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Se Gesù è l’unico salvatore, come può Dio aver voluto le altre religioni?

PAPA IMAM EMIRATI ARABI

Vincenzo PINTO / AFP

Giovanni Marcotullio - pubblicato il 11/02/19

A una settimana dalla sua firma, il “Documento sulla fratellanza umana per la pace universale e la convivenza comune” continua a far parlare di sé: al centro delle polemiche, da parte cattolica, sta il passaggio sul pluralismo religioso, accusato di essere arrivato ben oltre i limiti imposti dai decreti del Concilio Vaticano II. Eppure anche il teologo della casa pontificia, un domenicano polacco scelto da Benedetto XVI, ha dato il suo placet al testo. Cerchiamo di capire bene perché.

La bimba, rifugiata nel bosco con la famiglia per sfuggire allo sceriffo, s’avvicinò ad Azím mentre nell’accampamento la cena aveva preso i toni di una festa.

Salem, piccola luna – disse lui alla bambina che s’era avvicinata.

– Ti ha dipinto Dio? – chiese la piccola al moro.

– Se mi ha dipinto Dio? – replicò di rimando il guerriero, un po’ sorpreso. E poi, facendosi serio – Certamente.

– Perché?

– Perché… Allah ama varietà meravigliose.

La scena mi colpì sin da quando la vidi per la prima volta, da bambino, in Robin Hood, principe dei ladri. Mi è tornata alla memoria in questi giorni, dopo che diversi amici (e anche qualcuno che non mi onora della sua amicizia) mi hanno chiesto ragione del passaggio del Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune in cui si parla del pluralismo religioso:

La libertà è un diritto di ogni persona: ciascuno gode della libertà di credo, di pensiero, di espressione e di azione. Il pluralismo e le diversità di religione, di colore, di sesso, di razza e di lingua sono una sapiente volontà divina, con la quale Dio ha creato gli esseri umani. Questa Sapienza divina è l’origine da cui deriva il diritto alla libertà di credo e alla libertà di essere diversi. Per questo si condanna il fatto di costringere la gente ad aderire a una certa religione o a una certa cultura, come pure di imporre uno stile di civiltà che gli altri non accettano.

E si comprende facilmente che qualcuno resti sorpreso (o pure sconcertato e altri perfino scandalizzati) dall’affermazione che sarebbe Dio a volere il pluralismo: «Ma allora – dicono – tanto vale richiamare a casa tutti i missionari del mondo!», e tanto varrebbe cessare ogni forma di evangelizzazione. Si pensa questo perché da qualche parte sopravvive sempre negli uomini la tentazione di concepire l’evangelizzazione come l’inculcare negli altri una serie di convinzioni e assoggettarli a una serie di pratiche. Il che è tanto lontano dal vero quanto l’inanellare una donna e lo stuprarla restano distanti da un matrimonio – il quale è anzitutto e soprattutto incontro, dialogo, stupore per la scoperta del sé nell’altro e dell’altro nel sé, riconoscimento di una Presenza in quella presenza, infine conversione e dedizione esclusiva e irrevocabile a questo evento.

Incontro, dialogo, stupore, riconoscimento, conversione e dedizione: sono parole che il Santo Padre usa spesso nei suoi discorsi sulle culture, sulle civiltà e sulle religioni. Sono altresì passaggi che ogni uomo ragionevole dovrebbe cogliere, almeno quando si confronta con la propria esperienza: il fatto è che in tema di evangelizzazione molti di quelli che prendono la parola non hanno alcuna esperienza, e ammanniscono allora cose studiate (male) e (mal) comprese. Non a caso Giovanni il Battista parlava invece di sé come dell’“amico dello sposo” (Gv 3, 29). Proprio venerdì mattina, incontrando i Padri Bianchi e le Suore Bianche, Papa Francesco ha detto – fra l’altro –:

[…] alla luce del cammino fatto fino adesso a partire dalla vostra fondazione, sapete che l’annuncio del Vangelo non è sinonimo di proselitismo; è quella dinamica che conduce a farsi prossimo degli altri per condividere il dono ricevuto, l’incontro d’amore che ha cambiato la vostra vita e vi ha portato a scegliere di consacrare la vita al Signore Gesù, Vangelo per la vita e la salvezza del mondo. È sempre per Lui, con Lui e in Lui che si vive la missione. Pertanto, vi incoraggio a tenere lo sguardo fisso su Gesù Cristo, per non scordare mai che il vero missionario è prima di tutto un discepolo. Abbiate cura di coltivare il legame particolare che vi unisce al Signore, mediante l’ascolto della sua Parola, la celebrazione dei Sacramenti e il servizio ai fratelli, affinché i vostri gesti manifestino la sua presenza, il suo amore misericordioso, la sua compassione a coloro ai quali lo Spirito vi manda e vi conduce.

Quando la presenza altrui è esclusa, quando non è riconosciuta come un’entità personale – con tutto quanto ciò comporta – “l’amico dello sposo” non può muovere un dito: al limite ci sarà lavoro per un impresario di pompe funebri. Prendi un cadavere, lo metti in una cassa, lo porti in chiesa e poi lo conservi al sicuro. E purtroppo a leggere certi “siti cattolici” sembra davvero di veder descritta una sorta di “missiologia da becchini”: vai in un posto, “annunci Cristo” (s’intende che si sale su un pulpito e si comincia a predicare), amministri i sacramenti (poco importa che li chiedano, che li comprendano…) e l’implantatio Ecclesiæ è bella che fatta. «Accedit verbum ad elementum…», diceva sant’Ambrogio, eccetera eccetera.

Ma come fa il verbum ad accedere? E qual è l’elementum? Questioni da filosofi, spiegano i soloni del caso: “annunciare Cristo significa annunciare Cristo!” – e via di tautologie (che non significano niente ma danno all’ascoltatore poco strutturato l’idea di qualcuno che ne sa a pacchi ed è granitico nelle virtù teologali). In uno di questi siti ho dovuto perfino leggere che «quanto alla “libertà di essere diversi”, credo che occorrerà attendere un Vaticano III»! Dialogare – cosa sempre fondamentale – è difficile con costoro come con i guerriglieri dell’Isis. Anche su questo tornano utili i consigli del Papa di un anno fa:

Le resistenze dopo il Vaticano II, tuttora presenti, hanno questo significato: relativizzare, annacquare il Concilio. Mi dispiace ancora di più quando qualcuno si arruola in una campagna di resistenza. E purtroppo vedo anche questo. Non posso negare che ce ne siano, di resistenze. Le vedo e le conosco. Ci sono le resistenze dottrinali. Per salute mentale io non leggo i siti internet di questa cosiddetta “resistenza”. So chi sono, conosco i gruppi, ma non li leggo, semplicemente per mia salute mentale. Se c’è qualcosa di molto serio, me ne informano perché lo sappia. È un dispiacere, ma bisogna andare avanti. Quando percepisco resistenze, cerco di dialogare, quando il dialogo è possibile; ma alcune resistenze vengono da persone che credono di possedere la vera dottrina e ti accusano di essere eretico. Quando in queste persone, per quel che dicono o scrivono, non trovo bontà spirituale, io semplicemente prego per loro. Provo dispiacere, ma non mi soffermo su questo sentimento per igiene mentale.

Igiene mentale, dice bene il Papa: evitiamo la polemica. Ma vorrei tornare al Documento di Abu Dhabi e alla questione del pluralismo, che merita di essere posta seriamente (e di ricevere risposte serie): che vuol dire che Dio lo voglia, il pluralismo? Che voglia (e/o abbia voluto) gli scismi, le eresie? Che voglia la resistenza di alcuni all’evangelizzazione? Che voglia (e/o abbia voluto) i sacrifici umani e i culti misterici con annessa antropofagia? E allora perché Gesù ha mandato gli apostoli «fino agli estremi confini della terra» (At 1, 8)? Di più, perché mandare «nel mondo» (Gv 1, 8) il Figlio unigenito, se non fosse vero che «non c’è altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati» (At 4, 12)?

Nulla di tutto questo è decaduto, né viene messo in discussione da chiunque abbia un minimo di senso cattolico. Le altre domande – sensate e serie – mettiamole in ordine e le affronteremo tutte. Anzitutto dovremo capire che cos’è il documento di cui parliamo (e cosa non è); quindi lo dovremo collocare all’interno di una precisa storia dogmatica e magisteriale; infine dovremo comprenderne l’orizzonte teologico.

Un “testo politico”

Il primo errore di quanti passano la Dichiarazione anzitutto al vaglio del setaccio dogmatico è dimenticare che essa non vede solo la firma del Papa, ma anche quella di un eminente esponente della Umma: dunque non solo non potrà contenere esplicite confessioni di fede cristologica/trinitaria, ma dovrà essere giudicata anzitutto per cosa è riuscita a far firmare alla controparte. Proprio quel passo – quello “incriminato” – è stato firmato da un uomo che ancora il 22 giugno 2016 dichiarava:

L’apostasia dei nostri giorni [dall’Islam, N.d.R.] si presenta in forma di crimini, attentati e alto tradimento, per questo ci rapportiamo ad essa come a un crimine a cui è necessario opporsi e che dev’essere punito.

E in particolare:

Quanti sono edotti nella dottrina islamica e gli imam delle quattro scuole di giurisprudenza considerano l’apostasia un crimine e concordano sul fatto che l’apostata debba o ritrattare l’apostasia oppure essere messo a morte.

In quella medesima circostanza, Al-Tayyib ricordò che secondo un hadit islamico è permesso uccidere un correligionario musulmano in tre circostanze: adulterio, omicidio e apostasia.

Questo disse il Grande Imam esattamente un mese dopo il suo primo incontro con Papa Francesco (23 maggio 2016). Appena dieci mesi dopo il Pontefice e lo Sceicco si sarebbero di nuovo incontrati, stavolta nell’università di Al-Azhar. In quel contesto (cioè in casa dell’ospite) Papa Francesco osò insegnare che

siamo chiamati a smascherare la violenza che si traveste di presunta sacralità, facendo leva sull’assolutizzazione degli egoismi anziché sull’autentica apertura all’Assoluto. Siamo tenuti a denunciare le violazioni contro la dignità umana e contro i diritti umani, a portare alla luce i tentativi di giustificare ogni forma di odio in nome della religione e a condannarli come falsificazione idolatrica di Dio: il suo nome è Santo, Egli è Dio di pace, Dio salam.

In quel discorso, Papa Francesco – il quale nello stesso viaggio avrebbe visitato i fratelli copti, vittime della violenza islamista – pronunciò per sedici volte la parola “violenza”. Per capire la portata di quella audace allocuzione è utile rileggere un passaggio centrale della celeberrima lezione di Ratisbona di Benedetto XVI:

Nel settimo colloquio (διάλεξις – controversia) edito dal prof. Khoury, l’imperatore tocca il tema della jihād, dellaguerra santa. Sicuramente l’imperatore sapeva che nella sura 2, 256 si legge: “Nessuna costrizione nelle cose di fede”. È probabilmente una delle sure del periodo iniziale, dice una parte degli esperti, in cui Maometto stesso era ancora senza potere e minacciato. Ma, naturalmente, l’imperatore conosceva anche le disposizioni, sviluppate successivamente e fissate nel Corano, circa la guerra santa. Senza soffermarsi sui particolari, come la differenza di trattamento tra coloro che possiedono il “Libro” e gli “increduli”, egli, in modo sorprendentemente brusco,brusco al punto da essere per noi inaccettabile, si rivolge al suo interlocutore semplicemente con la domanda centrale sul rapporto tra religione e violenza in genere, dicendo: «Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava».[3] L’imperatore, dopo essersi pronunciato in modo così pesante, spiega poi minuziosamente le ragioni per cui la diffusione della fede mediante la violenza è cosa irragionevole. La violenza è in contrasto con la natura di Dio e la natura dell’anima. «Dio non si compiace del sangue – egli dice –, non agire secondo ragione, “σύν λόγῳ”, è contrario alla natura di Dio. La fede è frutto dell’anima, non del corpo. Chi quindi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non invece della violenza e della minaccia… Per convincere un’anima ragionevole non è necessario disporre né del proprio braccio, né di strumenti per colpire né di qualunque altro mezzo con cui si possa minacciare una persona di morte…»[4]

L’affermazione decisiva in questa argomentazione contro la conversione mediante la violenza è: non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio.[5] L’editore, Theodore Khoury, commenta: per l’imperatore, come bizantino cresciuto nella filosofia greca, quest’affermazione è evidente. Per la dottrina musulmana, invece, Dio è assolutamente trascendente. La sua volontà non è legata a nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezza.[6] In questo contesto Khoury cita un’opera del noto islamista francese R. Arnaldez, il quale rileva che Ibn Hazm si spinge fino a dichiarare che Dio non sarebbe legato neanche dalla sua stessa parola e che niente lo obbligherebbe a rivelare a noi la verità. Se fosse sua volontà, l’uomo dovrebbe praticare anche l’idolatria.[7]

Così si spiega, dieci anni dopo, l’appello incondizionato del Papa in casa dell’Imam:

Ad attuare questo imperativo sono chiamate, anzitutto e oggi in particolare, le religioni perché, mentre ci troviamo nell’urgente bisogno dell’Assoluto, è imprescindibile escludere qualsiasi assolutizzazione che giustifichi forme di violenza. La violenza, infatti, è la negazione di ogni autentica religiosità.

Il 7 novembre 2017, poi, c’è stato nel Palazzo Apostolico il terzo incontro tra i due capi religiosiincontro privato «che rappresentava un po’ l’apice di un lavoro di incontro che aveva portato al ristabilimento delle relazioni tra Santa Sede e Al-Azhar». Dalle dichiarazioni di Papa Francesco in conferenza stampa al ritorno dal viaggio apostolico negli Emirati Arabi Uniti sappiamo indirettamente che a quell’epoca la stesura del documento non era stata ancora materialmente avviata:

Il Documento è stato preparato con tanta riflessione e anche pregando. Sia il grande Imam con la sua équipe, sia io con la mia, abbiamo pregato tanto per riuscire a fare questo Documento. Perché per me c’è un solo pericolo grande in questo momento: la distruzione, la guerra, l’odio fra noi. E se noi credenti non siamo capaci di darci la mano, abbracciarci, baciarci e anche pregare, la nostra fede sarà sconfitta. Questo Documento nasce dalla fede in Dio che è Padre di tutti e Padre della pace e condanna ogni distruzione, ogni terrorismo, dal primo terrorismo della storia che è quello di Caino. È un documento che si è sviluppato in quasi un anno, andata, ritorno, preghiere… Ma è rimasto così a maturare, riservato, per non partorire il bambino prima del tempo, perché diventi maturo. Grazie.

Insomma, un esempio concreto di cosa intenda Francesco quando dice – lo ha fatto ormai più volte – che «dobbiamo avviare processi, più che occupare spazi»: non sono le dichiarazioni di Al-Tayyib del 2016 a contraddire questo Documento, ma precisamente il contrario – è la firma di questo documento a segnare un’importante pietra miliare: «Diciamo che da adesso in poi – commentava Yahya Pallavicini (Coreis) – lo spazio per l’ambiguità è finito». E spiegava:

Non c’è più possibilità di essere ambigui. Come ha detto Papa Francesco, qui si parla di “alterità”. Significa che dobbiamo rispettare l’altro nella sua diversità, camminare insieme uniti e scoprire che l’altro – sebbene usi una grammatica diversa e un metro d’interpretazione diverso – mi è fratello. Chi dovesse manipolare o disattendere questi principi, significa che vuole fare il furbo e cavalcare l’ambiguità di prima.

Chiaramente Al-Tayyib e il suo team si saranno fatti bene i conti – davanti a Dio e alla loro coscienza, ma pure davanti alla storia e al loro contesto – per stilare poi, privatamente beninteso, un “consuntivo costi-benefici”: questa virata oggettiva sarà costata moltissimo all’Imam, in termini di comunicazione. È possibile che ora si cerchi di forzargli la mano (e purtroppo non si può escludere la violenza): solo il tempo lo dirà.

Leggerlo “da cattolici”

È ovvio che un simile documento “d’unione” sia per sua natura un testo compromissorio, i cui effetti collaterali sono anzitutto il risultare compromettente per le due parti in causa: se per l’Imam risulta compromettente il cedimento sullo hadit sopra ricordato, per il Papa è compromettente la menzione del pluralismo religioso come espressione della “sapiente volontà divina”, che ad alcuni commentatori è parsa andare ben al di là delle disposizioni delle dichiarazioni conciliari Nostra ætate e Dignitatis humanæ. Nella prima, relativa alle «relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane», si legge:

La Chiesa guarda anche con stima i musulmani che adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra (5), che ha parlato agli uomini. Essi cercano di sottomettersi con tutto il cuore ai decreti di Dio anche nascosti, come vi si è sottomesso anche Abramo, a cui la fede islamica volentieri si riferisce. Benché essi non riconoscano Gesù come Dio, lo venerano tuttavia come profeta; onorano la sua madre vergine, Maria, e talvolta pure la invocano con devozione. Inoltre attendono il giorno del giudizio, quando Dio retribuirà tutti gli uomini risuscitati. Così pure hanno in stima la vita morale e rendono culto a Dio, soprattutto con la preghiera, le elemosine e il digiuno.

Se, nel corso dei secoli, non pochi dissensi e inimicizie sono sorte tra cristiani e musulmani, il sacro Concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione, nonché a difendere e promuovere insieme per tutti gli uomini la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà.

Nella seconda, dedicata «alla libertà sociale e civile in materia di religione», firmata poco più di un mese dopo, il 7 dicembre 1965, sta scritto:

[…] Dio rende partecipe l’essere umano della sua legge, cosicché l’uomo, sotto la sua guida soavemente provvida, possa sempre meglio conoscere l’immutabile verità. Perciò ognuno ha il dovere e quindi il diritto di cercare la verità (3) in materia religiosa, utilizzando mezzi idonei per formarsi giudizi di coscienza retti e veri secondo prudenza.

La verità, però, va cercata in modo rispondente alla dignità della persona umana e alla sua natura sociale: e cioè con una ricerca condotta liberamente, con l’aiuto dell’insegnamento o dell’educazione, per mezzo dello scambio e del dialogo con cui, allo scopo di aiutarsi vicendevolmente nella ricerca, gli uni rivelano agli altri la verità che hanno scoperta o che ritengono di avere scoperta; inoltre, una volta conosciuta la verità, occorre aderirvi fermamente con assenso personale.

Paolo VI tenne nel cassetto questo testo per più di un anno, a quanto riferiscono gli Atti Conciliari e i Diari di alcuni Padri: sapeva non solo di esporsi agli strali di una reazione (i primi di moltissimi altri, che però sarebbero arrivati da più parti), ma pure di andare a firmare un testo che sarebbe stato brandito da quanti intendevano (e intendono) smantellare la pretesa di unicità e universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, pure richiamata nel Proemio:

Il sacro Concilio professa pure che questi doveri attingono e vincolano la coscienza degli uomini, e che la verità non si impone che per la forza della verità stessa, la quale si diffonde nelle menti soavemente e insieme con vigore. E poiché la libertà religiosa, che gli esseri umani esigono nell’adempiere il dovere di onorare Iddio, riguarda l’immunità dalla coercizione nella società civile, essa lascia intatta la dottrina tradizionale cattolica sul dovere morale dei singoli e delle società verso la vera religione e l’unica Chiesa di Cristo. Inoltre il sacro Concilio, trattando di questa libertà religiosa, si propone di sviluppare la dottrina dei sommi Pontefici più recenti intorno ai diritti inviolabili della persona umana e all’ordinamento giuridico della società.

Ora, bisogna pur dire che vi sono frange reazionarie a cui questi testi – pure se interpretati nel modo più ortodosso e continuo possibile – stanno stretti assai: tali presenze (marginali ma chiassose) impugnano allora il fatto che si tratta di due Decreti e non di Costituzioni (dunque un argomento di “calibro documentale”), aggiungendo volentieri che li ha promulgati un Concilio “pastorale e non dogmatico” (poco importa che vi siano ben tre Costituzioni dogmatiche, tra i documenti: se non ci sono anatematismi essi non vedono vincoli).

Se si prende il testo della lettera di Gregorio VII all’emiro Al-Nacir (1076) si vede che quel testo medievale, invece, si spinge ben oltre i paletti che avrebbero posto i Padri del Vaticano II:

Dio Onnipotente, che desidera che tutti gli uomini si salvino e nessuno si perda, apprezza in noi soprattutto il fatto che, dopo avere amato Lui, amiamo nostro fratello, e che quello che non vogliamo sia fatto a noi non lo facciamo agli altri. Voi e noi ci dobbiamo questa carità reciprocamente, soprattutto perché crediamo e confessiamo l’unico Dio, ammesso nei diversi modi, e Lo lodiamo e veneriamo ogni giorno, come Creatore e Governatore di questo mondo.

Nostra ætate, infatti, non si azzarda a dire che cristiani e musulmani «crediamo e confessiamo l’unico Dio, ammesso nei diversi modi», ma che i musulmani «adorano un Dio unico, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente…». Insomma il Concilio non dice che i cristiani e i musulmani credono nel medesimo Dio; Gregorio VII lo scrisse.

E poco conta quel che mi obiettò giorni fa un giovane (e valente) storico, che cioè quella sarebbe stata “una lettera politica”, dovuta a una situazione congiunturale favorevole ai diritti locali dei cristiani e della Chiesa, mentre in altri contesti (come quello della guerra contro i turchi Selgiuchidi, 1074-1074) lo stesso Gregorio VII qualificò gli islamici di “pagani”: nel rivolgere ai musulmani un messaggio beneaugurante per la fine del Ramadan Giovanni Paolo II volle citare la lettera ad Al-Nacir e non i regesta relativi alla guerra (che poi devo ancora capire perché una lettera in cui si parla di cristiani e di vescovi sarebbe politica mentre un testo che parla di guerra avrebbe valenza dogmatica…). È vero, certo, che il Concilio Lateranense IV e quello di Basilea si espressero all’indirizzo dei musulmani con epiteti non amichevoli, ma proprio a quei notevoli testi si riferiva il decreto Nostra ætate, affermando che

il sacro Concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione, nonché a difendere e promuovere insieme per tutti gli uomini la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà.

“Dimenticare il passato” quanto all’inimicizia, si capisce, non riguardo alle pretese salvifiche di Cristo e della Chiesa, che difatti permangono intatte.

Quando Papa Francesco dice che «dal punto di vista cattolico il Documento non si è discostato di un millimetro dal Vaticano II» indica esplicitamente donde il testo sia nato e come vada recepito e interpretato. Anzi, contestualmente il Papa si è sbottonato anche di più, riferendo perfino dei suoi dubbi sul testo in lavorazione:

E ho voluto, prima di prendere la decisione di dire: “Sta bene così, lo finiamo così” – almeno da parte mia –, l’ho fatto leggere da qualche teologo e anche ufficialmente dal Teologo della Casa Pontificia, che è un domenicano, con la bella tradizione domenicana, non di andare a caccia di streghe ma di vedere dov’è la cosa giusta, e lui ha approvato. Se qualcuno si sente a disagio, io lo capisco, non è una cosa di tutti i giorni, e non è un passo indietro, è un passo avanti, ma un passo avanti che viene dopo cinquant’anni, dal Concilio che deve svilupparsi. Gli storici dicono che perché un Concilio metta radici nella Chiesa ci vogliono cento anni. Siamo a metà strada. E questo può suscitare perplessità, anche a me. Le dirò, ho visto una frase [del Documento] e mi sono detto: «Ma questa frase, non so se è sicura…». Era una frase del Concilio! E ha sorpreso anche me! Nel mondo islamico ci sono diversi pareri, ci sono alcuni più radicali, altri no. Ieri nel Consiglio dei saggi c’era anche almeno uno sciita, con un’universalità molto grande, e ha parlato bene… Ci saranno tra loro – non conosco bene – ma ci saranno discrepanze… È un processo, e i processi maturano, come i fiori, come la frutta.

Insomma, Francesco ha affermato esplicitamente di aver consultato padre Wojciech Giertych, frate predicatore polacco scelto da Benedetto XVI come successore del cardinale Georges Cottier: anche il domenicano ha trovato il testo ortodosso.

“La sapiente volontà di Dio”

E cerchiamo in ultimo – dopo aver accantonato (si spera) i possibili fraintendimenti – di arrivare alla questione teologica sottesa, cioè quella che ha “pizzicato” il catholicus sensus in molti – forse (a quanto egli stesso ha confidato) anche nel Papa.

Il pluralismo e le diversità di religione, di colore, di sesso, di razza e di lingua sono una sapiente volontà divina, con la quale Dio ha creato gli esseri umani.

Ecco la frase incriminata. Ora, se “politicamente” dobbiamo considerare preponderante il fatto che l’abbia sottoscritta l’Imam, dal punto di vista dogmatico è di importanza assoluta – per noi cattolici – che questo testo rechi la firma del Papa: ciò esige che essa abbia, custodisca e spieghi in senso cattolico una o più verità di fede.

Osserviamo dunque, anzitutto, che l’elenco delle realtà esprimenti il “pluralismo” non si limita affatto a quello religioso: la religione apre l’elenco davanti a colore, sesso, razza e lingua. “Colore” e “razza” sembrerebbero quasi sinonimi, e anche se qualche distinzione potrebbe ravvisarsi la questione particolare non appare qui rilevante. È invece importante che le distinzioni di sesso, razza/colore, lingua e religione (e proprio in quest’ordine) siano tutte narrate nel libro della Genesi.

La prima distinzione, quella di sesso, ha fatto versare fiumi d’inchiostro fin dai tempi dei Padri: Tommaso d’Aquino riteneva serenamente che in Paradiso ci si sarebbe accoppiati e riprodotti (in ossequio al primo racconto della creazione – Gen 1, 28), ma considerando che di fatto non si racconta di gestazioni e parti prima del peccato la riflessione patristica è stata influenzata dalla maledizione alla donna («partorirai con dolore» – Gen 3, 16) e, influenzati dalla temperie medio- e neoplatonica, alcuni padri hanno persino dubitato che i corpi edenici fossero realmente e pienamente fisici. Dunque qualcuno ha pure pensato che la creazione dell’uomo «maschio e femmina» (Gen 1, 27) sia avvenuta in previsione e in considerazione del peccato.

Ciò risentirebbe forse, secondo alcuni, delle mitologie eziologiche attestate altrimenti (e persino nel Simposio di Platone) che vedono l’uomo originario come un androgino e la successiva differenza sessuale come la punizione di una colpa (e/o l’effetto dell’invidia degli dèi). Conseguentemente, l’amore sarebbe quel “risalire la corrente” che tenta – con alterna fortuna – di ripristinare lo stato originario dell’essere umano.

Nel racconto biblico le razze umane si divisero poi con i figli di Noè, «Sem, Cam e Iafet» (Gen 5, 32), le cui discendenze si sarebbero rispettivamente disperse in Medio-oriente, in Africa e in Europa. Dopo il diluvio – evidente contesto di peccato e pena – anche la Bibbia (come altri testi coevi) fa esplicito riferimento alla preoccupazione di Dio per il potere degli uomini uniti (Gen 11, 1-8): così si narra la genesi della differenza linguistica – e già in epoche veterotestamentarie fu un problema di non poco conto correggere il tiro di quel testo arcaico che attribuiva all’Eterno una meschinità ben poco divina.

La questione del culto è più delicata, perché anche la religione non si manifesta affatto nello stato edenico: in quel giorno (il Talmud dice che la permanenza dell’uomo in Eden non arrivò a dodici ore) Adamo ed Eva passeggiavano con Dio, ma non lo “pregavano”, non esisteva alcun “culto”. Anzi, il testo di Genesi è preciso nell’indicare che fu Enos, figlio di Set, quello con cui «si cominciò [chi? il testo non lo dice: usa verbi impersonali] ad invocare il nome del Signore» (Gen 4, 26). E attenzione, chi è Set? Il terzo figlio di Adamo ed Eva, quello che tutti dimenticano ma che viene dato alla “madre di tutti i viventi” proprio “in sostituzione di Abele”: il suo nome infatti vorrebbe significare che «Dio mi ha concesso un’altra discendenza al posto di Abele, poiché Caino lo ha ucciso» (Gen 4, 25). Ancora il dramma del peccato iscritto nel nome di un uomo – di quell’uomo «al cui tempo si cominciò a invocare il Signore»

Eppure sappiamo che proprio il culto fu causa della gelosia di Caino, che lo portò al primo omicidio della pre-istoria (che fu un fratricidio): lo si dice all’inizio della medesima pagina (Gen 4, 3-5). La Scrittura sembra accennare a diversi stadî di sviluppo del senso religioso, e ancora fino al culto noachico non s’intravvedono tracce di idolatria: in Gen 6, 5 si parla di una “grande malvagità” degli uomini, e si dice genericamente che «ogni disegno concepito dal loro cuore non era altro che male», ma in nulla è dato di poter cogliere un preciso riferimento cultuale (neppure paragonabile alla differenza tra le due offerte di Caino e di Abele).

Fino a quando «tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole» (Gen 11, 1) – cioè fino all’inizio della vera e propria storia biblica – non si fa cenno ad altra relazione con Dio che non fosse quella delle alleanze di Adamo e di Noè. Ma il capitolo della Torre di Babele, «donde il Signore li disperse su tutta la terra, ed essi cessarono di costruire la città» (Gen 11, 8) è pure quello in cui compare il nome di Abramo. Adesso la scena si svolge a “Ur dei Caldei”, che la maggior parte dei critici identifica con la cittadina mesopotamica prossima alle foci del Tigri e dell’Eufrate, siamo da poco al di qua della soglia del secondo millennio avanti Cristo (in genere si conviene per il 1.800 a.C.): parlare di una “religione mesopotamica” o sumerica è quasi insensato, tante sono le varianti particolari relative ai luoghi e ai tempi – sembra irragionevole tuttavia dubitare che il contesto sia diffusamente politeistico, nonché idolatrico.

Tuttavia, da quel (poco) che sappiamo dei templi e dei culti della regione, si praticavano sacrifici vegetali e animali alle divinità locali: la divinità unica e gelosa che spinge Abramo ad allontanarsi dalla sua patria, invece, avrebbe chiesto all’“arameo errante” un sacrificio umano – e il sacrificio del figlio. Certo, fu per saggiare il cuore del Patriarca – così dice lo stesso testo biblico – ma è in ricordo di quell’evento (ricordato anche nella Sura 14 del Corano) che l’Islam celebra ogni anno la “festa del sacrificio”, proprio per ricordare il primato assoluto della volontà di Dio nel dominio dell’etica e della morale. Attenzione: simili considerazioni le faceva anche il pastore (non cattolico ma cristiano) Søren Kierkegård…

Anche nella Bibbia, del resto, si trova un riferimento all’idolatria circostante in età patriarcale, quando l’agiografo riferisce che – nell’atto di fuggire dalla casa paterna con la sorella e col marito Giacobbe – Rachele trafuga gli idoli del padre Labano (Gen 31, 19-35). Dunque il nipote di Abramo aveva un suocero – coetaneo di Isacco – il quale già possedeva dei simulacri tanto venerati che la bella secondogenita, pur essendo moglie di un monoteista, non lesina di rubare.

Questo testualmente nella Bibbia. Tornando a Isacco e al sacrificio, poi, non si deve credere che l’esemplarità dell’episodio del monte Moria sia rimasto privo di significato fuori dal contesto culturale islamico: per i cristiani – e ciò fin dai primi apologisti – Abramo fu misticamente presago del sacrificio di Cristo quando disse al figlio che «Dio stesso provvederà l’agnello per l’olocausto» (Gen 22, 8), e lo stesso Isacco carico della legna per il sacrificio sarebbe stato agevolmente letto come figura Christi, plasticamente evocatrice della salita al Calvario. Insomma, l’Alleanza con Dio richiede – anche nel culto abramitico e anzi, relativamente prima lì che altrove – il più alto sacrificio umano pensabile: l’immolazione del figlio. «Tuo figlio, il tuo unico figlio» (Gen 22, 12) è per il cristiano l’eco della voce del Dio unitrino che nell’amore di un uomo per il proprio bambino vede il riverbero (ancora “anonimo”) della propria (ancora segreta) vita divina.

Del resto il culto fondativo di Israele è quello del contraccambio da offrire al proprio divino vendicatore: Dio ha riscattato Israele – e ne ha cementato per sempre l’unità etnica/nazionale – sterminando

nel cuore della notte ogni primogenito nel paese d’Egitto, dal primogenito del faraone che siede sul trono fino al primogenito del prigioniero nel carcere sotterraneo, e tutti i primogeniti del bestiame [Ex 12, 29].

E quei patti – stipulati col sangue dell’agnello senza difetti (Ex 12, 5) – furono chiarissimi e durissimi:

Quando il Signore ti avrà fatto entrare nel paese del Cananeo, come ha giurato a te e ai tuoi padri, e te lo avrà dato in possesso, tu riserverai per il Signore ogni primogenito del seno materno; ogni primo parto del bestiame, se di sesso maschile, appartiene al Signore [Ex 13, 11-12].

Salvo poi mitigare l’applicazione della norma con l’offerta della “clausola di riscatto”, per la quale il primo parto di un’asina poteva essere riscattato con del bestiame minuto (l’asino è forza lavoro, per un contadino seminomade privarsene poteva risultare di un’irragionevolezza assurda); allo stesso modo si poteva riscattare «ogni primogenito dell’uomo tra i tuoi figli» (Ex 13, 13).

Così le scritture giudaiche combattevano la pratica dei sacrifici umani (comuni a diversi culti cananaici) ma non la delegittimava in principio. Perché? In sintesi, per due ragioni:

  1. Anzitutto una questione di “comunicazione”: Israele viveva in mezzo a popoli che praticavano quei rituali cruenti, non sarebbe stato facile distoglierne i membri della propria comunità;
  2. In secondo luogo una questione teologica e mistica: in modo ctonio e inesprimibile, ma Israele avvertiva che davvero in quel versamento di sangue si evocava una qualche tremenda verità – qualcosa che dicesse al contempo della storia, dell’uomo e di Dio. Appunto ciò che l’autore della Lettera agli Ebrei, commentando il culto antico e spiegandone il superamento cristologico, conferma pure: «Senza spargimento di sangue non si dà remissione dei peccati» (Heb 9, 22).

La vita dell’uomo sulla terra conserva l’indecifrata memoria di una ferita originale – è pure quanto descrisse Freud in Totem e tabù –: la dottrina del peccato originale, di riflesso alla professione di fede in Cristo, è il tentativo più vasto e onnicomprensivo che gli uomini – a partire da una Rivelazione divina data e accolta – abbiano compiuto per decifrare la memoria di quella ferita. E per curarla.

La fede cattolica s’impegna a ricercare e riconoscere quei «semi del Verbo» che anche le religioni non cristiane conservano, e questo ha portato più di una volta i missionari cristiani a fermare i sacrifici umani mostrando che quanto malamente gli uomini cercano in essi è stato dato loro gratuitamente nella Croce di Cristo… e che i riti antropofagi sono tutti per sempre superati dall’Eucaristia.

Qui occorre fare attenzione, perché stiamo incrociando categorie teologiche e categorie di antropologia culturale: ne risulta fatalmente la domanda “dunque pensando a Cristo Dio voleva che da qualche parte in qualche tempo gli uomini uccidessero i figli e ne mangiassero le carni?”. No, ovvero: non in questi termini. Come Dio non voleva che l’uomo sapesse di essere nudo (Gen 3, 11) – eppure nudo e intelligente lo aveva fatto, libero ma non malizioso – e come lo stesso Dio si cura di coprire all’uomo caduto quella stessa nudità che per di lui colpa gli era diventata motivo di vergogna (Gen 3, 21); così Dio pazientemente e in modo longanime avvia e ordina alla propria rivelazione ciò che resta di quel nativo senso religioso, il quale inevitabilmente – ricaduto nella natura corrotta – si è depravato in forme aberranti. Insomma Dio non condanna l’umanità nelle sue depravazioni, ma si degna di passare anche tramite quelle per conseguire il proprio fine – «Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità» (1Tim 2, 4). Così «da principio […] Dio li fece maschio e femmina» (cf. Mt 19, 4-5), ma Giacobbe fu bigamo e i re d’Israele ebbero innumerevoli concubine; allo stesso modo Dio comandò ai Protoplasti di essere fecondi ma neppure un rigo di biasimo dell’agiografo si legge nella pagina che narra di Iefte che sacrifica a Dio la figlia ex voto per la vittoria in guerra (Gdc 11).

Ora – per dirla con le parole di Paolo ad Atene – dopo esser passato sopra ai tempi dell’ignoranza, Dio ordina a tutti gli uomini di tutti i luoghi di ravvedersi, poiché egli ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare la terra con giustizia per mezzo di un uomo che egli ha designato, dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti [Act 17, 30-31]

E questo comando di Dio, si prolunga nella storia come la missione della Chiesa. Perciò nella sua prima lettera Pietro richiama «la pazienza di Dio ai tempi di Noè» (cf. 1Pt 3, 20) e nella seconda invita gli uomini a «considerare salvifica la longanimità» (2Pt 3, 15) con cui ancora Dio dà tempo e modo agli uomini di convertirsi.

Conclusione

In sintesi, quindi, possiamo dire che secondo la rivelazione scritturistica tutti i capi di differenza tra gli uomini (con la sola eccezione – pure contestata da alcuni antichi e importanti scrittori ecclesiastici – della differenza sessuale!) hanno a che fare col peccato. Dunque cos’è che vuole, Dio? Certo non il male: a suo tempo Tommaso ci spiegò che per Dio è impossibile volere il male. In sé. Egli può però volere accidentalmente il male, e perfino esserne “agente” (cf. Is 45, 7), esclusivamente in quanto si astiene dall’impedirlo («non quidem agendo aliquid, sed potius non agendo», Tommaso, In 2 Sententiarumdist 37, q. 3, a. 1, solutio).




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Nella Summa Theologiæ il Doctor Angelicus aveva specificamente trattato la domanda se Dio voglia il male (S. Th. I, Q. 19, a. 9), e così rispondeva:

Siccome la nozione di bene coincide con la nozione di appetibile, come già vedemmo [q. 5, a. 1], e siccome il male è l’opposto del bene, è impossibile che una cosa cattiva, in quanto tale, sia oggetto di desiderio da parte dell’appetito naturale, o di quello animale, o di quello intellettivo, che è la volontà. Una cosa cattiva però può essere oggetto di desiderio indirettamente, in quanto è unita a un bene. E ciò si riscontra in ognuno dei [tre] generi di appetiti. Infatti una causa fisica non ha [direttamente] di mira la privazione o la distruzione [che di fatto produce], ma una forma alla quale è legata la privazione di un’altra forma, o la generazione di un essere che comporta la distruzione di un altro essere. Come anche il leone, nell’uccidere un cervo, mira direttamente al cibo, al quale è congiunta l’uccisione dell’animale. E allo stesso modo il fornicatore cerca il piacere, al quale è unita la deformità della colpa. Il male però che si presenta unito a un dato bene è privazione di un bene d’altro genere. Quindi un male non sarebbe mai desiderato, neppure indirettamente o accidentalmente, se il bene a cui è congiunto il male non fosse più desiderato di quel bene che il male esclude. Ora, Dio nulla desidera più della sua stessa bontà; ci sono però dei beni che egli preferisce ad altri. Per cui il male della colpa [il peccato], che allontana dal bene divino, Dio non lo vuole in alcun modo. Invece egli può volere quel male che è una deficienza della natura, o il male della pena, quando vuole un bene a cui è unito quel male: come nel volere la giustizia vuole la pena, e volendo la conservazione dell’ordine naturale vuole che certi esseri naturalmente periscano.

Le difficoltà da lui sciolte sono tutte e tre interessanti, ma per noi è forse più rilevante la terza, che corrobora il senso cattolico in cui è possibile (quindi doveroso!) recepire la lezione del Documento ove si parla di “sapiente volontà di Dio” in merito al pluralismo:

È vero che tra “il male esiste” e “il male non esiste”, c’è contraddizione; non è vero però che vi sia tale opposizione contraddittoria tra “volere che il male avvenga” e “volere che il male non avvenga”, dato che ambedue le proposizioni sono affermative. Dio, dunque, non vuole che il male avvenga, e neppure vuole che il male non avvenga, ma vuole permettere che il male avvenga. E questo è un bene.

La pace a cui il documento mira non è un’impossibile armonia di opposti inspiegabilmente riconciliati – quella sarebbe la “pace” dell’Anticristo di Solov’ëv – bensì un cammino, un processo fatto di conoscenza e di fiducia reciproche. Tutti noi siamo coinvolti, e proprio con una scelta che riguarda il bene e il male: possiamo infatti cercare di prendere parte al percorso oppure estraniarcene e presumere di aver così fatto il nostro.

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