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Lavoro la “mia terra”, quando vedrò i frutti?

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Carlos Padilla - pubblicato il 07/03/19
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Il frutto più grande è che la mia anima è piena di DioGesù parla dell’importanza dei frutti, e dice una cosa evidente che non voglio dimenticare: “Non c’è infatti albero buono che faccia frutto cattivo, né vi è albero cattivo che faccia frutto buono; perché ogni albero si riconosce dal proprio frutto; infatti non si colgono fichi dalle spine, né si vendemmia uva dai rovi”.

Il frutto che do oggi è quello che mi spetta per la mia originalità. Gesù non mi chiede di dare un frutto che non abbia a che vedere con me.

Se sono un olmo non darò pere, se sono un melo non darò uva. Mi è chiaro. Ma forse me lo dice perché non mi angosci quando non do il frutto che speravo. Forse non è il mio frutto, ma quello di un altro.

albero

Pixabay

Mi piace l’immagine dei frutti, ma a volte mi spaventa, perché credo di pensare al frutto come uomo e non come pensa Dio.

Credo che Dio mi chiederà una serie di frutti alla fine della vita, e vivo esigendo da me l’impossibile per arrivare alla meta stabilita, al voto richiesto.

Nella vita professionale si parla di incentivi. Sono stimoli che si offrono a una persona con l’obiettivo di incrementare la produzione e migliorare il rendimento. Mi assicurano che se arrivo a una quantità determinata di frutti riceverò di più come ricompensa.

Il frutto comporta un beneficio. Più frutti do, più felicità ci sarà nella mia anima. Penso come gli uomini, non come Dio.

Dice la Bibbia: “Il giusto fiorirà come la palma, crescerà come il cedro del Libano. Quelli che sono piantati nella casa del Signore fioriranno nei cortili del nostro Dio”.

Se sono giusto continuerò a dare frutto. Non mi stancherò. Darò un buon frutto, quello che mi spetta. Sarò felice.

CACAO

KSenia Ragozina – Shutterstock

Ma Gesù non vuole che mi fermi alle categorie umane. Il frutto di tutto quello che faccio e che dono non è grazie a me. Non sono io a ottenerlo.

È Dio in me che dà un frutto infinito che io non riesco a vedere. Voglio credere di più alla gratuità di Dio, e non tanto alla ricompensa per i miei meriti.

Leggevo giorni fa: “I doni di Dio sono gratuiti non per sforzo umano, sono frutto della sua misericordia. Ricevere con cuore umile e povero. La religione cristiana è una religione non dello sforzo, ma della grazia. Piccoli e umili davanti a Dio” [1].

Una religione della grazia. Io lavoro solo la terra. Il frutto è di Dio. E il frutto più grande è che la mia anima è piena di Dio, della sua bontà. Il mio cuore si apre e si riempie della sua presenza.

La Bibbia dice anche che “dall’abbondanza del cuore parla la sua bocca”. Di cosa è pieno il mio cuore? Vorrei che contenesse cose buone. Sentimenti nobili. Bontà, misericordia, allegria.

Ma spesso provo rabbia, rancore, disprezzo, accidia, invidia. Sbocciano la pigrizia e la rilassatezza. Di cosa è piena la mia anima? Di me stesso. Della mia vanità. Del mio amor proprio. Del mio orgoglio.

Dei miei successi. È di questo che parlo. Quello che dico è ciò che ho dentro. Il male nella mia vita non viene da fuori. L’incubo nell’anima. E fa danno, innanzitutto a me. Mi fa male dentro.

“L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore tira fuori il bene, e l’uomo malvagio dal malvagio tesoro del suo cuore tira fuori il male”. I miei frutti sono buoni quando dentro di me c’è pace. Quello che esce sarà allora costruttivo. Edificante.

A volte mi trovo a dire quello che non desidero, e sorgono azioni che non ho mai voluto. Quello che il mio cuore ha dentro di sé.

Desidero che Gesù venga a pulirlo con il suo Spirito, e ponga fine a ciò che non è in ordine. E tiri via da dentro di me quello che non gli appartiene.

Sembra facile ma non lo è. Forse per questo vedo con più facilità il male negli altri. Mi concentro su quello che gli altri fanno male, e i miei frutti non sono buoni. Le mie azioni non danno vita, né speranza.

Vorrei avere un cuore più grande. Più docile al volere di Dio. Più vuoto di me per lasciarlo entrare.

Ma a volte mi lascio riempire da quello che non mi fa bene. Apro la porta dei miei sensi. Cerco quello che non mi porta né pace né tranquillità. Metto da parte il silenzio interiore, e non guardo solo quello che mi guarisce dentro. Mi riempio di immagini che non mi lasciano tranquillo, né in pace.

[1] Jacques Philippe, Se tu conoscessi il dono di Dio.

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