

+R. S.: Io penso che si debba fare una distinzione fra la Chiesa e quelli che la incarnano. Io, quanto a me, posso essere un cattivo prete. Ma guardi che cosa mi ha dato il mio sacerdozio: è Gesù. Egli domanda a tutti la medesima cosa nella medesima maniera. Anche se c’è una défaillance al livello dei preti o dei vescovi, il messaggio di fondo, di per sé, non cambia. Questo è quello che dico alla gente: se io sono fallace, portate su Cristo il vostro sguardo.

Ma sul Mariage pour tous resto persuaso che sia essenziale per la Chiesa difendere l’ordine naturale delle cose, perché è quello voluto da Dio.

J.-S. F.: Lei spiega che gli Occidentali oppongono la propria libertà all’ordine naturale di cui ha appena parlato; che essi fanno entrare la libertà in competizione con la legge naturale, cosa che significa in fin dei conti non comprendere la vera natura della libertà…

+R. S.: Abbiamo perso il senso della libertà. La libertà non è seguire le proprie voglie, i propri istinti, senza esitazioni. La libertà è cercare la verità, cercare il benessere, e non solo quello personale bensì quello di tutti. La libertà non viene a ledere quella dell’altro. Al contrario, la mia libertà mi costringe a stringere relazioni nelle quali io rispetto l’altro. Quando lei guida, in strada, la sua libertà è frenata dal semaforo. Se invece va dritto filato, investe delle persone. Nessuna libertà è totale. Ogni libertà è frenata. E da questo punto di vista la legge naturale non è un impedimento: è la grammatica della nostra natura.

J.-S. F.: L’ecumenismo, il dialogo interreligioso sono valori molto occidentali. Lei dice che li abbiamo abbondantemente trasformati in irenismo, in una specie di sciocchezza. Lei è stato colpito dalla dichiarazione di Papa Francesco che, con il re del Marocco, ha lanciato un appello per la libertà di culto a Gerusalemme, forse dimenticandosi di precisare che bisognerebbe che la libertà di culto fosse rispettata anche nei Paesi arabi – particolarmente nel Golfo? Il papa accetta che i cristiani non facciano proselitismo per dare dei pegni della sua volontà pacifica, ma non reclama la reciprocità dai musulmani coi quale trattiene rapporti.

+R. S.: Lasciamo da parte Francesco. L’ecumenismo che cos’è? Cristo ha voluto che noi fossimo una cosa sola. Ciò non significa che per dialogare vis-à-vis io debba rinunciare a ciò che sono. La libertà non sta nel nascondere la mia fede cattolica, le mie dottrine – quelle che ho ricevuto fin dal mio battesimo – per accordarmi con degli anglicani, dei protestanti. Non è questo. L’ecumenismo è riflettere insieme sulla questione: cos’è che Dio chiede a noialtri credenti?

Altra cosa è il dialogo interreligioso: esso significa trovare terreni d’intesa per non disputare, perché ciascuno rispetti la fede dell’altro. Ma se io credo che la mia fede sia migliore, perché non proporla a chi ha una fede diversa dalla mia? Non gli impongo niente, gli espongo soltanto quanto dice la mia fede, chi è Gesù per me. Se invece nascondo la mia identità e la mia fede, non è più un dialogo e allora ci si imbroglia a vicenda.

J.-S. F.: Lei dice del resto che ai migranti bisogna proporre la nostra fede cristiana, non imporla: la carità dev’essere gratuita, ma bisogna proporre loro la nostra identità…

+R. S.: Se io accolgo qualcuno, gli do il meglio che ho, quanto ho di più bello. Ora, se ai migranti do soltanto un tetto, del lavoro, delle medicine… e nascondo loro ciò che costituisce veramente l’uomo, la sua apertura al trascendente, lo sto menomando. Perché non proporre al migrante la mia fede cristiana? Non glie la impongo, assolutamente!, gli dico soltanto: è un’ottima occasione per la tua salvezza.

Al di là di quel che proponiamo ai migranti, io sono turbato da questa rinuncia dell’Occidente alla propria identità. Non soltanto non sappiamo più spiegare agli altri chi siamo, ma spesso non lo sappiamo più noi stessi.

Io credo che l’Occidente potrà scomparire se dimentica le proprie radici cristiane. I barbari sono già qui, nel suo seno. E gli impongono la loro cultura, gli impongono la loro religione, la loro visione dell’uomo, la loro visione morale – se l’Occidente non ha da opporre loro che un ventre molle e sfuggente.

J.-S. F.: Una simile morte dell’Occidente significherebbe una morte della Chiesa?

+R. S.: Questa morte dell’Occidente potrebbe comportare la morte dell’umanità. L’Occidente ha avuto la rivelazione divina dagli apostoli – Pietro, Paolo. Hanno cambiato l’umanità e l’uomo. Qui a Roma, nell’Antichità, le persone si scannavano e mandavano degli uomini a farsi divorare dai leoni. Non c’era alcun senso dell’uomo.

La Chiesa ha inculcato ai Romani questo senso dell’uomo. E l’Occidente è cambiato. C’era la schiavitù. Molti uomini religiosi hanno detto “questo non è giusto”, e l’Occidente è stato il primo al mondo a rinunciarvi. Se l’Occidente scomparisse, perché scompaiono le sue radici, il mondo cambierebbe terribilmente.

J.-S. F.: Lei scrive che il Signore è senza misericordia verso i tiepidi, più volte torna su quest’idea: si sente che c’è qualcosa che le è caro. Tra gli altri cita Charles Péguy: «C’è qualcosa di peggio che avere cattivi pensieri, ovvero non avere affatto pensieri. C’è qualcosa di peggio che avere un’anima perversa, ovvero avere un’anima abituata». Lei pensa che quanti si definiscono progressisti, difensori della democrazia e del Bene – che sia un Emmanuel Macron in Francia o quelli che si oppongono ai populisti in Italia – esercitino un pensiero coraggioso oppure tiepido, un “pensiero abituato”?

+R. S.: Io credo chiese quelli che dirigono l’Occidente, quelli che vogliono condurlo, lo fanno senza o perfino contro il cristianesimo, allora divengono tiepidi e conducono l’Occidente alla sua rovina. Senza questa radicalità evangelica che cambia il cuore dell’uomo e dunque la politica, l’economia, l’antropologia, essi aprono alla sua scomparsa anche se non è questa la loro intenzione.

Guardi che cosa accade al giorno d’oggi: all’atto costitutivo dell’Unione europea c’erano sei paesi fondatori. Tra questi sei ce ne sono almeno cinque in cui i governanti non sanno che cos’è una famiglia o che cosa è un bambino. In Italia, prima del governo attuale, l’ex Presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, non aveva figli. Macron, Merkel, non hanno figli. Theresa May non ha figli. In Lussemburgo il primo ministro vive con un uomo. Quali che siano le loro intenzioni, queste persone conducono l’Occidente verso un abisso. Essi non sanno cosa sia una vita umana, un figlio che si ha caro perché è la vita in persona.

J.-S. F.: Potrebbero risponderle che neanche gli uomini di Chiesa hanno famiglia…

+R. S.: Non è lo stesso. Noi siamo senza famiglia per una scelta religiosa. Loro sono sposati, vivono in coppia. Non bisogna confondere le cose. Io ho fatto una scelta per imitare qualcuno che mi ha chiamato e che non ha fondato una famiglia. Ma Gesù mi restituisce in cambio il centuplo: tutti gli uomini sono miei genitori, miei fratelli, mie sorelle. Rinunciando a una moglie, il prete riceve il centuplo.

J.-S. F.: Tra le convinzioni moderate – “tiepide”, per riprendere la sua espressione – di Emmanuel Macron o dell’attuale opposizione al governo italiano, e alcune personalità nient’affatto tiepide come Matteo Salvini, Donald Trump o Viktor Orban, che talvolta assumono un’identità cristiana, anche cattolica, pure se il papa disse che Donald Trump non era cristiano, lei che preferisce?

+R. S.: Nella rivelazione, Dio detesta i tiepidi. Nel capitolo 3 dell’Apocalisse, egli dice: «Poiché tu non sei né caldo né freddo, ti vomiterò». Dio detesta la tiepidezza.

J.-S. F.: L’Occidente è il cristianesimo, ma anche la scienza, la tecnologia, la Silicon Valley e i suoi ricercatori votati al transumanismo e alla ricerca dell’immortalità

+R. S.: Ma cosa vogliono queste persone? Vivere fino a 150 anni, 300 anni? Che possono aspettarsene? Umanamente, che fa un uomo a quell’età? Peggio, perché voler vivere così a lungo se è per accontentarsi di godere di beni materiali?

J.-S. F.: Senza spingerci fino al fantasma dell’immortalità, il fatto che su un medesimo pianeta delle persone possano vivere in maniera assai differente – alcuni poveri senza accesso alle cure mediche e altri con degli organi riparati, una vista curata… – potrebbe creare due umanità. Lei teme le scoperte scientifiche del XXI secolo?

+R. S.: Io penso che avere due tipi d’uomini sulla Terra sia irrealizzabile. E anche se fosse, non vedo che gioia potrebbe avere un uomo “invincibile” a vedere altri uomini che muoiono lentamente accanto a lui. Dio non ci ha creati immortali, salvo che nella nostra anima. Fisicamente, tutto ciò che è creato è finito. Tutto questo significa voler essere come Dio. Ed è un’illusione. E anche se si riuscissero a fare tali uomini – invincibili, immortali – su questa Terra, che cosa farebbero di questa immortalità? La nostra felicità è Dio, non la caricatura di Dio.

J.-S. F.: Lei parla di questa Terra. Con le preoccupazioni sull’ambiente e sul clima, “salvare il pianeta” è diventato un grande slogan politico. Pochi invece parlano di salvare l’uomo e l’umanità…

+R. S.: Salvare il pianeta mentre si continuano a uccidere i bambini o si uccidono i vecchi quando la loro debolezza è sgradevole alla vista? Ma allora che cosa si salva? Quando si perde Dio, si perde l’uomo. Siccome Dio non esiste più, allora salviamo la natura. Ma che cos’è la natura senza uomo?

Ho visto un vescovo del Congo, all’ultimo sinodo, che diceva: nella nostra regione eravamo felici, c’erano fiumi, alberi… e sono venuti a cercare non so quale minerale e hanno scavato, e si sono inquinate tutte le risorse idriche. Per bere dell’acqua, nella sua diocesi ormai devono importarla. La gente non ha più acqua potabile. Bisogna salvare i fiumi, certo. Ma non indipendentemente dalle persone che usano quell’acqua.

J.-S. F.: Vale a dire che alcuni ecologisti hanno una teologia negativa, ovvero che il pianeta è diventato il loro Dio?

+R. S.: Effettivamente si è fatto del pianeta un Dio, ma questa è idolatria. E comunque è un Dio che non viene rispettato, perché lo si inquina, lo si sfrutta disordinatamente e a detrimento degli abitanti. Basta guardare quel che accade in America Latina o in Africa. Gli uomini non contano più. Quel che conta è il guadagno. E con questo pretesto si vuol salvare la natura! Ma è farsesco! Finché l’uomo non conosce i suoi limiti, finché non riconosce di non essere Dio, di essere stato creato da qualcuno, di vivere in una natura tanto bene organizzata, non salveremo né gli uomini né la natura. Perché l’uomo non vuole riconoscere di essere stato creato, di avere dei limiti? Eppure quando si guarda alla profondità dell’universo, il movimento delle stelle, si vede bene che non è frutto dell’intelligenza umana. E che neppure è un caso.

J.-S. F.: Nel libro lei dice: la gente preferisce non ricevere un’eredità perché non vuole dovere niente a nessuno…

+R. S.: Esattamente. Vogliono tutto ciò che hanno creato essi stessi. Non c’è più altro che conti. Perché il mondo moderno vuole tanto salvare la natura ma non quella dell’uomo? Eppure la dignità dell’uomo consiste nell’essere fondamentalmente un debitore e un erede.

Seconda parte

J.-S. F.: Eminenza, nel suo libro lei scrive che il mondo va male e descrive molte crisi: che sia la crisi che riguarda la Chiesa stessa, la crisi del sacerdozio, la crisi della teologia morale, la crisi del celibato, ma anche le crisi dell’Occidente, dell’uomo occidentale… da dove viene questo male che ci corrode?

+R. S.: Quando ascoltiamo le informazioni, abbiamo l’impressione che il male e gli scandali inondino il mondo. Siamo in una situazione che qualificherei quasi di unica nella storia. Certo, il fatto che i media diffondano rapidamente e su grande scala quel che accade fin negli angoli più sperduti del mondo accentua tale percezione. Tuttavia io penso che se si percorre la storia ci si rende conto che quanto oggi viviamo è davvero inedito. Non sono il solo a dirlo. Benedetto XVI, proprio prima della sua elezione al Soglio di Pietro, nel 2005, aveva detto che l’Occidente attraversava una crisi che non si è mai verificata nella storia dell’umanità. Come lei sottolinea nella sua domanda, nelle mie conversazioni con Nicolas Diat passo in rassegna le crisi della Chiesa: si ha l’impressione che essa non abbia più dottrina sicura, che non abbia più un insegnamento morale sicuro. L’insegnamento della Chiesa sembra oggi sfumarsi, divenire incerto e liquido. Crediamo ancora che la Bibbia è rivelata? La nostra attitudine riguardo a Dio è profondamente cambiata. Nella Chiesa, Dio è ancora considerato come una persona che cerca di stringere una relazione intima e personale con ciascuno di noi? Oppure egli non è più che un’idea, un essere assai remoto? Il cuore della nostra fede risiede nell’Incarnazione di Dio, che ci è prossimo. Possiamo vederlo coi nostri occhi, toccarlo con le nostre mani. C’è Gesù Cristo e c’è il Padre, che nella Santissima Trinità non sono più di uno con lo Spirito Santo. Abbiamo ancora, veramente, questa fede, per la quale tanti martiri hanno dato la vita?

La crisi è presente anche al livello del sacerdozio. Incontestabilmente, ci sono stati nella storia momenti in cui la vita dei preti non era esemplare. La loro vita non sprizzava l’Evangelo né la santità di Dio. E la Chiesa tollerava un vero lassismo sul piano morale. Si sono però sempre levate figure come san Francesco d’Assisi per rimetterla in carreggiata, optando per la radicalità dell’Evangelo, vale a dire l’Evangelo nella sua nudità e nella sua totalità. C’è stato anche il Curato d’Ars: un uomo di preghiera e di penitenza, perché il demonio si accanisce contro il sacerdozio e, spesso, non si può cacciarlo lungi da noi se non con la preghiera, il digiuno e un profondo desiderio e volontà di conversione. Ma quel che accade oggi è incredibile. Siamo obbligati a riconoscere il peccato grave e orribile dei preti pedofili. Un po’ dappertutto, degli uomini che dovevano far crescere i bambini nella dignità e nella loro relazione con Dio, sono adesso accusati di aver corrotto e distrutto non solo il loro annuncio, ma anche quanto di più prezioso c’è nelle loro vite. Altri preti dichiarano con fierezza di essere omosessuali e di voler contrarre un “matrimonio” con il loro amico. Vescovi… cardinali… sono chiamati a processo per abusi sessuali su minori. Mai, penso, ho visto un tale orrore e una tale concentrazione di male nella Chiesa. La Chiesa è segnata da una grande crisi morale, molto dolorosa.

La Chiesa è pure segnata da una grande divisione sul piano dell’insegnamento dottrinale e morale: un vescovo dice una cosa, un altro lo contraddice, una conferenza episcopale dice una cosa, un’altra dice il contrario… La confusione s’installa un po’ dappertutto come forse mai era accaduto prima.

Ormai spesso si sente dire che il celibato dei preti è una realtà inumana, insopportabile, che non può essere assunta e vissuta serenamente. E al contempo il prete pretende di essere configurato a Cristo! Perché il prete non è soltanto un alter Christus, un altro Cristo, ma è soprattutto ipse Christus, vale a dire Cristo stesso. Il prete pronuncia le medesime parole di Gesù quando dice “questo è il mio corpo”, “questo è il mio sangue”.

Egli è configurato e identificato a Cristo. Egli è la presenza fisica e il prolungamento del Mistero di Cristo sulla terra. Prolungare Cristo non è cosa compatibile con la realtà di una vita coniugale. Non si può pretendere di identificarsi con Cristo mentre si pretende di dissociare il celibato dal sacerdozio. Eppure un movimento in tale direzione affanna la Chiesa dall’interno. Il sinodo sull’Amazzonia del prossimo ottobre prevede, pare, di toccare la questione dell’ordinazione sacerdotale di uomini sposati, i viri provati. Io spero vivamente che questo non accada e che l’autorità superiore, il Papa, non autorizzerà mai una tale rottura con la storia recente della Chiesa1.

J.-S. F.: Se il sinodo lo facesse, sarebbe per volontà di far evolvere il senso del sacerdozio o più prosaicamente per mancanza di preti?

+R. S.: Sì, per penuria di preti, dicono. Solo che non siamo mai stati a corto di preti: Gesù Cristo ha ordinato dodici preti… per tutto il mondo! Non mille, duemila, tremila, ma dodici. Già nel VII secolo il Papa San Gregorio Magno diceva:

Il mondo è pieno di preti, ma raramente s’incontra un operaio nella vigna del Signore; accettiamo sì la funzione sacerdotale, ma non svolgiamo il lavoro di questa funzione.

Il vero problema è collocarsi non sul piano del numero, ma della fede, della decisione di assomigliare a Cristo.

I dodici sacerdoti scelti da Gesù hanno sconvolto tutto il mondo con la forza della loro fede, con la potenza irresistibile dell’ardente zelo con cui annunciavano l’Evangelo, e col loro martirio. La questione del numero è quindi per me un argomento che non ha senso. Se ogni diocesi dell’America Latina desse un prete per l’Amazzonia non mancherebbero preti in Amazzonia. Bisogna mettere in atto la solidarietà. Esiste un certo numero di paesi che hanno ancora molti preti; ciascuno di essi potrebbe inviarne uno o due, e tutto andrebbe bene. Il numero troppo esiguo non è che un alibi. In realtà, il demonio si serve di questa rivendicazione per cambiare la Chiesa e i suoi ministri, per ridurli a una dimensione esclusivamente terrestre, vale a dire solamente umana.

La Chiesa soffre della tiepidezza e della mondanità del clero, e dunque di un abbandono su punti essenziali della sua dottrina, dei sacramenti e della morale.

J.-S. F.: Nel libro lei spiega che tali abbandoni sono particolarmente attribuibili al fatto che una parte della Chiesa si è molto data all’attivismo sociale, e che questa l’ha condotta a rinunciare alla radicalità della fede…

+R. S.: Sì. Si è creduto che bisognasse essere dinamici, che bisognasse ad ogni costo essere attivi, realizzare progetti più o meno sofisticati, in breve essere ad immagine della nostra società in perpetuo movimento. Conseguentemente, si è abbandonato Dio, si è abbandonata la preghiera e alcuni preti sono diventati degli “operatori sociali”.

J.-S. F.: Lei insiste molto sulla preghiera…

+R. S.: Certamente! La preghiera è la nostra prima missione. Il prete è fatto per tenersi costantemente davanti a Dio, per essere un ponte fra Dio e gli uomini. La sua funzione primordiale, troppo spesso lo si dimentica, è la preghiera. Tutta la sua vita è una liturgia, un faccia a faccia con Dio. Dopo la preghiera, il prete deve anche parlare di Dio, e quindi annunciare l’Evangelo della Salvezza. Ma prima di poter parlare di Dio, bisogna che egli l’abbia incontrato personalmente nel silenzio della preghiera. Il prete deve fare come Cristo, che per trent’anni non ha detto niente, ma ha unicamente pregato e lavorato con le sue mani a Nazaret. Prima di cominciare la sua missione pubblica, Gesù si è ritirato quaranta giorni e quaranta notti nel deserto per essere unicamente, in un’intimità silenziosa con Dio suo Padre [sic!]. E spessissimo, quando era con i suoi discepoli, abbandonava la folla per andarsene solo, nel deserto, e lì pregava per tutta la notte. Senza la preghiera nulla si può. Si è come un fiume separato dalla propria sorgente. Certo, il fiume può continuare a scorrere abbondantemente e maestosamente, per un certo tempo, ma dopo pochi anni sarà a secco. Così pure un albero dalle proporzioni gigantesche, grande e forte, se gli si tagliano le radici, muore. Lo stesso accade per il prete che non prega più. È come un cadavere vivente. Cammina, corre qua e là, si agita, ma senza portare frutto. È nocivo come un pesce mortale per le anime.

Nella Chiesa, ma anche a livello della società, assistiamo a cambiamenti terribili e, in certi campi, veramente orribili.

J.-S. F.: Ciò che colpisce, nel suo libro, è che lei sembra camminare su una cresta sottile, in continua tensione ma mai in contraddizione: lei denuncia senza ambiguità le derive della Chiesa ma dice pure che non bisogna cedere al demone della divisione, che la divisione nella Chiesa è l’opera del diavolo. Come riuscire a portare una parola forte, che possa risvegliare le coscienze, senza andare a finire in lotte politiche?

+R. S.: Gesù ha detto:

La mia dottrina non è mia, ma di Colui che mi ha inviato. Se qualcuno vuole fare la sua volontà riconoscerà se la mia dottrina è di Dio o se parlo da me stesso2.

Cristo non ha insegnato la propria dottrina, ma quella del Padre. Egli non è venuto per contraddire i farisei o i sommi sacerdoti. Il suo ruolo era quello di proclamare la Parola di Dio, di insegnare la dottrina di suo Padre, nient’altro. Da parte mia, non ho fatto la scelta di combattere o di contraddire qualcuno. Desidero e voglio soltanto dire la parole che ho ricevuto dai missionari, la Parola di Gesù, e trasmettere l’insegnamento della Chiesa. Non desidero affatto battermi oppure oppormi a qualcuno. Comunque lei mi dice che parlando così io creerei delle divisioni… al contrario, voglio contribuire a unificare la Chiesa nella sua fede perché essa viva nell’amore e nella comunione. Insegnare la dottrina, essere fedeli all’insegnamento intangibile della Chiesa, significa contribuire a creare la comunione e l’unità della Chiesa. È triste vedere una famiglia divisa.

J.-S. F.: No, le chiedevo semplicemente come tenere una posizione difficile. Un articolo del Figaro comparso la settimana scorsa rincarava la dose sulle sue parole circa l’immigrazione o l’identità dell’Occidente – parole molto lontane dallo spirito di quelle usate dal Papa durante il suo viaggio in Marocco – per presentarla come un oppositore di Francesco. Questo corrisponde in qualche misura al vero?

+R. S.: Tutti quelli che vogliono oppormi al Papa sprecano il loro tempo e le loro energie. Le loro dichiarazioni sono del vento… o un paravento che maschera la loro propria opposizione al Santo Padre. E qui non parlo specificamente del Figaro. Affermare che io mi opponga al Papa è insieme ingiusto e disonesto. Si ha l’impressione che ai nostri giorni sia proibito riflettere. Perché si vuole proibire a un Africano di riflettere su una questione tanto grave e lo si oppone al Papa? Tutti dovremmo sviscerare e approfondire il tragico fenomeno delle migrazioni, invece di opporci gli uni agli altri. La mia riflessione sulle migrazioni, presente nel mio libro, Le soir approche et déjà le jour baisse, pubblicato il 20 marzo 2019, risale a più di un anno fa. Perché opporla a quella del Papa! Ognuno si esprime con le proprie parole, assumendosi le responsabilità delle proprie dichiarazioni davanti a Dio. Ad ogni modo, mai la Chiesa potrà cooperare a quella nuova forma di schiavismo, di disprezzo della dignità umana. L’Occidente destabilizza Paesi pieni di risorse minerarie, crea caos e guerre con le armi che fabbrica e che spaccia per impadronirsi, con la forza e con la corruzione, delle ricchezze di questi paesi. Si fa finta di fare la carità e di accogliere quelli a cui si sono previamente demoliti il paese e la stabilità. Dio e la storia ci riveleranno un giorno la verità di questo fenomeno tragico e inedito.

J.-S. F.: Il libro si apre sul mistero di Giuda e del tradimento. Alcuni ritengono che Giuda fosse una sorta di male necessario perché il Signore soffrisse e offrisse la propria passione agli uomini. Lei direbbe che oggi alcuni – in seno alla Chiesa – sarebbero delle specie di Giuda: traditori che le causano un gran male ma il cui tradimento potrebbe provocare lo choc che le permette di salvarsi?

+R. S.: Non lo credo. Il solo male necessario, o piuttosto felice, per sant’Agostino, è il peccato originale, che ci ha meritato il Salvatore. Io non so se Giuda fosse necessario. Il Signore ha pronunciato a suo riguardo delle affermazioni estremamente severe:

Il Figlio dell’Uomo se ne va come sta scritto di lui, ma guai a all’uomo dal quale il Figlio dell’Uomo è tradito! Meglio per quell’uomo se non fosse mai nato3.

Quel che ha fatto è orribile perché era stato scelto dal Signore ed era quindi stato testimone di tutto quanto Gesù aveva fatto. Egli l’aveva iniziato alla preghiera, nella solitudine, quello aveva ricevuto il suo insegnamento; egli gli aveva aperto il mistero della salvezza, ma a questo Giuda era refrattario. Ciò che amava era il denaro. E san Giovanni dice: «Poiché teneva la borsa rubava quel che vi veniva messo dentro»· Io penso che Gesù abbia fatto di tutto per salvarlo, anche al Getsemani, nel Giardino degli Ulivi. Il Signore gli tende ancora la mano dicendogli: «Amico, perché sei qui? Quel che sei venuto a fare, fallo».

I sommi sacerdoti avrebbero potuto mettere le mani su Gesù servendosi di quel reparto armato che essi stessi e gli Anziani avevano inviato. Essi avrebbero potuto fare a meno di Giuda: costui non fu un male necessario. Resta il fatto che Gesù fu molto severo a suo riguardo.

È vero che al giorno d’oggi tutti possiamo essere dei Giuda, e anche diventare dei Pietro, colui che tre volte ha tradito Cristo dicendo “non conosco quest’uomo”. Lo siamo quando rinneghiamo Gesù, il suo Evangelo, volendo un evangelo “liquido”, che non esige niente.

J.-S. F.: Lei dice che la Chiesa ha ceduto troppo spesso alla comodità.

+R. S.: Certamente. E la facilità ci allontana da Gesù perché il Figlio dell’Uomo non aveva neppure dove posare il capo. Quelli che l’hanno seguito in modo radicale, come Pietro o Paolo, hanno abbandonato tutto, lasciato il loro mestiere, la loro famiglia… Ma oggi la maggior parte di noi cerca il denaro, il potere, la facilità… Siamo un po’ tutti come Giuda. Quel che c’interessa è la nostra tranquillità e il nostro comfort. Allora nessuno osa più dire niente, si rinuncia alla radicalità della fede, la si mette in ammollo in un linguaggio segnato da ambiguità e confusione, un linguaggio epurato da ogni convinzione e da ogni esigenza, e questo ci evita di essere attaccati, basta che ci lascino tranquilli.

J.-S. F.: A proposito, i vescovi di Francia si riunivano qualche giorno fa. Nel suo libro lei scrive che «né gli abbracci né i ghetti possono risolvere durevolmente, per il cristiano, il problema del mondo moderno». Lei direbbe che alcuni vescovi hanno ceduto all’una o all’altra delle tentazioni che lei evoca – quella di una troppo grande facilità nell’abbracciare il mondo piuttosto che quella del ripiego senza più cercare di dare l’esempio della santità?

+R. S.: Io credo che Gesù abbia sull’argomento una parola molto chiara: «Siete nel mondo, ma non siete del mondo». Quelli che sono legati a Cristo sono costretti ad essere nel mondo, ma non sono nel mondo. Noi dobbiamo mostrare questa separazione e al contempo anche dire che siamo portatori di un messaggio per il mondo, che a questo mondo abbiamo da proporre una luce, al mondo di oggi sprofondato nelle tenebre del peccato e dell’ignoranza. Dobbiamo essere il sale e la luce per illuminare il mondo e dargli il gusto di vivere.

Nell’Antico come nel Nuovo Testamento vediamo che il mondo cammina nelle tenebre. Noi, i cristiani, siamo la “luce del mondo”, siamo il “sale della Terra”. Dunque non possiamo allinearci al mondo. Non dobbiamo abbandonare il mondo ma salvarlo, come ha fatto Gesù. Noi rendiamo omaggio alla verità mostrando che non apparteniamo al mondo. Siamo chiamati a portare la Luce di Dio e dunque a condurre il mondo verso Dio, per non lasciarlo affondare nel suo egoismo, nella sua violenza e nelle sue ambizioni. Anche se il mondo realizza talvolta eccellenti progetti. Comunque, se quanto la persona umana realizza è buono unicamente per questa vita terrena, io non penso che ciò corrisponda interamente alla sua vocazione, che è di vivere pienamente con Dio.

J.-S. F.: Lei dice che questo libro ha vocazione a riconciliare i cristiani e i preti fedeli, quelli che non hanno perduto di vista il messaggio ma hanno potuto essere spiazzati dalle evoluzioni di questi ultimi decenni. Trova che il Papa o altri prelati si siano talvolta discostati dalla loro missione e dalla fedeltà a questa parola vera?

+R. S.: La mia intenzione è veramente di incoraggiare i preti, che spesso sono sovraccarichi di lavoro, soli e isolati. A volte fanno anche fatica a incontrare il loro vescovo, stanno in una parrocchia in cui i praticanti sono poco numerosi e questo può essere scoraggiante. Desidero anche incoraggiare i vescovi, la cui missione oggi è difficile, delicata e richiede molto amore, molta sofferenza e coraggio. Oggi capita che i preti vengano additati per strada e che si dica loro “sei un pedofilo!” oppure “sei un omosessuale!”. La settimana scorsa, un religioso è venuto ad Assisi per salutarmi. Passeggiando in una delle piazze di Roma con altri tre francescani, ho saputo che tutti e tre si sono sentiti tacciare di pedofilia da persone che avevano incrociato i loro passi. Mi ha detto: «Senza rancore né nervosismo, li abbiamo benedetti». Di fatto, non vale la pena arrabbiarsi per questo. E comunque per molti preti è difficile reagire in questo modo, benedicendo quelli che li insultano: o si vergognano o piangono… Ho veramente voluto aiutarli a restare sereni in ogni circostanza.

Hanno caricato Gesù di tutti i peccati del mondo; egli li ha portati sul suo dorso con la croce. Ecco perché dico a tutti i preti che soffrono: anche voi siete chiamati a portare sulla schiena tutti i peccati del mondo, con Gesù ì: non meravigliatevi se alcuni vi accusano di pedofilia, di venalità, di avidità e di sete di potere, di omosessualità (secondo certe recenti inchieste tutti noi, vescovi e preti, saremmo omosessuali – cosa totalmente assurda e diffamatoria!)…

J.-S. F.: Un peccato che si può difficilmente assimilare a un’accusa gratuita non è l’omissione di denuncia dei crimini commessi da alcuni in seno alla Chiesa?

+R. S.: Certamente. Ma sa, anche io sono stato vescovo diocesano. E molto spesso l’ultimo a sapere quel che accade nella sua diocesi è proprio il vescovo. Per molteplici ragioni si esita a dargli informazioni che feriscono o che sembrano presentarsi come denunce.

Prendiamo il caso del Cardinal Barbarin. Io sono certo che le sue azioni non siano state dettate dalla volontà di nascondere qualcosa, ma dall’intento di trovare una soluzione al gravissimo problema posto da un prete i cui atti sono assolutamente inaccettabili. I suoi predecessori avevano certamente, anch’essi, cercato una soluzione. Ma non secondo i criterî di oggi. Mi sembra che non si debba giudicare la maniera in cui si risolvevano ieri problemi di questo genere secondo la nostra mentalità di oggi.

Le statistiche provano che nelle famiglie i casi di pedofilia sono ancora peggiori, e nessuno parla di questo. Semplicemente, s’ignora il dramma. E nessuno lo denuncia… Strano!

Voglio veramente incoraggiare i preti, e anche i laici, che sono ugualmente disorientati, e dire loro che la Chiesa non è in crisi. Sono solto alcuni membri della Chiesa ad essere in crisi. Infatti la Chiesa è santa, senza macchia né ruga, immacolata. Essa è nostra Madre, uscita intatta dalle mani di Dio. Solo alcuni dei suoi membri, talvolta anche gerarchicamente altolocati, deturpano il volto della loro madre, della santa Chiesa.

Dobbiamo continuare ad amare la Chiesa, a comportarci come dei figli di nostra Madre, la santa Chiesa. Bisogna incoraggiare i vescovi, che spesso oggi hanno paura che si venga a scoprire nella loro diocesi qualcosa di gravemente reprensibile e che i media si accaniscano a convincerne la pubblica opinione affermando: «Ecco quello che il vescovo ha deliberatamente voluto nascondervi». E voglio anche dire loro che dietro queste diverse accuse non tutte le rivendicazioni sono giustificate. Alcuni hanno scrupolo della giustizia, ed è vero che i membri della Chiesa che hanno commesso colpe devono rispondere dei loro atti. Altri però strumentalizzano le aberrazioni di un’infima minoranza col solo scopo di mettere a tacere la Chiesa, di costringerla a cambiare assolutamente e totalmente la sua dottrina e il suo insegnamento morale. Ma la dottrina della Chiesa non è la sua propria dottrina, è quella di Dio. E la dottrina di Dio nessuno al mondo può modificarla. Dobbiamo imparare a vivere in questa situazione, cioè che si faccia giustizia e al contempo che in nulla si ceda sulla dottrina della Chiesa. La Parola della Chiesa non è la sua, ma quella di Dio. Ora, nessuno può mettere a tacere Dio.

J.-S. F.: Lei parla di non rinnegarsi, uno dei punti essenziali del suo libro è proprio la descrizione della minaccia che incombe sulla Chiesa con la crisi della dottrina cattolica e la crisi della teologia morale. Lei afferma che quattro colonne sostengono l’unità della Chiesa: la preghiera, la dottrina cattolica, l’amore a Pietro e la mutua carità. Un certo numero di vescovi, specialmente americani, considera che su questo punto papa Francesco tradisca la dottrina cattolica. Al di là delle forze che cercano di far tacere la Chiesa dal di fuori, che dice di questi indebolimenti interni?

+R. S.: Io penso che sia insieme sconveniente, ingiusto e scorretto parlare così del Papa. Tutti noi dobbiamo esaminarci su questo punto. Ad ogni modo, una persona da sola è incapace di snaturare la Chiesa. Ma se noi, tutti, tradiamo, falsifichiamo la Parola di Dio per accomodarci la Chiesa al mondo, allora è molto più grave. Si può comprendere, pur opponendovisi radicalmente, che un vescovo o un cardinale tradisca la Chiesa con le sue parole e il suo comportamento. Comunque gli apostoli erano dodici, e non tutti hanno tradito il Signore o l’hanno abbandonato. Uno solo, Giuda, l’ha tradito, e un altro, Pietro, l’ha abbandonato, avendo detto per tre volte “non conosco quest’uomo”.

San Giovanni restava ai piedi della Croce con la Vergine Maria. Ecco perché ritengo che se – con i loro comportamenti e le loro parole – delle persone gerarchicamente altolocate dimenticano che cos’è la Chiesa – non per questo essa ne risulta indebolita. San Giovanni e la Vergine Maria erano ai piedi della Croce e molte pie donne piangevano non lontano dalla Croce; gli altri avevano paura e si erano nascosti. Bisogna capire che l’anima umana è segnata dalla debolezza e dalla paura. Comunque sappiamo anche che gli Undici, dopo la risurrezione di Gesù, hanno ripreso coraggio. Hanno pubblicamente annunciato il Signore e il suo Evangelo. Che qualcuno indebolisca la dottrina o l’insegnamento della Chiesa dipende dalla sua responsabilità, ma noi dobbiamo sapere che nessuno può snaturare la Chiesa, perché essa è il corpo mistico di Cristo.

J.-S. F.: È questa la ragione per cui lei non vuole lasciarsi rinchiudere nella figura di oppositore di Papa Francesco?

+R. S.: Sono soltanto quelli che mi conoscono per modo di dire che si esprimono in questo modo e cercano di pugnalarmi alle spalle. Di fronte a tali accuse o a tali sospetti insieme ingiusti e fallaci io resto sereno. La mia risposta alla sua domanda è dunque chiara: «Il cardinale Sarah un oppositore del Papa?» No, nel modo più assoluto, e questo vale per il passato, il presente e l’avvenire. Quando io apro la bocca o quando scrivo è per dire la mia fede in Gesù la mia fedeltà all’Evangelo, che non cambia di uno iota, quali che siano le circostanze i periodi e le culture.

J.-S. F.: Lei dice anche che la Chiesa non può essere una società moderna, una democrazia, mentre spesso si sente dire – anche tra cattolici – che la Chiesa dovrebbe essere più aperta, che dovrebbe adattarsi di più al mondo. Che cosa le sembra pericoloso in questo modo di fare?

+R. S.: È pericoloso perché porta a credere che la Chiesa sia una realtà che abbiamo fabbricato noi stessi, e che potremmo oppure dovremmo cambiarla e trasformarla secondo le circostanze, o secondo i voti o l’opinione della maggioranza. Ma la Chiesa non ci appartiene. Essa viene a noi da Dio.

J.-S. F.: I protestanti possono fare ciò che vogliono – è tutta roba loro – ma la Chiesa no?

+R. S.: Il Vangelo secondo San Matteo dice chiaramente: «Tu sei Pietro e su questa pietra io edificherò la mia Chiesa». Noi non costruiamo la Chiesa da noi stessi, e non abbiamo il potere di modificarla. La Chiesa è Gesù che la costruisce. Essa è la roccia che tutti noi siamo, in quanto battezzati, che tutti noi dobbiamo essere. Non c’è posto in essa per la democrazia. Nella Chiesa non è il popolo che decide. È Dio che decide. Essa appartiene a Dio. Inoltre, lei sa bene come funziona la democrazia: troppo spesso, sono di fatto alcune persone potenti finanziariamente e politicamente a dirigere la società. Gli altri sono lasciati a margine, diciamo anche abbandonati, trascinati a loro insaputa verso decisioni oppure orientamenti disastrosi.

J.-S. F.: Lei spiega pure che dietro le buone intenzioni di persone che vorrebbero modernizzare la Chiesa per permettere di salvarla c’è come una fallacia nel ragionamento: come se, di fatto, queste stesse persone dubitassero di Dio, mentre la fede deve consistere in una speranza e in una forma di abbandono. Il suo stesso principio è il darsi tutti interi a Dio, anche nelle circostanze difficili…

+R. S.: Sì ci sono delle persone intelligenti che vogliono modernizzare o perfezionare la Chiesa, perfezionare il cristianesimo, renderlo più moderno. Ma non si può modernizzare o perfezionare la Chiesa. Come ha scritto Charles Péguy:

È un po’ come se si volesse perfezionare il Nord, la direzione del Nord. Oh, il genio che vorrebbe perfezionare il Nord! Il grande genio […] Il Nord è fisso per natura, il cristianesimo è fisso per natura. Così i punti fissi sono stati dati una volta per tutte nell’uno e nell’altro mondo, nel mondo naturale e nel mondo soprannaturale; nel mondo fisico e nel mondo mistico. E tutto il lavoro, tutto lo sforzo, sta poi al contrario nel conservarli, nel custodirli, non certo nel migliorarli.

Noi non dobbiamo modernizzare la Chiesa. Essa è condotta dalla potenza dello Spirito Santo e sotto la vigilanza di Pietro. E ciò che Dio fa è Santo, puro e perfettamente ordinato a realizzare il suo piano di salvezza per l’umanità. Io non posso intraprendere una qualsivoglia trasformazione della Chiesa senza consultare Dio, cosa che faccio nella preghiera. Quando prego, io so che una cosa non è più opera mia, che devo seguire le ispirazioni che vengono da Dio, e che esse non sono solamente quelle di oggi, ma della Chiesa dalle sue origini fino i nostri giorni. la Chiesa non è mai stata governata da un popolo, ma da una gerarchia. Al principio, essa era costituita dei dodici apostoli di cui uno era Pietro. La sola e vera trasformazione possibile della Chiesa, è che essa si applichi a mettere in pratica la volontà di Dio. E la volontà di Dio è che noi diventiamo dei santi. Così, nella chiesa, tutti – che appartengono alla gerarchia o che siano guidati da quella – sono chiamati alla santità (cf. Lumen Gentium 39). È dio che trasforma la Chiesa facendo di noi dei santi, poiché Egli stesso è Santo. Come scrive Georges Bernanos:

Ma senza i santi, io ve lo dico, la cristianità non sarebbe che un gigantesco ammasso di locomotive rovesciate, di vagoni incendiati, di attrezzi torti e di ferraglie che si arrugginiscono sotto la pioggia. Nessun treno circolerebbe più da tempo sui binari invasi dall’erba.

J.-S. F.: Lei dice che la Chiesa ha bisogno di un capo. Ma se questo capo – che sia Papa Francesco o un eventuale successore – conducesse la Chiesa su vie che la distraessero da quello che ai suoi occhi è il suo vero messaggio, il suo messaggio di Verità, lei teme che la Chiesa sarebbe allora minacciata di scisma o di divisioni tali da mettere in pericolo la sua stessa esistenza?

+R. S.: Ci sono già stati degli scismi, perché alcuni, credendosi ispirati, hanno voluto orientare la Chiesa in una direzione altra da quella che le era stata assegnata da Cristo. San Francesco d’Assisi è vissuto in un’epoca in cui la gerarchia della Chiesa e il clero, ma anche i fedeli cristiani, non erano dei modelli di perfezione. La cattiva condotta di un gran numero di persone dava l’impressione che la Chiesa fosse sul punto di implodere. Ed è in quel preciso momento che Cristo ha domandato a San Francesco di ricostruire la sua Chiesa. Allora, per intraprendere questa magnifica opera di ricostruzione, San Francesco ha optato per la radicalità dell’Evangelo vissuto nel quotidiano della sua esistenza. Francesco ha anzitutto creduto che bisognasse ricostruire la piccola chiesa in rovina di San Damiano, ad Assisi, mentre si trattava in realtà della Chiesa universale. San Francesco avrebbe potuto concepire la riforma della Chiesa alla maniera di Lutero, uscendo dalla Chiesa e criticandola severamente, abbandonando i sacramenti, che sono fonte di grazia, e opponendosi al Papa. Egli era scandalizzato tanto quanto lo sarebbe stato Lutero, dai costumi depravati del clero. Egli però ha scelto di riformare la Chiesa riformando la propria vita, convertendosi, pregando e digiunando, ed abbandonandosi totalmente a Cristo. Egli ha voluto assomigliare assolutamente a Gesù, e il Signore l’ha preso in parola marchiandolo con le sue stesse stigmate, vale a dire con le piaghe della sua dolorosa passione. Non si riforma la Chiesa se non soffrendo con Cristo e morendo con lui e per lui.

J.-S. F.: Nel suo libro lei lo ripete: non sono le istituzioni che sono messe in discussione, ma gli uomini e quello che c’è nei loro cuori. Lei crede molto, del resto, alla forza dell’esempio. Il titolo del suo libro rimanda questo: “la sera scende e il giorno già declina”, citazione di San Luca di cui manca però il principio: «Resta con noi, la sera scende e il giorno già declina». Questo “resta con noi” che nel Vangelo si rivolge a Gesù, che gli apostoli non hanno riconosciuto quando lo incrociano sulla strada di Emmaus dopo la sua crocifissione, a chi si indirizza nel caso del suo libro? Che cosa hai spiegato in lei questa citazione particolare?

+R. S.: Questa frase non deve essere isolata dal suo contesto. Si tratta di una lunga catechesi che la Chiesa ha ricevuto prima di giungere a quella tappa espressa dalla frase “resta con noi perché la sera scende e il giorno già declina”. Io direi che nella situazione attuale abbiamo l’impressione, come i discepoli di Emmaus, che la speranza sia scomparsa come un braciere di cui restano soltanto le ceneri. L’episodio dei discepoli di Emmaus avviene alla sera di Pasqua; tre giorni prima, Cristo era stato crocifisso, era morto ed era stato sepolto. Sembrava allora che ogni speranza fosse vana. Ecco perché i discepoli di Emmaus, vinti dallo scoramento, provavano una grande tristezza e ritornavano a casa loro per riprendere la loro vita ordinaria, come se Gesù non fosse mai esistito. Oggi il Signore ci chiede – anche noi – perché siamo tristi. Egli sembra essere scomparso. Di fatto, Gesù non è più al centro della nostra vita. Noi viviamo come se Gesù non fosse mai esistito. La sua parola non orienta più la nostra vita, il nostro lavoro, le nostre famiglie.

Secondo San Luca, i discepoli di Emmaus avrebbero detto all’uomo che domandava perché loro fossero tristi: «Solo tu non sai quello che è successo a Gerusalemme? Quello che noi consideriamo il Messia l’hanno ammazzato, è sepolto da tre giorni, e noi abbiamo deciso di tornare a casa nostra». Allora, Gesù apri il loro spirito al senso delle Scritture e, a partire dall’Antico Testamento, egli spiegò loro quello che i profeti avevano annunciato. Anche noi dobbiamo oggi riprendere questa catechesi. Dobbiamo riscoprire l’insegnamento della Chiesa. È lì che Cristo si vede presente e rivela tutto di sé. Gesù ha rivelato ai suoi discepoli che il Messia doveva soffrire per la salvezza dell’umanità. In effetti, quando si ama si soffre. Non esiste amore senza sofferenza. La più grande prova di amore è morire per gli altri. E il Messia, che ama tutti gli uomini, ha vissuto fino alla fine questo amore supremo, quello della Redenzione.

Mentre Gesù spiegava il senso delle sacre Scritture camminando di fianco all’oro, i due discepoli lo ascoltavano. Essi arrivarono in un villaggio chiamato Emmaus. Gesù fece come per continuare la sua strada, ma i due discepoli gli domandarono di restare con loro, perché si stava facendo tardi. Egli accettò il loro invito. E là, mentre erano a tavola, egli ripetè i gesti della Santa Cena del giovedì santo: la Santissima Eucaristia. Egli prese il pane, lo benedisse, lo spezzò e lo diede loro. I discepoli lo riconobbero ma egli scomparve dalla loro vista. Noi abbiamo alterato così tanto l’Eucaristia, abbiamo sfigurato così tanto la liturgia eucaristica, che essa è divenuta troppo spesso una sorta di spettacolo, del teatro, del folklore. Si è arrivati fino a far partecipare delle persone anziane, ospiti di una casa di riposo, alla Messa delle Palme in realtà virtuale. Non c’è alcun prete per dare loro la gioia di una Messa celebrata con loro e per loro, per prepararli a questo incontro, non virtuale ma reale, con Dio. Se non ritroviamo l’insegnamento di Gesù, dall’Antico al Nuovo Testamento, se non ricominciamo a celebrare correttamente e degnamente la Santa Eucaristia, non abbiamo alcuna speranza di incontrare di nuovo Gesù, di riconoscerlo e di sentire il nostro cuore che arde d’amore per lui e per la nostra missione di evangelizzazione.

Bisogna che siamo come i discepoli di Emmaus, il cui cuore ardeva per l’insegnamento di Gesù; bisogna che non ci fermiamo per riposare, ma che “la sera stessa” torniamo a Gerusalemme per ricreare la comunità ecclesiale, per ricostruire la Chiesa. Quando arrivarono dissero agli altri di aver visto il Signore. Quelli che li avevano ricevuti replicarono che anche a Gerusalemme avevano visto il Signore risorto. Il nostro problema essenziale è che abbiamo abbandonato l’insegnamento, che abbiamo abbandonato la liturgia. C’è un adagio che dice “Lex orandi, lex credendi”: si crede allo stesso modo in cui si prega. Cercando di dissociare questi due elementi, si provoca la crisi della fede, e anche la disperazione di cui soffriamo della nostra epoca. Svilendo la liturgia e snaturando la dottrina, noi provochiamo una terribile crisi nella Chiesa è una grande disperazione nel mondo.

J.-S. F.: A proposito, mi permetto di sottoporle qualcosa di non “molto cattolico”. Non so se lei conosce Michel Houellebecq, un famoso romanziere francese che ha molto descritto la disperazione dell’uomo nelle nostre società contemporanee, la depressione di quelli che si sentono abbandonati, perduti in una società liberistica in cui tutto è mercificato – i beni, i corpi, il desiderio. Il suo ultimo romanzo si chiama Serotonina. La serotonina è un ormone che permette di fabbricare un farmaco contro la depressione. Ecco le ultime parole del suo libro, le ascolti e poi mi dica che cosa le ispirano:

Veramente Dio si occupa di noi. Egli pensa noi in ogni istante e dà delle direttive, talvolta anche molto precise. I suoi slanci d’amore, che affluiscono dei nostri petti fino a mozzarci il fiato, le sue illuminazioni, le estasi inspiegabili se si considera la nostra natura biologica, il nostro stato di semplici primati, sono dei segni estremamente chiari. E io comprendo oggi il punto di vista di Cristo, il suo ripetuto adirarsi davanti all’indurimento dei cuori. Ma come, hanno tutti i segni e non ne tengono conto! Davvero vale la pena, in più, che io dia la mia vita per questi miserabili? Bisogna essere veramente espliciti a tal punto? Sembrerebbe di sì.

+R. S.: È evidente che Dio non ci abbandona, che gli è sempre con noi, che gli invia dei segni, che ci parla. Ciò che dice Michel Houellebecq è totalmente vero e può essere compreso secondo un’accezione cattolica. Noi siamo creature di Dio, dei figli prediletti di Dio. Dio ci ama come un padre. Ed egli utilizza dei mezzi che possono sembrarci strani, per parlarci, per rivelarci delle verità, per esplicitare ciò che ci domanda, vuole e si aspetta da noi. Ma noi siamo spesso ciechi: noi abbiamo occhi ma non vediamo; abbiamo orecchie ma non udiamo. Preferiamo prendere degli antidepressivi per sentirci meno soli, ma ignoriamo l’amore di Dio che è già presente nei nostri cuori, la sua presenza così tenera e così attenta alle nostre sofferenze. Proprio come è per l’uomo che lei ha citato, Michel Houellebecq, che – con la grazia di Dio – deve ancora varcare questa soglia decisiva. Bisogna spiegare meglio questo amore? Eppure, tutto è già stato detto nella Bibbia e nella vita dei santi. Bisogna che l’uomo ridiscopra che, quando adora e riceve la Santa Eucaristia, egli tocca il Cristo stesso. Quando beve il Sangue dell’Eucaristia, egli beve Cristo. E quando egli contempla e adora l’Eucaristia, egli contempla e adora Dio. Questa è la nostra fede. Dio resta costantemente con noi. Egli è là, ci parla tramite le sacre Scritture e nell’Eucaristia.

J.-S. F.: Abbiamo bisogno di più testimoni?

+R. S.: Gli esempi di testimoni di Cristo esistono. Citiamo gli apostoli, i santi martiri dei primi secoli. Citiamo il Papa San Giovanni Paolo II, che credeva profondamente, realmente nell’Eucaristia: lo si vide sempre mettersi in ginocchio davanti alla presenza reale, anche quando la sua salute era talmente degradata che si era obbligati a sollevarlo perché gli potesse inginocchiarsi, e poi rialzarlo perché non era più capace di alcun movimento autonomo. Santa madre Teresa di Calcutta diceva che non sarebbe stata capace di occuparsi dei poveri se non avesse avuto questa relazione quotidiana con l’Eucaristia. Mi fa piacere citare anche San Padre Pio, San Josemaría Escrivá, le cui vite erano totalmente invase e possedute da Dio. Essi irradiavano la luce e la santità di Dio. Certo, bisognerebbe che quest’esempio venisse anche da noi preti e da noi, vescovi e cardinali. Tuttavia, posso assicurarle che esistono migliaia di Giovanni Paolo II e di madre Teresa, fra i cristiani, in particolare fra i piccoli e le anime consacrate.

Bisogna che siamo degli uomini di preghiera, che riponiamo la nostra fiducia in Gesù, in Dio, e non nelle nostre opere o nelle nostre capacità personali. Oggi siamo immersi nel pelagianesimo. La grazia non conta più: contano soltanto le nostre opere, la nostra intelligenza, le nostre capacità. Gesù invece ha detto: «Senza di me non potete fare niente». Ecco perché Gesù ha sempre insistito su questo punto: dobbiamo vivere costantemente nella preghiera. Senza questo legame intimo con Dio, senza questa relazione personale con lui, senza questo cuore a cuore con Gesù, noi non siamo niente. Noi, i preti, dobbiamo costantemente riposare il nostro capo sul cuore di Gesù, nella preghiera. È solo così che possiamo cambiare la Chiesa, renderla più luminosa, più atta a portare la salvezza a tutto il mondo.

 

Qui la traduzione di Giovanni Marcotullio apparsa su Breviarium