La recensione del volume di Mustafa Akyol “The Islamic Jesus” (2017) edito da St. Martin’s PressPapa Francesco è volato ad aprile al Cairo, a incontrare il grande imam Ahmad al-Tayyib, shaykh di una delle più prestigiose istituzioni dell’Islam sunnita. Si moltiplicano i gesti che invitano a formare un fronte unico contro la violenza e il terrorismo, ma molto spesso gli atroci attentati e i conflitti in atto nel mondo musulmano (ma non solo) raccontano una realtà in cui sono più i baratri e le incomprensioni tra le grandi religione monoteiste che i tentativi di dialogo. È intrigante quindi, alla luce di questo contesto, la lettura di The Islamic Jesus, l’ultimo lavoro dello scrittore e giornalista turco Mustafa Akyol. Si tratta di un percorso rigoroso di lettura delle fonti della tradizione ebraica, cristiana e musulmana che mette al centro la figura di Gesù come elemento comune di queste tre grandi religioni monoteiste. L’obiettivo di Akyol è subito dichiarato nell’introduzione:
«Esplorerò come le tre grandi religioni abramitiche del nostro malconcio mondo, nonostante tutte le tensioni presenti e passate tra di loro, si ritrovino unite nella storia di un uomo incredibile – questo Gesù di Nazareth. Ebrei, cristiani, musulmani, condividiamo tutti o una fede da lui seguita, o una fede da lui costruita, o una fede che lo venera» (p. 8)
Se per i cristiani Gesù Cristo, nato da Maria Vergine, morto e risorto, è il Figlio di Dio, per i musulmani Gesù, figlio di Maria, è un Profeta venerato con un posto speciale nel Corano. Non ne è però riconosciuta la natura divina. In mezzo, secondo Akyol, ci sarebbe la posizione dei giudeo-cristiani, ovvero di quanti, nel popolo ebraico, hanno riconosciuto in Gesù il Messia atteso, ma sono rimasti legati alla Legge mosaica, opponendosi a Paolo. Il loro credo, solidificatosi nella Gerusalemme del primo secolo, è svanito con il tempo per ricomparire molto simile – anche se lo stesso Akyol ammette come manchino prove storiche capaci di dimostrare una connessione diretta – nell’Arabia del VII secolo, ai tempi di Muhammad.
Tuttavia Akyol non si ferma al tentativo di stabilire legami tra le tre religioni monoteiste attorno alla figura di Gesù, attingendo con acume e coraggio a un secolo di studi sul contesto del Corano, ma solleva provocatoriamente una domanda con un aggancio forte all’attualità. Che cosa – si chiede – può insegnare all’Islam il Gesù del Nuovo Testamento? L’autore traccia un paragone. E per farlo ricorre alle teorie dello storico britannico Arnold Toynbee, che nel 1948 in Civiltà alla prova aveva descritto una crisi interna all’Islam (come Bernard Lewis più tardi in La Crisi dell’Islam), in decadenza e frustrato nei confronti di un Occidente sempre più competitivo socialmente, culturalmente e tecnologicamente. In una condizione simile – scriveva Toynbee – si erano trovati nel primo secolo a.C. gli ebrei di Gerusalemme, soggiogati dalla potenza di Roma. Questa condizione di estrema frustrazione socio-culturale aveva portato così alla creazione di fazioni: chi imitava i romani, gli erodiani, e chi proponeva invece una lotta senza quartiere armi alla mano, gli zeloti, con l’obiettivo ultimo di instaurare un regno terreno caratterizzato da una stretta aderenza alla legge religiosa.
Akyol, sulla scia di Toynbee, paragona i primi ai laicisti alla Kemal Atatürk, e i secondi ai jihadisti, sostenitori di una lettura iper-letterale dei testi sacri. Ma aggiunge che nella Gerusalemme antica Gesù arriva proprio a scardinare questa dicotomia. E qui starebbe l’attualità del suo insegnamento all’Islam: senza prendere partito con Roma, Gesù ha insegnato che la fede non passa attraverso una stretta aderenza alla legge religiosa e un progetto politico. Il «Regno di Dio», il «Califfato» nel paragone con i fondamentalisti dell’Islam moderno, assumeva per gli zeloti la forma di regno terreno, ma Gesù rettifica: «Il Regno di Dio è dentro ognuno di voi», come recita Lc 17,21 in una delle traduzioni possibili del testo greco.