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«Vogliamo amare la Chiesa, malgrado tutto». Lettera aperta del padre di un figlio abusato

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 08/03/19

«Il vescovo dell’epoca – racconta l'uomo – non ha mai ricevuto nostro figlio, mai ha chiesto sue o nostre notizie, mai ha avuto una parola di compassione per le vittime…». E tuttavia nei giurati della Corte lo scandalo dato dal Vescovo era superato dalla meraviglia di vedere il padre saldo nella sua fede cattolica. Perché questa grazia non sia dissipata, però, occorre che adesso ogni chiesa locale cambi radicalmente il modo di trattare questi casi. «È come se ci fosse stato uno tsunami – spiega don Fortunato Di Noto –: gli stati che non avevano una protezione civile se ne sono dovuta inventare una su due piedi. Così dobbiamo fare anche noi».

Dopo il summit vaticano sugli abusi la Chiesa sta attendendo – perché dovrà arrivare entro maggio – l’annunciato vademecum sulle procedure da seguire per gestire quei casi. Frattanto i processi Pell e Barbarin incalzano, a suon di sentenze dai meccanismi opachi: ma un’istituzione che per decenni ha sguazzato nell’opacità – sembra essere questo il messaggio non scritto degli attuali rovesci – non può adesso pretendere chissà quali riguardi.

E difatti il pensiero più angosciato non va agli alti prelati caduti in disgrazia, ma anzitutto alle vittime ancora non ascoltate, non credute, non seguite, che si trovano scandalosamente sparse per tutta la faccia della terra. Ieri mattina il Papa ha detto: «Il Signore sta purificando la sua sposa», riferendosi appunto alla temperie degli scandali incalzanti che ormai da più decenni – e in modo crescente – si abbattono sulla Chiesa. A guardare le realtà locali, dove i singoli casi di abuso fanno un rumore relativamente trascurabile e non ci sono i grandi occhi dei media, non sembra tuttavia che lo zelo ecclesiastico corrisponda all’azione catartica di cui parlava il Papa. «La Chiesa sarà travolta», sentenzia amaro don Fortunato di Noto, fondatore e direttore di Meter, che poi spiega:

Se ascoltare è un arte (e non tutti hanno questo dono) entrare dentro le pieghe del dolore (cioè guardare e scorgere le profonde ferite di una vittima, e il dolore collaterale che ne subisce una famiglia, una comunità) non è da tutti, neanche se si è vescovi, preti, diaconi, religiosi, spesso (e lo dico con forza) seduti non sulla cattedra del legno della croce, ma su una cattedra di pestilenza. Non sono parole mie, ma le condivido pienamente.

È, un cammino di purificazione, ma anche un impegno affinché la responsabilità che è sempre personale (il reato o il peccato è commesso dalla persona) da accertare le responsabilità del silenzio o omertà connivente, non può non ricevere la durezza delle parole e dei gesti di Gesù: leggiamo “si fece una cordicella”… forse non la scagliò contro nessuno dei presenti, Cristo, ma buttò all’aria la certezza del potere dei cambiavalute che avevano ridotto il Tempio di Suo padre in una locanda di mercati e mercenari.

Il tempio violato del Padre, il suo tempio, il suo corpo ridotto a nudità. Così come fanno i predatori dei bambini e chi guarda e non agisce. La lobby del silenzio, dell’omertà è l’aspetto più pericolosa di tutta questa vicenda.

Perderemo, daremo la vita solo per un innocente violato? È questa l’alta vocazione di chi va oltre la burocratizzazione delle parole e l’incapacità di non “correggere” chi ha disumanizzato sé stesso e sfigurato un innocente. Alessandro Serenelli, l’uccisore di Maria Goretti, vergine e martire, non chiese mai un giorno di sconto o un’attenuante. Comprese che il perdono ricevuto nasceva dalla responsabilità assunta fino in fondo. Fino in fondo. Un cammino sempre nuovo e vero. Ancora molti non lo hanno capito. Una domanda viene spontanea, detta da più vittime che ho accolto: “Chi controlla i controllori?”. Andare oltre con verità, giustizia e misericordia: che non è misericordismo.

Così il rischio è che al di là dei grandi proclami e degli incontri mondiali la ricaduta effettiva nella vita della Chiesa risulti così poco incisiva da non essere soddisfacente. Non solo la giustizia, ma anche il perdono ha le sue esigenze, e questa verità l’ho trovata magnificamente espressa nella lettera di Loïc M., padre di un ragazzo abusato che solo una settimana fa – dopo dieci anni – ha visto terminare in una sentenza il calvario giudiziario in difesa del figlio (la lettera è stata pubblicata l’altro ieri su La Vie).

Molte cose mi hanno impressionato, in questa lettera, e difatti ve la riporto di seguito perché possiate beneficiarne anche voi, ma quella che mi ha più ferito è la descrizione dello scandalo causato dall’allora vescovo di Perpignan-Elne agli occhi della Corte. Non era colpevole, il vescovo, almeno non dei reati imputati al prete stupratore… ma non ha mai incontrato la vittima, mai ha avuto un gesto d’attenzione per la sua famiglia… e questo mi ha fatto tanto più male perché mi ha ricordato di casi in cui ho potuto toccare con mano il gelo burocratico con cui alcuni vescovi trattano non solo i laici ma perfino i loro stessi preti. Anche Loïc, quest’uomo straordinario, ha pensato con compassione ai preti, cioè ai confratelli dello stupratore di suo figlio: «Finché non saranno dei padri – per le vittime, per i loro preti, per i loro fedeli… – i bei discorsi non serviranno a niente».

E che davanti a tanta infedeltà lo Spirito conservi così puro il cuore di un uomo che ha patito mi pare il segno che davvero il Signore non sta abbandonando la sua Chiesa. Dovrebbe a questo punto valere per tutti, nella Chiesa, il temibile monito di Gamaliele: «Non vi avvenga di trovarvi a combattere contro Dio» (At 5, 39).


Venerdì 1º marzo 2019, dopo dieci anni di attesa e un processo d’Assise di cinque giorni che hanno lasciato il segno, nostro figlio e altri due ragazzi che hanno sporto denuncia sono stati riconosciuti vittime dalla Corte d’Assise di Perpignan, che ha condannato il prete aggressore dei nostri figli a quindici anni di reclusione. Non è utile tornare sull’impensabile: «Come un prete ha potuto commettere simili atti?». L’abbiamo sperimentato nella nostra carne: nessun uomo è al riparo dal male, e anche dal male più cupo, al punto che il presidente del tribunale mi chiedeva: «Ma come può lei essere ancora cattolico, dopo tutto questo?». Non soltanto lo sono ancora, ma vorrei dire che anche se nostro figlio è stato abusato da un prete, questo non intacca in nulla la stima e la fiducia che abbiamo per tutti quegli altri preti i quali – ogni giorno – si prodigano attorno a noi. Tre giovani preti che operavano nel ministero con l’accusato hanno testimoniato, talvolta fra le lacrime, davanti a noi. Ci hanno chiesto perdono, perdono di non aver visto prima, perdono anche di non aver creduto prima. Sono stati traditi dal loro confratello nel sacerdozio, lordati da uno che ammiravano. Porgo loro i miei omaggi e dico ai vescovi: vegliate sui vostri preti come dei padri, perché questo mondo è duro con loro, e la colpa di uno solo non deve gettare discredito sugli altri. Sono contro il matrimonio dei preti ma per la paternità dei vescovi. Quando sento dire di tutti questi casi – «è un peccato collettivo» – mi arrabbio. Si passa da una cultura del silenzio alla colpevolizzazione generale. Questi preti non sono colpevoli dei crimini dei loro confratelli. Se come padre me ne voglio anche per il non aver potuto impedire quel che è accaduto, non mi sento in alcun modo colpevole come questo predatore. Neppure questi preti dovrebbero sentirsi in colpa. Per quanto riguarda la gerarchia, temo che questa nuova vulgata non sia che un nuovo modo di non stare davanti ai fatti. La gerarchia della Chiesa deve assumere individualmente le proprie colpe e non affogarle in una vaga responsabilità collettiva… Le vittime non vogliono richieste di perdono dagli innocenti. Esse sperano che un giorno sia il loro aguzzino a chiedere perdono, e sarebbero molto sollevate se anche il loro vescovo facesse lo stesso. Nel nostro caso, il vescovo dell’epoca […] non ha mai ricevuto nostro figlio, mai ha chiesto sue o nostre notizie, mai ha avuto una parola di compassione per le vittime… neppure in dieci anni di processo dove, come un funzionario di Dio, è venuto a dire “ho fatto quel che dovevo fare”, cioè niente. Non ci ha neppure guardati, non ha evocato il dolore delle vittime, non ha avuto una parola per i nostri figli… L’avvocato generale ha giudicato il comportamento del vescovo “scandaloso”, e la Corte – pur avendo riconosciuto all’udienza civile l’indennizzo richiesto dalle vittime – ha rifiutato l’euro simbolico di risarcimento chiesto alla diocesi. Questo gesto di giustizia è stato un conforto per le famiglie. Noi siamo solo dei semplici fedeli. Non ce ne facciamo niente dei bei discorsi di riforme sempre annunciate, di grandi riunioni, di annunci ad effetto… Quello che vogliamo è la realtà dell’evangelo. Che sarebbe costata, a questa gerarchia, una parola di misericordia e di compassione? Nostro figlio la stava aspettando e anche noi: non è arrivata e non arriverà. Di che ha paura? Che prendiamo questo gesto come un atto di debolezza? Un’ammissione di colpevolezza? Non posso credere che sia questo, la Chiesa di Gesù Cristo. Finché i nostri vescovi non avranno quest’attitudine semplicemente evangelica, i bei discorsi non serviranno a niente. Finché non saranno dei padri – per le vittime, per i loro preti, per i loro fedeli… – non saranno credibili e non ci aiuteranno a conservare alla Chiesa la nostra fiducia, ad amarla malgrado tutto.
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