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Il figlio maggiore: stare con il padre senza amarlo, limitandosi a rispettare le regole

WOMAN,HOME,PRAYER

Natalia Figueredo | CC0

padre Carlos Padilla - pubblicato il 02/04/19

Siete sicuri che nei vostri gesti, nei vostri atti altruisti ci sia amore?

Mi colpisce sempre lo sguardo del figlio maggiore della parabola del padre misericordioso che Gesù spiega nel Vangelo. Non è che mi sorprenda. Mi ci rifletto facilmente. Così descritto, però, il suo atteggiamento sembra molto duro:

“Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: ‘Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo’. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: ‘Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso’”.

Il figlio maggiore torna stanco dal lavoro, e arrivando sente la musica di una festa. Si sorprende, e poi si indigna.

Non si alza ogni mattina aspettando il ritorno di suo fratello. Non lo ama come lo ama suo padre. Può anche essere che si sia dimenticato di lui.

Non fa più parte della famiglia. Ha rotto con tutto. Perché continuare ad aspettare chi se ne è andato volontariamente portandosi via la sua eredità?

Il fratello maggiore rispetta la legge. Rispetta suo padre. Obbedisce ai suoi comandi. Fa quello che ci si aspetta da un figlio. Il figlio maggiore conosce bene la legge e sa cosa deve fare.

Si aspetta una festa, ma non come dono, quanto come “pagamento” per il suo sforzo. Ha fatto tutto bene e merita un applauso, un premio. Non sono anch’io così tante volte?

Aspetto il pagamento per quello che ho fatto. Il premio come frutto del mio sforzo. L’abbraccio come espressione del mio diritto di essere amato e valorizzato.

Mi costa comprendere questa misericordia che non corregge, non esige, non chiede un cambiamento. Una misericordia che è solo abbraccio e festa, dopo non aver fatto bene le cose.

Come non comprendere lo sguardo di quel fratello? È il mio sguardo. Io guardo così i figli prodighi che tornano per ottenere un abbraccio come premio per i loro fallimenti. Una festa come regalo dopo aver perso tutto.

Come posso rallegrarmi che alcuni senza meriti ricevano la mia stessa cosa, magari anche di più? Lo stesso cielo per tutti?

La bontà del padre mi fa rabbia. Non comprendo la sua gioia, men che meno la sua generosità. Mi feriscono le sue parole: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”.

Dovrei davvero rallegrarmi? Sono con Dio, ma non lo amo. Sono con Lui e rispetto le regole. E mi indigno quando altri non lo fanno, non fanno bene le cose, non si sacrificano e tuttavia ricevono l’applauso.

Misuro quello che faccio, ed esigo il pagamento per i miei sforzi. Do con il contagocce e spero di ricevere un premio generoso.

Mi sforzo di rispettare le norme imposte, ma l’amore non è nei miei gesti, né nei miei atti apparentemente altruisti. Cerco qualcosa in cambio.

Voglio il riconoscimento, o almeno ricevere più di quello che non fa nulla o fa tutto male. Guardo come si comportano gli altri. Mi paragono. Li giudico per tenerli lontani dal premio in cui spero.

La mia invidia mi avvelena. Com’è possibile che chi ha dilapidato la sua eredità torni a casa pentito e riceva lo stesso premio del giusto? Mi ribello contro tanta generosità di mio padre.

Il ritorno del figliol prodigo non mi rallegra. Non sono come il padre. Non ha fatto bene le cose. È caduto.

Non voglio che mi paragonino a lui. Che pensino che io sia uguale. Io non sono caduto. Non mi sono mai allontanato. Voglio stare lontano dalla sua presenza. Non lo voglio al mio fianco.

Esigo dagli altri un comportamento esemplare. Non credo al loro pentimento quando tornano a casa.

Forse non sono felice di fare quello che devo fare. Perché mi indigna tanto essere stato nella casa paterna senza ricevere un vitello grasso?

Forse perché non so valorizzare cosa significa avere una casa, un padre che mi ama, una missione nella vita. Non valorizzo la gioia della routine sacra. Il quotidiano sotto la protezione di chi mi ama.

Non mi rallegra semplicemente amare senza aspettarmi nulla in cambio. Non valorizzo come dono quello che vivo come esigenza e compimento. Vivo costretto. Indurito. Teso. Stare a casa non mi rallegra.

Cerco continuamente di non sbagliare e di fare la cosa giusta, e anziché rallegrarmi per il lavoro ben fatto sono amareggiato. Mi dispiace di essere meschino.

Vedo nella comunità altri fratelli a cui va tutto meglio senza sforzo. Mi indigno. Io mi sforzo e non lo faccio con gioia. Tengo conto del bene realizzato. Dei miei sforzi quotidiani.

E chi non lavora? Riceva ciò che si merita. Ma non di più. Mi fa male questa ingiustizia del padre generoso e pieno di misericordia. Mi ferisce il suo atteggiamento troppo buono. Come può educare in quel modo? Il figliol prodigo se ne riandrà. Sicuramente. Non si pentirà.

Giudico il suo comportamento futuro prima che si verifichi. Lo desidero addirittura. Per provare che avevo ragione. Ricadrà. Tornerà a peccare.

Non mi rallegro per il ritorno di mio fratello a casa, e questo mi fa male. Mi costa essere tanto meschino e invidioso. Mi inquieta quello sguardo duro del figlio maggiore quando torna a casa. Anche il mio è così?

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