Siamo tutti figli di questa piccola famiglia, da loro riceviamo un dono immenso, un'eredità inesauribile.
Nel giorno di San Giuseppe, la festa del papà, la liturgia delle lodi ci ha regalato un inno che a me piace moltissimo. Un inno solenne, ma molto vicino a tutti noi. Ultimamente rimango particolarmente colpita dagli inni e dalle poesie; trovo che esercitino un’attrazione speciale sulla parte di noi più libera dagli stereotipi, dai modelli, dai filtri che utilizziamo ogni giorno, non solo sui social, ma soprattutto nella realtà. Chi desidera ancora regalarci poesia e parole d’amore merita una qualche risonanza dentro di noi. In quest’ottica la Parola di Dio ci sa proprio fare.
Credo che in fondo alla nostra apparenza fatta molto spesso di doveri, aspettative da soddisfare e combattimenti da affrontare, permanga Qualcosa di intatto.Uno spazio che sa accogliere, che al di là delle ideologie e dei capisaldi razionali che ognuno di noi si impone quotidianamente, sappia essere sincero e non rifiuti alcune importanti intuizioni. In particolare il linguaggio poetico utilizza un alfabeto che è universale, proprio perché sa incontrare con immediatezza questo spazio, nel quale la nostra esistenza può divenire feconda.
“Sì, belle parole”, sentiamo dire spesso. Ma giochiamo con la poesia e invertiamo l’aggettivo con il sostantivo. Scopriremo che in realtà le parole belle sono importanti. Non sono solo un arricchimento, bensì vera e propria linfa vitale per le scelte della nostra vita, per poter condurre una vita piena, felice.
Vorrei quindi soffermarmi sul verso che tanto mi ha colpito dell’inno prima menzionato,
O famiglia di Nazareth, esperta nel soffrire, dona al mondo la pace.
Quanto potente, profondo e ossimorico possa essere questo verso, non riesco a esprimerlo. Ma ho avuto delle intuizioni bellissime. L’ho sentito rivolto a me, come parte di una famiglia d’origine, come parte fondante della mia attuale e come parte di una famiglia più grande che è la Chiesa e, più in generale, l’umanità intera. Tutti questi contenitori si incastrano come matrioske all’interno di questo versetto. Piccolissimo al centro si pone quello spazio d’accoglienza dal quale oggi provengono le parole che sto scrivendo.
“Esperta nel soffrire”, quanto stride alle nostre orecchie questa frase. Oggi ci vengono richieste tante capacità. In qualsiasi ambito della nostra vita sentiamo l’esigenza di essere esperti in qualcosa, quasi avessimo riservato uno spazio molto ampio dentro di noi per questi imperativi morali: “sii esperto, sii bravo, sii unico”. Sono parole lecite e relativamente importanti, ma ci siamo chiesti mai quanto spazio destiniamo a ciò che ci imponiamo dall’esterno e quanto spazio invece dedichiamo alle nostre intuizioni più sincere, ai nostri sentimenti e all’ascolto?
Ci pavoneggiamo di tante abilità, cucite addosso per difenderci, per mascherarci, per nasconderci. In questo contesto, irrompe l’inno: “O famiglia di Nazareth, esperta nel soffrire, dona al mondo la pace”.
Nessuno ci chiederebbe mai di essere esperti nel soffrire. Non fa parte dell’elenco delle skills necessarie per un buon posto di lavoro, (se proprio dobbiamo usare un anglicismo, necessario per mostrarsi smart durante un colloquio), e, onestamente, penso che chiunque ci definirebbe pazzi se solo inserissimo questa abilità nel nostro curriculum. Soffrire è un verbo che non vogliamo leggere, scrivere e nemmeno pronunciare, è uno stato in cui non vogliamo entrare e che più lontano si mantiene rispetto alla nostra esistenza, meglio ci sembra.