Sempre più studi si avvicinano a confermare quello che come cristiani sappiamo già: che per stare bene occorre considerare tutto l’uomo, compresa la sua dimensione spirituale che incide anche sulla salute fisica.di Giuseppe Altamore
La spiritualità e la preghiera possono essere fattori di resilienza nella malattia mentale?
L’interessante quesito è stato posto durante una giornata di formazione al Fatebenefratelli di Brescia. L’obiettivo dell’incontro, dal titolo Neuroscienze, psichiatria e spiritualità, era quello di facilitare il confronto di persone provenienti da diverse esperienze – neuroscienziati, psicologi, neuropsicologi, psichiatri, tecnici della riabilitazione psichiatrica e religiosi dell’Ordine ospedaliero – per condividere alcuni punti di vista.
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Stimolante la conclusione della discussione: le persone che soffrono mentalmente riescono a cavarsela meglio se vivono una vita religiosa attiva e intensa rispetto ai pazienti che non hanno il dono della fede o non sono praticanti. Mancano però dati scientifici sufficienti a sostegno dell’ipotesi emersa.
Del resto, non è una novità che esiste uno stretto legame tra spirito e psiche che ci rende unici tra gli esseri viventi. Tutti distinguiamo, sulla scia della cultura greca classica, tra corpo e anima. Il cristianesimo, però, con l’ebreo san Paolo introduce un terzo elemento, lo spirito: è il principio di un’altra vita rispetto a quella psicofisica, un principio vitale che ci rende figli di Dio. Superando la separazione cartesiana tra corpo mente, negli ultimi anni gli studi si sono concentrati nel considerare l’uomo nella sua integrità fisica e spirituale.
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Quindi la malattia mentale o semplicemente quei disturbi borderline, che possono condizionare l’esistenza, sono anche malesseri spirituali che non possono essere separati dall’essere vivente in quanto tale. E come si può curare l’aspetto spirituale sempre presente se non con gli strumenti propri della fede?