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Abusi, un summit non (del tutto) sprecato: cosa si è detto e cosa non si è detto

VATICAN SEX ABUSE
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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 25/02/19
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Papa Francesco l’aveva detto, che il vertice dei presidenti di Conferenze Episcopali sarebbe stato soprattutto un primo passo, ma molti osservatori (anche non appartenenti alle fila degli “oppositori sistematici” del pontificato) hanno avuto modo di criticare radicalmente la conduzione e le conclusioni della quattro-giorni. Il Santo Padre stesso ha avuto a dire che in alcune relazioni s’è però riverberato “il genio femminile della Chiesa”. Forse è soprattutto da quelle che un percorso effettivo potrà ancora partire.

Oggi i titoli dei giornali sono tutti presi dalla politica e dagli spettacoli: il voto delle regionali in Sardegna – il cui spoglio ufficiale è cominciato in mattinata, e i cui risultati dunque dovranno necessariamente essere confrontati con le prime pagine dei quotidiani, scritte in base agli exit poll – e la notte degli Oscar (sempre più ideologizzata e dunque tanto meno “magica”) a Los Angeles terranno banco per l’intera giornata. Anche questo farà sì che la conclusione del summit vaticano sugli abusi, conclusosi ieri col discorso di Papa Francesco, passi in sordina.

Difficile dire se questo sia un male, perché non è immediato formulare un giudizio sul summit stesso, il quale per certi aspetti sembra aver disatteso le attese di molti: cercando di percorrere la stretta cresta tra il dirupo del giustizialismo e quello del lassismo, in qualche passaggio l’evento al vertice è sembrato esposto soprattutto al rischio di diventare un evento-civetta, uno specchietto per le allodole.

Papa Francesco lo ha detto apertamente, nel suo atteso discorso conclusivo:

È giunta l’ora, pertanto, di collaborare insieme per sradicare tale brutalità dal corpo della nostra umanità, adottando tutte le misure necessarie già in vigore a livello internazionale e a livello ecclesiale. È giunta l’ora di trovare il giusto equilibrio di tutti i valori in gioco e dare direttive uniformi per la Chiesa, evitando i due estremi di un giustizialismo, provocato dal senso di colpa per gli errori passati e dalla pressione del mondo mediatico, e di una autodifesa che non affronta le cause e le conseguenze di questi gravi delitti.

Due eccessi a cui corrispondevano due macro-aspettative uguali e contrapposte, ma davanti alle quali il summit ha ripetutamente rischiato di porsi come l’espressione di un “terzo eccesso”, cioè di un ossimorico “attendismo interventista” che pareva tutto volto a costernarsi, indignarsi, impegnarsi per poi infallibilmente gettare la spugna all’atto pratico. La classica formula di compromesso, che nello sforzo estremo di schivare due rischi opposto (o sul piano diplomatico “di non urtare le due fazioni”) si espone concretamente alla possibilità di non accontentarne neppure una.

Scontentare tutti per non “accontentare” nessuno

Sono difatti rimasti scontenti quelli che si aspettavano il redde rationem, specie per chi sperava di vederlo arrivare contro alcune ben precise persone e/o categorie. Una menzione specifica, per la sua serietà, merita la questione dell’omosessualità, ovvero della scelta apertamente e apicalmente operata di omettere ogni riferimento, anche marginale, all’abnorme e innegabile incidenza statistica dell’orientamento omosessuale negli atti di predazione sessuale. Un’omissione attiva e passiva – la tensione al briefing si tagliava a fette quando dal tavolo dei relatori sono state cercate ardite piroette pur di sfuggire alle domande della stampa – che ha l’amaro retrogusto della censura. Forse l’aspetto più deludente di un summit che prometteva trasparenza e che si dichiarava improntato alla parrhesía.

Tre giorni fa, commentando i primi accenni di questa deriva, l’Editor in Chief della Catholic News Agency, J.D. Flynn, ha ricordato che

[…] di fatto, la prima vittima nota di McCarrick aveva tra i 16 e i 17 anni quando subì l’abuso.

E si domandava:

È possibile incentrare la discussione così miopemente ed insistentemente sugli abusi sessuali compiuti su minori, ignorando l’ipotesi che abusare sessualmente di un diciassettenne possa avere qualcosa a che fare con l’immoralità sessuale fra adulti?

Se dunque sono stati scontentati quelli che speravano nell’indizione della caccia al prete omosessuale, non sono stati accontentati neppure quanti auspicavano l’apertura della caccia al prete pedofilo: si è detto, sì, che mai più saranno tollerati abusi, nella Chiesa, ma tutto questo era stato già detto e ripetuto più volte, almeno dal pontificato ratzingeriano in qua. Francis Rocca ha scritto oggi sul Wall Street Journal che

[…] per alcuni l’appassionata retorica del Papa si attesta al di sotto delle aspettative. «Non ho visto nel testo alcuna azione concreta», ha detto Francesco Cesareo, presidente del National Review Board, una corporazione di laici cattolici che consigliano i vescovi statunitensi in materia di abusi su minori. «Sono un sacco di parole che sono già state dette più e più volte».

Rocca e Flynn, tuttavia, non sono dei nemici pregiudiziali di questo pontificato, né scrivono per testate che hanno fatto della sistematica contestazione al papato bergogliano il proprio core business. Ciò non significa che “Francesco si sta facendo altri nemici”, come cercano di far passare i suoi irriducibili avversari, bensì che il (forse troppo) atteso summit sugli abusi ha avuto meno il merito di risolvere le questioni che quello di porle nuovamente. Tre punti per esemplificarlo.

Efebofilia omoerotica: un silenzio pesante

In merito alla questione dell’incidenza dell’omosessualità, monsignor Scicluna ha esplicitamente dichiarato, durante un briefing con la stampa, che «l’incidenza c’è ma questo non è il tema del summit» (precedentemente aveva ammesso che quei dati «sono dati», salvo ribadire: «Altra cosa è l’interpretazione»). Durante il discorso finale, però, Papa Francesco ha detto che «ora pensiamo di dover innalzare questo limite di età per allargare la tutela dei minori e insistere sulla gravità di questi fatti».

Nella fattispecie, il Santo Padre parlava delle pene previste dal Diritto per «l’acquisizione, la detenzione o la divulgazione, in qualsiasi modo e con qualsiasi mezzo, di immagini pornografiche aventi ad oggetto minori». E il limite a cui si allude è fissato a 14 anni. Perché questo cambiamento? Per poter far ricadere i casi di efebofilia sotto i rigori previsti da Benedetto XVI per codesti delicta graviora? Sta bene, ma se fosse questo il fine, non converrebbe piuttosto estendere quelle norme e quelle pene a ulteriori fattispecie di delitto invece che accomunare fattispecie di delitto fra loro difficilmente sovrapponibili? Oppure lo scopo è quello di adottare la semplice soglia civile per la maggiore età, convenzionalmente indicata nei diciotto anni? Ma in che modo una scelta del genere aiuterebbe a far chiarezza, laddove il materia di comportamenti sessuali le soglie della maturità sono ben chiaramente scandite dalle leggi della biologia (e in nessun senso hanno a che vedere coi diciotto anni)? Ed è vero – checché ne dicano le frange autenticamente oltranziste che auspicano la caccia all’untore gay – che abusare di una bambina non è meno grave che abusare di un ragazzo: non basta certo una pulsione rivolta all’altro sesso per parlare di “appetito sessuale ordinato”. È pure vero che la bambina e il ragazzo sono in qualche modo assimilabili per il fatto che non li si presume capaci di formulare quel tipo di consenso necessario a una sessualità matura, in cui la persona umana possa realizzarsi e rendersi feconda: questo però non toglie che ci siano inclinazioni erotiche malate, per le quali il consenso (o piuttosto ciò che tale appare) non basta a produrre detta relazione appagante e feconda.

Una stridente anomalia metodologica

Ciò vale, a titolo diverso, per il caso delle suore abusate e per quello degli abusi nel clero e fra seminaristi, anche se del primo caso si è (per quanto fugacemente) accennato nel corso delle relazioni – del secondo no (e questo rafforza l’inquietante impressione di una Chiesa che preferisca ammettere di avere un problema particolare con la pedofilia piuttosto che di averne anche uno con l’omosessualità). Ecco, in generale si osserva uno stridente contrasto metodologico fra le risposte refrattarie di monsignor Scicluna – che dopo le attente e meticolose disamine del mattino respinge al pomeriggio ogni (pur lecita) domanda sull’incidenza dell’omoerotismo nei casi di abuso (in fondo il caso McCarrick è pur sempre uno dei detonatori della situazione!) – e l’inclusivismo con cui Papa Francesco ha ricordato:

La prima verità che emerge dai dati disponibili è che chi commette gli abusi, ossia le violenze (fisiche, sessuali o emotive) sono soprattutto i genitori, i parenti, i mariti di spose bambine, gli allenatori e gli educatori. Inoltre, secondo i dati Unicef del 2017 riguardanti 28 Paesi nel mondo, su 10 ragazze che hanno avuto rapporti sessuali forzati, 9 rivelano di essere state vittime di una persona conosciuta o vicina alla famiglia.

Le cose che il Santo Padre ha ricordato sono tutte vere e degne di nota, ma se parlare dell’incidenza dell’omoerotismo nelle statistiche sugli abusi operati dal clero va fuori dal tema del summit (così Scicluna), come mai ricordare le statistiche sull’ambiente «del quartiere, della scuola, dello sport» (così il Papa) resterebbe in tema?

Questo simultaneo distinguere e accomunare, escludere e includere… potrebbe dare all’osservatore non benevolo l’impressione che proprio mentre si celebra un evento mondiale per avviare l’operazione glasnost della/nella Chiesa… si perpetuano in quella stessa sede veti e silenzi.

Le conferenze episcopali, i Vescovi e il Papa: trovare la quadra della collegialità

Ma la questione dell’omoerotismo è lungi dall’essere l’unica a porre problema, anche sul piano del governo e della riforma del Diritto implicata da molte dichiarazioni: se il summit sugli abusi adombrava già fin dalla sua convocazione l’inusitata prerogativa di conferire ipso facto alle Conferenze Episcopali un’autorità ecclesiale che difficilmente poteva restare sul mero piano consultivo (e del resto il Santo Padre ha indicato questo orizzonte fin da Evangelii Gaudium 32), la quinta risoluzione proposta dal Santo Padre nel suo discorso conclusivo ha il merito di scoprire un grosso problema – ossia la disomogeneità complessiva del trattamento dei casi a livello globale – ma senza offrire una soluzione pratica.

Insomma, «riaffermare l’esigenza dell’unità dei Vescovi nell’applicazione di parametri che abbiano valore di norme e non solo di orientamenti» è una cosa semplice e bella, sul piano morale e anche spirituale. Per esigere che tale affermazione riguardi il piano amministrativo bisogna chiarire almeno un punto: le conferenze episcopali diventano cogenti in merito alle procedure (ossia prevalgono sugli Ordinari del Luogo)? Questa sarebbe una rivoluzione ecclesiologica non priva di rischi, anche evidenti. L’alternativa è che a mediare “l’unità dei Vescovi” si ponga l’unico altro piano che la Chiesa nativamente ha, ossia il piano universale: nell’impossibilità di convocare un “concilio ecumenico permanente” cum Petro et sub Petro, l’unica alternativa sembrerebbe essere quella di implicare continuamente «il pastore della Chiesa che presiede nella carità» (così Papa Francesco a metà del discorso!), ossia il Romano Pontefice. Donde scaturiscono due problemi, uno teorico e uno pratico:

  1. Che fine fanno la collegialità e la sinodalità di cui si parla tanto?
  2. Come si può affidare alla Curia Romana (poiché essa esiste appunto per coadiuvare il Romano Pontefice nel tradurre in concretezza il governo della Chiesa universale) le leve apicali di una riforma che deve essere condotta anzitutto al suo interno?

Come si vede, la questione dell’esclusione della parola “omosessualità” dai lavori del summit è importante e rivelativa, ma ad essa soggiacciono incertezze e ambiguità più grandi e più gravi: del resto, quanto a quella si potrebbe pur sempre pretendere che il Santo Padre abbia inteso includerla laconicamente sull’inciso del punto 4, dedicato all’“escludere [dai candidati al sacerdozio, N.d.R.] le personalità problematiche”. Se non avessimo assistito ai briefing dell’Augustinianum.

Due punti di forza del discorso del Santo Padre

Come ho cercato di illustrare, non è solo mio, purtroppo, il parere per il quale il discorso conclusivo del summit fotografi più un cantiere avviato (pieno di serie incognite teoriche e pratiche) che un accurato progetto di lavoro con dettagliato preventivo di spesa.

Del resto, evidentemente conscio di questi (e forse altri) limiti dell’evento, lo stesso Papa Francesco aveva invitato a moderare le aspettative a riguardo. Tuttavia il testo comporta almeno due importanti spunti che possono e debbono fin d’ora essere assimilati da tutti – il primo sul piano socioculturale, il secondo sul versante più strettamente mistico ed ecclesiale.

Anzitutto, il Santo Padre ha insistito in maniera finora inusitata sulla piaga della pornografia. E qui viene fuori l’utilità di limitare (anzi di bandire) le esclusioni: non solo la pedopornografia, ma ogni pornografia, laddove giustamente il Papa considera vittime della pornografia non solo quanti a ogni titolo concorrono a produrla, ma pure quelli che a ogni titolo concorrono a consumarla (fermo restando che gli uni e gli altri restano pur sempre anche carnefici della dignità umana). Coraggiosamente il Papa parla di “dipendenza” a tal riguardo, e ammette che essa riguarda anche dei chierici.

I seminaristi, i sacerdoti, i religiosi, le religiose, gli operatori pastorali e tutti devono essere consapevoli che il mondo digitale e l’uso dei suoi strumenti incide spesso più profondamente di quanto si pensi. Occorre qui incoraggiare i Paesi e le Autorità ad applicare tutte le misure necessarie per limitare i siti web che minacciano la dignità dell’uomo, della donna e in particolare dei minori:. Fratelli e sorelle: il reato non gode del diritto alla libertà. Occorre assolutamente opporci con la massima decisione a questi abomini, vigilare e lottare affinché lo sviluppo dei piccoli non venga turbato o sconvolto da un loro accesso incontrollato alla pornografia, che lascerà segni negativi profondi nella loro mente e nella loro anima. Occorre impegnarci perché i giovani e le giovani, in particolare i seminaristi e il clero, non diventino schiavi di dipendenze basate sullo sfruttamento e l’abuso criminale degli innocenti e delle loro immagini e sul disprezzo della dignità della donna e della persona umana. Si evidenziano qui le nuove norme “sui delitti più gravi” approvate dal Papa Benedetto XVI nel 2010, ove era stata aggiunta come nuova fattispecie di delitto «l’acquisizione, la detenzione o la divulgazione» compiuta da un membro del clero «in qualsiasi modo e con qualsiasi mezzo, di immagini pornografiche aventi ad oggetto minori». Allora si parlava di «minori di anni 14», ora pensiamo di dover innalzare questo limite di età per allargare la tutela dei minori e insistere sulla gravità di questi fatti.

Il rilievo di questo passaggio – in cui si incoraggiano perfino gli Stati a combattere la pornografia! – sta nel fatto che l’intera società viene descritta come almeno virtualmente disposta all’abuso, quando non addirittura implicato in qualche sua forma: la pornografia è vera violenza sessuale, e il numero di intermediari tra il fruitore e la vittima (principale) non fa che amplificarne il dramma, cristallizzandolo in una cupa struttura di peccato.

Il secondo passaggio importante del discorso è quello conclusivo, col quale Papa Francesco riprende un tema già fortemente accennato sopra: «Dietro a questo c’è satana».

E così come dobbiamo prendere tutte le misure pratiche che il buon senso, le scienze e la società ci offrono, così non dobbiamo perdere di vista questa realtà e prendere le misure spirituali che lo stesso Signore ci insegna: umiliazione, accusa di noi stessi, preghiera, penitenza. È l’unico modo di vincere lo spirito del male. Così lo ha vinto Gesù[13].

Ma questa purificazione viene portata avanti dal “Popolo fedele di Dio” per vie silenziose e perlopiù invisibili:

nel suo silenzio quotidiano, in molte forme e maniere continua a rendere visibile e attesta con “cocciuta” speranza che il Signore non abbandona, che sostiene la dedizione costante e, in tante situazioni, sofferente dei suoi figli. Il santo e paziente Popolo fedele di Dio, sostenuto e vivificato dallo Spirito Santo, è il volto migliore della Chiesa profetica che sa mettere al centro il suo Signore nel donarsi quotidiano.

Per sostenere ciò, Francesco si è appoggiato sull’autorità di un grande dottore della Chiesa, Teresa Benedetta della Croce:

[…] nella notte più oscura sorgono i più grandi profeti e i santi. Tuttavia, la corrente vivificante della vita mistica rimane invisibile. Sicuramente gli avvenimenti decisivi della storia del mondo sono stati essenzialmente influenzati da anime sulle quali nulla viene detto nei libri di storia. E quali siano le anime che dobbiamo ringraziare per gli avvenimenti decisivi della nostra vita personale, è qualcosa che sapremo soltanto nel giorno in cui tutto ciò che è nascosto sarà svelato.

Così Francesco conclude con una parola profetica: «Sarà proprio questo santo Popolo di Dio a liberarci dalla piaga del clericalismo, che è il terreno fertile per tutti questi abomini».

Due profetesse al summit

Clericalismo: una parola venuta in uggia a molti, i quali – anche senza pregiudizi – hanno maturato l’impressione che anch’essa sia poco più di un vuoto flatus vocis col quale promettere che tutto cambierà operando al contempo perché tutto resti così com’è. Tutta la storia della Chiesa – a cominciare da quella sua radice che prima dell’Avvento del Messia fu la Sinagoga – porta i segni di questo diabolico “gattopardismo”:

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che innalzate i sepolcri ai profeti e adornate le tombe dei giusti, e dite: Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non ci saremmo associati a loro per versare il sangue dei profeti; e così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli degli uccisori dei profeti. Ebbene, colmate la misura dei vostri padri!

Mt 23, 29-32

Ogni anti-sistema può diventare, a suo modo, sistema: lo stesso vale per ogni mafia, per ogni casta, per ogni corruzione. Si può essere clericali anche – e anzi perfino in modo più sublime! – mentre si condanna il clericalismo. Sbagliano però – l’ho scritto ormai fino alla noia – quanti negano che il clericalismo, in sé, abbia molto a che vedere con gli abusi di potere, di coscienza e sessuali. Francesco ha invece indicato un’ermeneutica più complessa e complessiva – è nell’interesse di chi ama la Chiesa adoperarsi perché essa non divenga un’arma peculiare dell’attuale casta degli anti-casta.

La prova del nove, inattesa come i veri soffi dello Spirito, sta nel fatto che due tra le relazioni in assoluto più dense, più ricche, più critiche e più libere, sono arrivate da persone che non fanno parte del clero. Una è una consacrata, ed è suor Veronica Openibo; l’altra è (addirittura!) una laica, nonché una giornalista, ovvero la dottoressa Valentina Alazraki.

Quindi, non nascondiamo più simili  fatti per paura di sbagliare. Troppo spesso vogliamo stare tranquilli finché la tempesta non si è placata! Quella tempesta non passerà. È in gioco la nostra credibilità come Chiesa. Penso che Gesù ci abbia detto, e ci dà questa forte affermazione: “Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, è meglio per lui che gli si metta una macina da asino al collo e venga gettato nel mare” (Marco 9, 42). Quindi, miei cari fratelli e sorelle, dobbiamo affrontare il problema e cercare la guarigione per le vittime di abusi. La prassi comune per il clero – in passato e in alcune aree ancora nel presente – era/è di dare sostegno “a uno di noi” per evitare di portare alla luce uno scandalo e gettare discredito su tutta la Chiesa. Ho detto al mio gruppo ieri: ero solita usare tre “s”: segreto, silenzio, e, l’ultima, “solidarietà” per gli uomini e sostegno per ognuno di noi. Per le donne vale lo stesso, ma la la terza [parola] è differente…potete farmi domanda dopo sul punto. Dobbiamo affrontare questa questione e curare le ferite delle vittime di abuso. Il normale processo, come ho detto, è sostegno per gli uomini, ma troviamo un modo insieme. Tutti i responsabili – voglio dirlo – a prescindere dal loro status clericale, che sono giudicati colpevoli devono ricevere la stessa pena per gli abusi sui minori.

Madre Openibo scandisce apertamente la posta in gioco, che riguarda un attributo missiologico ed ecclesiologico: la credibilità della Chiesa, cioè il quid per il quale ordinariamente lo Spirito opera la salvezza degli uomini. Suor Veronica ha smontato con un’alzata di sopracciglia la pretesa che la problematica riguardi i vizi dell’Occidente secolarizzato e non anche Africa e Asia. La sua proposta – non priva di aspetti problematici sul piano del diritto – si configura così:

Sarebbe possibile sfidare ogni diocesi a riunire uomini e donne d’integrità: laici, insieme a religiosi e clero, per formare una commissione congiunta che condivida l’esperienza sulle procedure documentali e i protocolli, le implicazioni legali e finanziarie delle denunce e i necessari canali di responsabilità e imputabilità? Una persona qualificata – laico, religioso o sacerdote – potrebbe essere il presidente ideale di un tale gruppo. Inoltre, dovrebbe cercare di capire come affrontare al meglio le gravi questioni degli abusi sessuali che stanno già esplodendo in alcuni paesi asiatici e africani come è già accaduto già altrove.

Da parte sua, quella veterana del vaticanismo che è la messicana Valentina Alazraki ha declinato la questione della trasparenza toccando con la lingua il dente dolente del rapporto spesso dialettico, quando non conflittuale, tra la Chiesa e i media. Ovvero, per dirla meglio, tra i media cattolici e quel clero clericale incapace di riconoscere negli operatori della verità i propri amici e alleati. Ha fatto il giro del mondo la frase “noi saremo i vostri peggiori nemici”, ma quella frase ha una protasi cristallina:

Se siete contro quanti commettono abusi o li coprono, allora stiamo esattamente dalla stessa parte. Possiamo essere alleati, non nemici. Vi aiuteremo a trovare le mele marce e a vincere le resistenze per allontanarle da quelle sane.

Ma se voi non vi decidete in modo radicale di stare dalla parte dei bambini, delle mamme, delle famiglie, della società civile, avete ragione ad avere paura di noi, perché saremo i vostri peggiori nemici. Perché noi giornalisti desideriamo il bene comune.

Una lezione di ecclesiologia e di deontologia giornalistica, di etica del lavoro e di spiritualità: mentre la Alazraki parlava sembrava di veder volteggiare in aula lo spirito di Navarro Valls. E anche qui – così si distinguono i veri profeti dai falsi – la condizione è la disponibilità a passare dalle parole ai fatti: mettete le vittime in primo piano; lasciatevi consigliare; professionalizzate la comunicazione. Il tutto non citando queste frasi in un’omelia o in una lettera pastorale, ma facendo:

Papa Francesco ha chiesto ai partecipanti a questa riunione di incontrare le vittime, di ascoltarle e di mettersi a loro disposizione, prima di venire a Roma.

Non vi chiederò di alzare la mano per vedere chi lo ha fatto, ma datevi una risposta in silenzio.

Le vittime non sono numeri, non sono statistica, sono persone a cui è stata rovinata la vita, la sessualità, l’affettività, la fiducia negli altri esseri umani, forse persino in Dio, persone in cui è stata distrutta anche la capacità di amare.

E perché è tanto importante l’incontro con le vittime? Perché è molto difficile informare qualcosa di cui non si conosce, di cui non ha una conoscenza diretta.

Nel caso degli abusi è ancora più evidente. Non si può parlare di questo tema se non si è ascoltato le vittime, se non si è condiviso il loro dolore, se non si è toccato con mano le ferite che gli abusi hanno provocato non solo nel loro corpo, ma anche nella loro mente, nel loro cuore, nella loro fede. Questo lo abbiamo visto. Se le conoscerete, queste persone, queste vittime, avranno un nome, avranno un volto, e l’esperienza avuta con loro si rifletterà non solo sul modo in cui affronterete il problema, ma anche sul modo in cui lo comunicherete e cercherete di risolverlo.

[…]

Prima di prendere decisioni, chiedete consiglio a persone con giudizio che vi possono aiutare.

Tra questi consiglieri credo che ci dovrebbero sempre essere dei comunicatori. Credo che la Chiesa dovrebbe avere, a tutti i livelli, esperti della comunicazione, e ascoltarli quando le dicono che conviene sempre più informare che tacere o addirittura mentire. È un’illusione, come ho già detto, pensare che oggi si possa nascondere uno scandalo. È come coprire il cielo con un dito. Non si può, non è più né accettabile né ammissibile. Perciò, tutti voi dovete capire che il silenzio costa molto più caro dell’affrontare la realtà e renderla pubblica.

Credo che sia indispensabile che investiate nella comunicazione in tutte le vostre strutture ecclesiastiche, con persone altamente qualificate e preparate a far fronte alle esigenze di trasparenza del mondo attuale.

La figura del portavoce è fondamentale. Non deve essere solo una persona molto preparata, ma deve anche poter contare sulla piena fiducia del capo – diciamo così – del cardinale, ed avere un accesso diretto a lui 24 ore su 24, perché questo non è un lavoro dalle 9 della mattina alle 5 del pomeriggio. Tutto può succedere in qualsiasi momento.

E il portavoce deve sempre avere accesso diretto alla persona a cui deve riferire.

[…]

Che tipo di trasparenza si aspettano i giornalisti, le mamme, le famiglie, i fedeli, l’opinione pubblica, da un’istituzione come la Chiesa?

Credo che sia fondamentale che, a tutti i livelli, dalla parrocchia fino a qui, in Vaticano, ci siano strutture forse standardizzate, ma molto agili e flessibili, che offrano con rapidità, informazioni accurate.

Possono essere informazioni incomplete per mancanza di un’indagine più approfondita, ma la risposta non può essere il silenzio o il no comment, allora, cercheremo le risposte chiedendo ad altri, e saranno quindi terzi a informare la gente nel modo in cui vorranno farlo.

Se non disponete di tutta l’informazione necessaria, se ci sono dubbi, se c’è già un’inchiesta, è meglio spiegarlo nel miglior modo possibile affinché non si abbia la sensazione che non volete rispondere perché state nascondendo qualcosa. Occorre dare seguito all’informazione in ogni momento e soprattutto occorre reagire con rapidità.

Insisto su questo punto, perché se non si informerà in modo tempestivo, la risposta non interesserà più, sarà troppo tardi e altri lo faranno, magari in modo non corretto. Allora è meglio che tu lo faccia correttamente e il più velocemente possibile.

Il rischio è molto alto e il prezzo di questo tipo di condotta è ancora più alto. Il silenzio dà la sensazione che le accuse siano totalmente vere, laddove nel migliore dei casi sono false, o il più delle volte sono vere e false a metà; se si risponde con il silenzio tutto rimarrà con l’idea che queste accuse sono vere. E se non rispondono, pensiamo che abbiano paura di rispondere perché hanno paura di essere smentiti subito dopo.

Ammetto di aver ascoltato le relazioni e seguito i briefing con una crescente stanchezza, fino a venerdì: ero arrivato a confidare a degli amici che se questo doveva essere il summit tanto valeva che tutti andassero a fare una passeggiata sul Lungotevere (febbraio aveva regalato giornate degne di aprile). Ma sabato mattina un vento freddo e graffiante investiva Roma, sconsigliando di uscire. Al pomeriggio usciva gagliardo, quel Vento, dalla bocca di due profetesse. Il summit avrà forse perso l’occasione di dire parole importanti su tematiche essenziali, ma nonostante tutto lo Spirito – e le parole che lo indicano significano sempre anche “vento” – ha messo la Chiesa sul sentiero della Verità. Anche questa volta.