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Don Mandrelli, prete armato: ma la Chiesa che dice?

Don Antonio Mandrelli

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Giovanni Marcotullio - Emiliano Fumaneri - pubblicato il 07/03/19

«Ho due fucili. Fino a qualche anno fa andavo a caccia e avevo una buona mira, sono per la legittima difesa». Lo dice all'indomani dell'ultimo furto subito il parroco di Santa Maria delle Grazie a Castelfranco. C'è da sperare che l'emotività abbia giocato un ruolo nelle sue dichiarazioni sbilenche.

Don Antonio Mandrelli ha fatto versare un po’ d’inchiostro nell’ultima settimana. Il sacerdote, settantatreenne del Perugino, ha raccontato a La Nazione di vedere di buon occhio la riforma sulla legittima difesa (nonché di possedere personalmente diverse armi da fuoco, e anzi di avere “una buona mira”). Il tutto non “a freddo”, sia chiaro: il parroco di Santa Maria delle Grazie di Castelfranco a Pietralunga ha rilasciato le sue dichiarazioni fumantine dopo l’ennesimo furto in canonica – nel quale gli sarebbe stata sottratta anche la Beretta Anni ’30 che possedeva.

E uno si domanda: «Cosa dovrà mai farsene un prete di una panoplia?». Vero è che il Diritto Canonico non proscrive esplicitamente il porto d’armi – e anzi la memoria dello storico torna alla “messa armata” di Giulio II! –, ma viene ugualmente alla mente il Can. 282 § 1 del CIC:

I chierici coltivino una vita semplice e si astengano da tutto quello che ha sapore di vanità.

Certo, si tratta di un vincolo morale e non giuridico, ma se non lo si prendesse tanto alla leggera sarebbero meno frequenti i casi di sacerdoti che muoiono con conti a molti zeri (cui è dedicato il § 2 del medesimo canone). Poiché in Italia i sacerdoti godono del sostentamento ecclesiastico, va da sé che i soldi di cui don Mandrelli si è servito per acquistare armi vengono, per uno o più versi, tutti dalla Chiesa. Poiché un presbitero, pur non formulando alcun voto di povertà, si spoglia dei suoi beni in vista del suo ministero ecclesiastico, sarà lecito chiedersi: a quale fine pastorale un prete acquista e usa armi?

Diverso è il caso dei cappellani militari, la cui disciplina è regolata dal diritto ecclesiastico particolare: ovunque la loro figura sia prevista, essi sono inquadrati nell’esercito col grado di capitano, sono con ciò tenuti a portare un’arma (alcuni Paesi prevedono deroghe) e fanno parte dello Stato Maggiore. In alcuni casi, il loro dover portare l’arma si accompagna al paradossale divieto di adoperarla, ma al di là di questo bisogna comunque ricordare che quelle armi sono pagate dallo Stato per i fini dello Stato.

Raggiunto dall’Ansa dopo le prime dichiarazioni a La Nazione, il prete ha però rincarato la dose:

Sono a favore della legittima difesa, perché le persone per entrare in casa devono bussare o suonare il campanello; se uno entra, invece, senza permesso è un potenziale ladro e anche assassino.

Bisognerebbe tastare dal vivo il polso di don Antonio, per farsi un’idea di questo prete insolito: di certo non bastano poche battute rilasciate a qualche organo di stampa in cerca di “cose strane”. Tuttavia “potenziale assassino” – dovrà convenirne don Mandrelli – è chiunque entri in possesso di un’arma letale, specialmente se si lanci in improvvide tirate a favore della “legittima difesa”. Sì, perché la difesa è legittima, ma non in senso assoluto, e la stessa tradizione cristiana ha corroborato sul punto l’antico diritto romano, come vedremo fra poco.

Don Mandrelli ha solleticato l’immaginario di quei cattolici affascinati dalla narrazione “cattivista” dei potenti di turno, richiamando inoltre l’iconografia del don Camillo di Guareschi… ma attenzione: nei racconti del genio di Fontanelle il parroco e il sindaco vengono spesso rappresentati con delle armi in mano – come era ovvio in un contesto fresco di guerra e di guerriglia – ma la loro artiglieria è poco più che decorativa, non spara mai. Non solo ne Il ritorno di don Camillo è lo stesso prete a prendere un fucile scarico per fare scena, ma quando in Don Camillo Monsignore ma non troppo il prete sembra davvero intenzionato a sparare alla Gisella è il Signore stesso a richiamarlo con due perentori “don Camillo!” da fuori campo.

Riprendiamo quindi l’ottimo articolo di Emiliano Fumaneri comparso su La Croce quotidiano l’altro ieri: senza scomodare i rigori evangelici di “porgi l’altra guancia” e “amate i vostri nemici”, Fumaneri ripercorre le fondamenta giuridiche della legittima difesa, illustra l’impatto che una simile riforma avrebbe sulla vita degli italiani (al condizionale perché il dispositivo sarà bocciato in quanto incostituzionale) e spiega anche quanto esso sia inconciliabile con ogni filosofia cristiana.

[…] La nuova riforma mira a concedere una integrale immunità a chi, trovandosi legittimamente all’interno del proprio o dell’altrui domicilio, dovesse reagire con violenza per respingere una intrusione. L’idea sottostante è quella di una tutela automatica, senza alcun passaggio per l’accertamento giudiziario — allo stato attuale, invece, verificare se l’eventuale eccesso di difesa sia stato o meno intenzionale comporta già l’indagine penale (obbligatoria, non discrezionale).

All’apparenza sembra un proposito ragionevole, perfino lodevole. Come vedremo però le cose non stanno proprio così.

Ma anzitutto, che cosa è la legittima difesa?

La legittima difesa è quella forma residuale, estrema, di autotutela che lo Stato riconosce al cittadino nel momento in cui l’intervento della pubblica autorità non può risultare tempestivo.

L’autodifesa del cittadino si fonda su un principio antico, già riconosciuto dalla giurisprudenza romana: “vim vi repellere licet” (è lecito reagire alla violenza con la violenza).

Ma questo principio presuppone alcune condizioni elencate dall’articolo 52 del nostro codice penale:

  • stato di necessità;
  • pericolo attuale: deve esserci cioè una minaccia di 
    lesione incombente, senza scampo, così che reagire all’aggressione sia l’unico
    mezzo per mettere al riparo il bene minacciato;
  • aggressione ingiusta;
  • proporzionalità tra difesa e offesa.

Il disegno di legge della Lega si prefigge di agire sull’ultimo requisito (proporzione tra difesa e offesa). Lo scopo è introdurre una difesa “sempre legittima”, cioè una sorta di presunzione assoluta
di proporzionalità tra offesa e difesa in tutti i casi. Verrebbe così ammesso un generico diritto all’autodifesa privata (di dubbia costituzionalità).

Che questo sia lo scopo della riforma lo ha ribadito in mille occasioni Matteo Salvini con lo slogan “la difesa è sempre legittima” e con le manifestazioni di solidarietà a chiunque sia stato processato o
condannato per fatti legati alla legittima difesa.

L’estrema pericolosità di questi slogan demagogici è presto detta. Se la reazione difensiva va considerata sempre legittima – e dunque non punibile – si arriva direttamente alla conseguenza che la difesa di
un bene patrimoniale può giustificare la lesione di un bene personale come la vita o l’integrità fisica.

Sarebbe giustificato anche sparare a chi cerca senza motivo di ammazzarci il cane o al ladruncolo che cerca di rubare i frutti di un albero nel fondo di nostra proprietà.

Si può sparare a sangue freddo al ladro di frutta – magari pure in fuga – per impedirgli di rubare?

Se rispondiamo “sì” a questa domanda stiamo sovvertendo brutalmente la gerarchia dei valori recepita dal nostro ordinamento, dato che la nostra Costituzione all’articolo 2 «riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo». Inoltre la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, il trattato internazionale sottoscritto dall’Italia nel 1950, stabilisce all’art. 2 che «la morte non è considerata illecita» soltanto «quando è assolutamente imposta dalla necessità di difendersi da una violenza illegittima».

In sintesi, avremmo una inversione dei valori dove la vita umana vale meno di quella di una cosa o di un animale. Infatti se uccidete il cane del vicino è inevitabile che vengano svolti accertamenti penali per
verificare il delitto di uccisione di animali punito dall’articolo 544 bis del codice penale.

È pensabile allora che non ci siano accertamenti almeno equivalenti nel caso in cui dovessimo uccidere o ferire un essere umano?
È concepibile pensare a una autodifesa senza eccessi? Che è quanto dire una autodifesa senza limiti. Ogni eccesso presuppone infatti l’esistenza di un limite, cioè di una misura. La dismisura, ci insegnavano già gli Antichi, è quella forma di superbia nota come hybris.

Per l’ennesima volta emerge la siderale distanza della Lega nei riguardi del personalismo cristiano. Un’ottica personalista riconosce alla persona umana una dignità trascendente e, di conseguenza, i diritti dell’uomo come un bene universale per tutti e per ciascuno. Per usare la parole del filosofo personalista Jacques Maritain, «la persona umana ha dei diritti per il fatto stesso che è persona». Ci sono delle cose dovute all’uomo per il fatto di essere uomo, a prescindere se sia buono o cattivo.

Ma se non vogliamo ascoltare Maritain – che com’è noto non riscuote molto gradimento presso un certo pubblico conservatore – più difficile è dare torto al padre domenicano Angelo Belloni, apprezzato per la sua rubrica “Un sacerdote risponde” sul sito amicidomenicani.it e poco sospettabile di “progressismo teologico”.

Bene, interpellato da un lettore circa la nuova legge sulla legittima difesa padre Angelo osserva che è «giusto e doveroso difendere i beni e soprattutto le persone», dato che «la morale cristiana ha sempre fatto proprio il principio della giurisprudenza romana: vim vi repellere licet cum moderamine inculpatæ tutalæ (è lecito respingere la violenza con la violenza, tuttavia con la moderazione di una difesa non colpevole)». Tuttavia, prosegue il domenicano, «non è lecito sparare sulle persone per mettere in salvo i propri beni». Infatti in questo caso «la difesa sarebbe sproporzionata, in quanto la vita di una persona vale sempre immensamente di più di tutti i nostri beni».

Anche per il domenicano dunque il principio di proporzionalità tra offesa e difesa tutela il primato della persona sulla “roba”. In caso contrario avremmo una metafisica della “roba” che certo non dispiacerebbe a Mazzarò, l’avaro protagonista di una delle novelle rusticane di Giovanni Verga che sentendo approssimarsi la fine comincia ad ammazzare i propri animali al grido di “Roba mia, vientene con me!”.

Ricordiamo en passant che le maglie della legittima difesa erano già state “allargate” con la legge n. 59 del 13 febbraio 2006 […], che aveva aggiunto due nuovi commi all’articolo 52 c.p. allo scopo di regolamentare l’esercizio del «diritto all’autotutela in un privato domicilio». La cosiddetta “legittima difesa domiciliare” si prefiggeva di ampliare i presupposti della legittima difesa nel caso in cui l’aggressore avesse sorpreso sorprendere l’aggredito in casa o in un altro luogo chiuso assimilabile alla privata abitazione.

Già allora era chiara l’intenzione di minare il principio di proporzione tra aggressione e difesa, fatto che, come leggiamo nel famoso manuale di diritto penale curato da Giovanni Fiandaca e Enzo Musco, aveva sollevato «riserve critiche più che giustificate».

Secondo la prima di queste critiche, con simili innovazioni l’ordinamento avrebbe concesso una specie di «licenza di uccidere», subordinando il diritto alla vita delle persona al principio dell’inviolabilità
del domicilio (che evidentemente per [alcuni] vale più della vita umana).

In secondo luogo dispensare i giudici dal compito di verificare se in concreto ci sia stata proporzione tra offesa e difesa avrebbe un «effetto criminogeno». Dando più aggressività difensiva alle potenziali
vittime si incentiva inevitabilmente l’aggressività offensiva dei delinquenti, che in questa maniera cercheranno di minimizzare il rischio. Otterremo solo ladri più attenti, lucidi e determinati, bande criminali meglio organizzate, più feroci e aggressive.

In conclusione, l’ostinato rifiuto di sottoporre l’autodifesa privata a qualsiasi forma di accertamento esterno ricorda paurosamente quel rifiuto di «riconoscere istanze superiori» in cui Ortega y Gasset aveva individuato una delle caratteristiche principali dell’uomo-massa, l’uomo «soddisfatto così come si trova». Abituato com’è «a non appellarsi a nessuna istanza fuori di se stesso», l’uomo-massa è insofferente a ogni limitazione.

Mai dimenticarlo: il target del populismo non è il popolo con una storia e degli ideali, ma la massa che sguazza nel materialismo aggrappandosi alla propria “roba” con ferocia. E che al governo della legge
antepone la giustizia fai-da-te del far west. O, se preferite, la furia della faida mediterranea con la sua sete di vendetta. La vocazione della Chiesa in tale campo, invece, è proprio a custodire i patrimoni e i destini dei popoli: che una tale visione delle cose sia condivisa da un sacerdote va a disdoro dello stesso, e mostra come tutti i suoi “fan” debbano interrogarsi seriamente sul loro essere cristiani.

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