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Notizie dal mondo: sabato 26 gennaio 2018

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pixabay

Paul De Maeyer - pubblicato il 28/01/19

USA: «shutdown» finito, almeno per ora

Negli USA è finito lo «shutdown», almeno per ora. A porre fine al più lungo blocco parziale delle attività federali della storia del Paese – 35 giorni – è stato il presidente Donald Trump, che nella serata di venerdì 25 gennaio ha firmato un provvedimento approvato «nel giro di ore» dal Congresso, come sottolinea USA Today. Si tratta però di una «riapertura» solo provvisoria del governo. Il testo infatti non prevede i fondi per il muro anti-migranti, che il presidente vuole costruire a tutti i costi al confine col Messico. Trump, che ha chiesto 5,7 miliardi di dollari, ha perciò annunciato che se non si raggiungerà un «accordo equo», lo «shutdown» scatterà nuovamente il 15 febbraio prossimo.

Mentre l’ala conservatrice in seno al partito repubblicano è molto dura nei confronti del presidente – in un tweet l’opinionista di destra Ann Coulter ha suggerito che Trump è «il più grande pappamolle che abbia mai servito come presidente» – e lo accusano di aver ceduto su tutta la linea ai democratici, l’inquilino della Casa Bianca è di tutt’altro parere. «Non è stata in alcun modo una concessione», ha scritto Trump in un tweet, ma un «occuparsi dei milioni di persone colpite duramente dallo shutdown». La pressione sul presidente era infatti molto grande: 800.000 dipendenti federali senza stipendio e voli bloccati in vari aeroporti, tra cui LaGuardia a New York.

Venezuela: l’UE aumenta la pressione su Maduro

Nell’arco del pomeriggio di sabato 26 gennaio l’UE ha trovato all’unanimità un accordo sulla crisi in Venezuela e ha chiesto al regime di Nicolás Maduro «l’urgente svolgimento di elezioni presidenziali libere, trasparenti e credibili», come si può leggere in una dichiarazione dell’Alta rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini. «L’UE ripete che le elezioni presidenziali dello scorso maggio in Venezuela non sono state né libere, né corrette, né credibili, prive della legittimità democratica. Il Paese ha urgente bisogno di un governo che rappresenti veramente la volontà del popolo venezuelano», così continua la dichiarazione. «In assenza di un annuncio sull’organizzazione di nuove elezioni con le necessarie garanzie, nei prossimi giorni, l’UE intraprenderà ulteriori azioni, incluso sulla questione del riconoscimento della leadership del Paese, in linea con l’articolo 233 della Costituzione venezuelana», avverte il testo.

Prima dell’accordo, quattro Nazioni europee – Francia, Germania, Spagna e anche il Regno Unito – avevano già posto un ultimatum a Maduro. «Non cerchiamo di imporre o rovesciare governi, vogliamo democrazia e libere elezioni in Venezuela», ha scritto il premier spagnolo Pedro Sánchez in un tweet. Se tra otto giorni non ci sarà la convocazione di «elezioni eque, libere, trasparenti e democratiche», la Spagna riconoscerà Juan Guaidó come presidente del Venezuela, continua il messaggio.

La crisi nel Paese sudamericano è stata al centro di un aspro dibattito in seno al Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite, durante il quale l’ambasciatore russo presso l’ONU, Vassily Nebenzia, ha accusato gli USA di «orchestrare un colpo di Stato» in Venezuela, riporta il sito ABC News. «Se qualcosa rappresenta una minaccia alla pace, sono le azioni spudorate e aggressive degli Stati Uniti e dei loro alleati nel cacciare il legittimo presidente eletto del Venezuela», ha detto Nebenzia. Assieme con Cuba e Bolivia, la Russia è uno dei più grandi sostenitori di Maduro. Secondo El País, mercenari o paramilitari russi sarebbero già nel Paese per aiutare l’uomo forte di Caracas. Si tratterebbe di cosiddetti «contractors» del gruppo Wagner (o Vagner), già presenti in Paesi come Siria e anche Sudan.

Grecia: il parlamento accetta accordo sul cambio del nome della Macedonia

Potrebbe essere «il passo diplomatico più significativo nei Balcani dalla fine della guerra in Bosnia», così scrive il sito della CNN, che presenta l’approvazione da parte del parlamento greco dell’accordo già definito «storico» sul cambio del nome della Macedonia. Il parlamento unicamerale di Atene o «Vouli» (scritto «Βουλή», proprio come l’organo legislativo ateniense dell’Antichità) ha accettato infatti venerdì 25 gennaio con una strettissima maggioranza (153 voti su 300) il cosiddetto «accordo di Prespa» firmato nel giugno scorso tra Atene e Skopje sul cambio del nome provvisorio del Paese balcanico da FYROM (l’acronimo sta per «Former Yugoslav Republic of Macedonia») in «Repubblica di Macedonia del Nord».

Il voto, che pone fine ad un’«aspra e decennale disputa bilaterale», è una vittoria per il primo ministro greco Alexis Tsipras, la cui coalizione di governo era saltata domenica 13 gennaio in seguito alle dimissioni del ministro alla Difesa e capo del partito nazionalista dell’ANEL (Greci Indipendenti), Panos Kammenos, per le divergenze ormai «inconciliabili» con Tsipras proprio sulla questione macedone. «Abbiamo scritto oggi un nuovo capitolo della storia dei Balcani», ha dichiarato il premier greco, citato da Le Temps. Il voto apre del resto la porta all’ingresso di Skopje nella NATO, al quale Atene si era finora sempre opposta proprio per la questione del nome «Macedonia», che per molti greci è infatti parte integrante ed esclusiva del patrimonio culturale ellenico.

Brasile: centinaia di dispersi per il crollo di una diga di scarti minerari

Il crollo di una diga di scarti minerari ha provocato venerdì 25 gennaio a Brumadinho, nella regione metropolitana di Belo Horizonte, la capitale dello Stato brasiliano del Minas Gerais, finora 40 vittime. Lo scrive il sito UOL. I dispersi sono circa 300. Il cedimento della diga ha provocato una marea di fango, che ha invaso in pieno anche la mensa della miniera di ferro di proprietà della società brasiliana Vale SA, nella quale stavano pranzando vari operai, come riporta la BBC. Mentre nella zona piove fortemente, ad ostacolare ulteriormente le operazioni di soccorso è la mancanza di elettricità e segnali di telefonia mobile, che consentirebbero la localizzazione delle persone disperse. Secondo il governatore dello Stato di Minas Gerais, Romeu Zema, sono poche le possibilità di trovare ancora persone in vita.

Mentre il nuovo presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, ha sorvolato sabato 26 gennaio la zona colpita e ha annunciato di aver accettato l’aiuto di Israele, che manderà la tecnologia speciale capace di individuare le persone sepolte sotto la melma, non è la prima volta che una simile tragedia colpisce il più grande Paese sudamericano. La rottura di un bacino di decantazione di una miniera causò nel novembre del 2015 sempre nello Stato del Minas Gerais 19 vittime. La tragedia di Mariana era il peggior disastro ambientale nella storia del Brasile.

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